Vita di Gino Canepa raccontata da lui stesso








1. Muratori, contadini, camalli, operai

La mia era una famiglia di muratori e veniva da Voltri. Dev'essere per questo che mi chiamo Canepa. Da lì è partito un mio bisnonno - sarà stato la metà dell'Ottocento - per venire qui vicino, a Torrazza, dove tanti facevano i muratori e a anche lui e i suoi figli, mio nonno e tutti i suoi fratelli, facevano i muratori. Poi mio nonno Alberto, dopo che gli era morta anche la seconda moglie, è venuto a Begato dove s'è messo a fare il contadino per potere stare a casa con i figli. Se no, a chi li avrebbe lasciati? Così è diventato contadino; in affitto. E in casa ho i contratti di allora: roba da matti quanto pagavano; roba da matti. E per una villa che adesso non la vuole nessuno, nemmeno gratis. Poi, nel 1911, mio nonno ha comprato sta casetta con un po' di terra in giro, ai Coronelli, che ci abito ancora oggi, da uno che gli doveva dei soldi per dei lavori di muratura che gli aveva fatto in casa. In seguito mio padre ha comprato qualche pezzetto di terra sempre qua attorno per cui alla fine sono venuti tre o quattromila metri, a parte dei piccoli pezzi di bosco che abbiamo là sulla costa.
Mio nonno era un muratore per necessità diventato contadino - le sue mogli invece erano tutte e due di famiglia contadina, Poggi, di S. Olcese - mio padre era un portuale e io faccio l'operaio. Un cambiamento tutto in cinquant'anni. La mia generazione era quella che cominciava un po' a studiare e forse i miei avrebbero avuto la possibilità di farmi studiare un po' di più se a mio padre non l'avessero consigliato così. S'era messo nelle mani di un certo Figari, il direttore delle scuole di Rivarolo: era un fascista e avrà pensato "un figlio di portuale tutt'al più può diventare un portuale o un operaio, mica un ragioniere". E così invece di fare l'esame di ammissione che si usava per andare avanti dopo le elementari mi ha mandato alla Gaslini, a Bolzaneto. Era una scuola molto dura ma anche interessante. L'avevano voluta certi industriali come Gaslini, Bruzzo, Lo Faro per formare i loro capi. Facevamo nove ore di scuola al giorno, per sei giorni alla settimana. Di officina mi sembra che ne facessimo tre giorni e poi facevamo tanta tecnologia. Ma studiavamo anche Shakespeare. C'erano dei professori colti. Ricordo il professore di italiano e quello di francese, un uomo ricco che aveva girato tutto il mondo. Avrà avuto 50 o 60 anni, era rimasto senza soldi e s'era messo a fare il professore. Sapeva bene le lingue e raccontava delle belle storie. Al Gaslini si faceva tre anni e poi avevi finito. Non si poteva andare in altre scuole. Mi ricordo che mio padre era rimasto meravigliato quando gli ho detto: "pa', basta; ho finito". E lui: "figurati, la gente studia fino a 25 anni e tu che ne hai 14 hai già finito?" Ha voluto andare di persona a vedere che storia era quella lì e loro hanno confermato: "sì, sì, ormai ha la sua licenza e verrà certamente capo in qualche fabbrica". E lui è rimasto abbastanza contento perché, insomma, un capo e con poca spesa. Sarà stato nel '34 o '35 e io avrò avuto 14 anni, perché sono nato nel '21, a novembre.
Era una scuola seria: niente ripetenti; se eri bocciato sparivi. Una scuola privata che facevano andare come serviva a loro, ai vari Bruzzo, Gaslini e agli altri. I professori erano ingegneri dentro le loro fabbriche o gente che lavorava per loro e che lasciava il mestiere, magari per un po', per venire lì. A dirigere tutto c'era Zoboli, che poi è risultato essere il padre dell'attore Alberto Lupo.
A mio padre che io diventassi tornitore sembrava importantissimo. Lo considerava più che essere portuale. I portuali allora erano camalli e io non avrei più camallato, non avrei portato più niente sulle spalle: gli sembrava un passo avanti. Camalli: portavano pesi enormi. Era una gara perché più portavi più ne toccavi. Per impedire che si sciancassero troppo già allora c'era la regola che non si doveva portare più di 120 k ma erano tutti d'accordo per aggirarla. Facevano così: fino a 100 k marcavano giusto e poi mettevano l'unità al posto della decina. Così che ti marcavano 103 k era sottinteso che ne avevi portato 130. E c'era chi - e non pochi - ne portava anche 150 o 200.
L'infanzia l'ho passata a Begato. Le scuole le ho fatte a Begato e il giovedì si faceva festa ma per un bambino come me era festa per modo di dire. Ci sono le famiglie dove magari il padre è ingegnere, la moglie professoressa e così via e lì lo studio è la cosa più naturale che ci sia. Non è questione "se avrai voglia" o "se potrò o non potrò"; non se ne parla nemmeno: "studierai!" Così era il lavoro per quelli come me. Avevo 6 anni e, quando avevo finito i compiti, ti facevano lavorare. Piccole cose ma si doveva farle: mettere a posto la legna, portare qui, fare là. Era la famiglia contadina di allora: tutti sotto, dal vecchio di 90 anni al bambino di 4 o 5 che, appena sta in piedi, "vammi a prendere un po' questo o portagli un po' quello". Io ero figlio unico, mio padre faceva il portuale e, come miseria, non era neanche una cosa proprio disperata, ma la mentalità era quella. Certo, in seguito avrei studiato ma intanto dovevo cominciare a lavorare. Non c'era scampo. Neppure si pensava che un uomo potesse non lavorare. E è una cosa che va avanti ancora oggi. Per cui giocare si giocava poco; se riuscivi a nasconderti un po', che non ti vedevano, allora era facile che qualche gioco con gli amici lo imbastivi, ma sempre tra un lavoretto e l'altro. Così fino al tempo della scuola di Bolzaneto. Allora, d'inverno, dormivo a Bolzaneto da mia zia: si entrava alle sette e mezza la mattina e si usciva alle sette mezza la sera. Delle schienate da matti. Ma anche d'estate sempre lavori e lavoretti.
Mi mandavano dai parenti a Molassana o a Camporsella, vicino a S. Lorenzo di Casanova, dove i parenti avevano una villa. In casa mia non si poteva star lì e allora andavo sui monti a tagliar l'erba. Io però non tagliavo l'erba, perché ero giovane, ma andavo su e giù con quei legni attaccati a una rete, che servono a tenere insieme il fieno, con le taglie, di ferro, pesanti come un boia - saranno state 5 k l'una, e a portarci da mangiare. Ricordo che quando hanno varato il Rex, erano a tagliare dietro al forte Diamante, dove c'è stato ferito quel poeta che aveva l'amante a Sestri - si chiama Foscolo no? - e io sarò andato su e giù almeno tre volte. Ora che ci penso dev'essere stato quel periodo lì che sono diventato comunista. Era estate e ci alzavamo appena cominciava il chiaro. Non è che gli orologi allora servissero tanto. Quelli che tagliavano andavano su prima e lasciavano detto di portare 5, 6 taglie, tutte quelle che potevo portare. "Intanto vai con le taglie, mi dicevano in casa, poi torni e ti preparo il latte da portar su". Le taglie sono delle carrucole; da una parte c'è la ruota, l'incavatura, come quella dove ci passa la corda da stendere e dall'altra c'è un gancio. Inganci il gancio nel fascio di fieno e via…
Per andare fino al Diamante c'era un'ora buona di strada, anche un'ora e un quarto. Arrivavo lassù, mollavo le taglie e giù di corsa indietro a prendere il latte. Era un bidoncino per tre o 4 uomini, un casino a portarlo. "Stai attento a non rovesciarlo" mi dicevano. Arrivavo da loro, mollavo il latte e mentre loro lo bevevano mi mandavano lontano, quasi a Trensasco a prendere l'acqua: "Vacci a prendere un po' d'acqua, vai". Poi, dopo l'acqua, torna di nuovo giù con i vuoti e per andare a riprendere le taglie da portar su. Mi ricordo che era la terza volta che andavo su e ho visto arrivare un belin di bambino di città, con un padre ben vestito, con una di quelle maglie che si usava allora con quelle due pallette sotto la gola. E il ragazzino era di tutti i colori per la fatica che aveva fatto ad arrivare lassù. Comunque tutto diverso da me. Ricordo che il padre parlava con questi uomini che tagliavano l'erba e diceva che questo figlio lo portava lassù perché non aveva appetito. "Non mangia, è gracile", diceva. E io, che era la terza volta che venivo da là in fondo, lo avrei strangolato quel belin di bambino tutto bianco, sudato e con le sue maschette rosse. Odiavo quei bambini lì. Credo che se fossimo rimasti soli lo ammazzavo subito. Ma guarda sto bastardo, dicevo tra me, col suo bastoncino, che non camalla niente e io sempre pieno di roba sulle spalle che mi scivolava da tutte le parti. Lo guardavo e provavo un sentimento di violenza. Forse si viveva nella violenza e non ce ne accorgevamo.
Mi ricordo di certi divertimenti barbari. Ci piaceva giocare in quel punto dove comincia la strafia, quei cavi dove ci attacchi i carichi di fieno. Lassù c'era un ragazzino che ci giocavo sempre insieme. Facevamo una specie di gancio di legno, ci attaccavamo e ci lasciavamo scivolare fin sul bordo del precipizio. Lì frena tutto e ci mollavamo a terra. Una volta lui non ha fatto a tempo a frenare e è partito; è andato giù, si è ammazzato. Con lui avrò fatto quel gioco a dir poco cinquanta volte ma non ci siamo mai detti niente, né ciao, né chi sei; niente. Non c'era niente da dire, solo fare quel gioco lì, una volta per uno, svelti, zitti; e stare attenti che gli altri non ci vedessero.


2. Begato

Allora Begato non era molto diversa da oggi: niente carrozzabili, tutte mulattiere. Nella bottega la roba la portavano col mulo. Al sabato tutte le donne andavano a comprare a Rivarolo. Begato era un paese di lavandaie; c'era molta acqua; lavavano per gli alberghi di Genova. Si potrebbe considerarlo un paese ricco; ricco rispetto alla miseria. C'era da mangiare, c'erano i contadini, i portuali, le donne che lavavano e che facevano proprio quel lavoro lì, non erano contadine. Caricavano degli asinelli con la roba pulita e la portavano giù, al Colombia, al Miramare. C'erano poi quelli che portavano la roba al mercato. Ciliegie, fichi, pere - magari non tante - e poi patate e vino. Lassù era tutta vigna. Anche da me: sopra la casa, la piazza… Un vino discreto, non eccezionale.
I padroni della terra lavoravano poco. Erano quelli a pigione, come era stato mio nonno prima di comprare, che lo mantenevano. Bastava che un padrone avesse due ville come quella di mio nonno e, magari facendo qualche altra cosetta, campava benissimo. Quand'ero ragazzo io, chi aveva la terra era considerato un benestante; aveva le vacche, il mulo e ci poteva campare. Erano i poveri che andavano a lavorare in porto. Ci sono stati casi di affittuari che piuttosto che accettare una pigione alta, quando era stato possibile, avevano mollato la villa per andare a fare il portuale, magari tenendosi un pezzetto per i giorni di festa, perché là in porto il lavoro non era continuo.
Poi, dopo che erano diminuiti i contadini, sono diminuiti anche i portuali: è stato a seguito della prima guerra ma al porto la botta definitiva gliel'ha data fascismo. Invece gli operai sono aumentati. Adesso a Begato sono tutti operai; di contadini che vivono della terra, la propria, ce ne devono essere due. Ho un vicino di casa che ha sempre fatto il contadino: vite bestiali per guadagnare niente. Ma per un certo periodo, il contadino che possedeva della terra, anche se andava indietro rispetto alle possibilità del portuale, ha continuato a sentirsi ricco. Per convincersi cercava delle ragioni: "Per me la campagna è meglio, diceva, non suona la sirena, sono più libero". Aspettava il giorno che il lavoro "in giù" sarebbe entrato in crisi mentre la sua terra tornava importante. Un po' è successo perché la crisi degli anni Trenta in fondo per questi posti è stata anche un affare. Il massimo è stato durante la seconda guerra quando la gente veniva qui dalla città a comprare da mangiare.
La batosta grossa è venuta in questo dopoguerra. Perché prima, fatica o non fatica, le pesche si vendevano e se non riuscivi a venderle le lasciavi al mercato. Ne andava una bene e tre male - quest'anno il prezzemolo non vale niente, l'anno prima invece era andato bene - ma si tirava avanti e dalla fame si toglievano. Quando io sono entrato in fabbrica, nel '37, e ho conosciuto la gente di città, era molto più misera di noi; non avevano niente da mangiare. A Begato famiglie così non ce n'era; forse qualche ferrarese - che allora i ferraresi erano un po' come i calabresi di oggi - ma poi si mettevano a posto. Prima c'erano i romagnoli che ci sono i circoli, le società ancora adesso. Genova ha sempre importato gente. Penso che prima di tutti siano arrivati i napoletani perché quando ero ragazzo a uno che era foresto gli dicevano napoletano. "Quellu lì, dicevano, l'è in napuliten" e magari era di Belluno. Chi non parlava genovese era napoletano. Dopo i napoletani, prima e dopo la prima guerra, sono arrivati i romagnoli. Erano persone che si facevano il circolo per conto suo. Poi, nel Trenta, con la Camionale, sono arrivati i ferraresi, i bergamaschi. Poi anche i bergamaschi sono diventati genovesi e sono cominciai i calabresi. E questo è il periodo dei calabresi.
Non mi ricordo che ci fossero delle ostilità. Magari quel modo che è dei genovesi e forse di altri come dire che sono persone che ci devi stare un po' attento: sun furesti, sun napuliten. I bergamaschi erano dei bestioni che lavoravano da matti. Per fare la camionale ne era arrivata una ondata ma i più alla fine sono spariti. Con loro il sabato sera erano coltellate; una roba da matti. Lavoravano in un modo che i genovesi non ci resistevano. E sì che avevamo la crisi anche qui. I capi li tenevano sotto in un modo che non si immagina. Io li ho visti. Per esempio la carretta non la dovevi tirare, la dovevi spingere perché così la inclini come vuoi e porti più roba. I sassi non li dovevano prendere con le mani, no, e neppure con la pala. Solo con la forca perché rendeva di più. Per loro caricare un camion prendendo i sassi con le mani sarebbe stato un divertimento: uno per uno… Sulla forca invece capita che ce ne rimangano anche tre in una volta. Ma quella era gente che reggeva, sapeva il fatto suo. Poi il sabato prendevano i soldi, sbornia, botte e coltellate. Sempre per motivi di lavoro.
La crisi qui da noi si è sentita meno che in città ma in compenso si vedeva. Il mercato di Certosa, qui all'inizio della strada per Begato, era così lungo che non si vedeva dove finiva. Tutti vendevano. Per esempio ancora oggi c'è un negozio di abiti che si chiama Carletto. Beh quel Carletto era uno che faceva il gruista al Vittoria; fame nera e ha cominciato a andare al mercato a vendere pizzetti. Ci ha saputo fare e poi piano piano è diventato un negozio vero. Invece tanti altri che avevano cercato di ingegnarsi, appena hanno potuto, nel '37 o nel '38, sono tornati in fabbrica.
Mentre la racconto sembra che tutto fosse una gran fatica e devo dire che era proprio così. Ma la cosa che sfugge è che era una vita densa, mi verrebbe da dire ricca, per le persone che incontravi, le parole che scambiavi, i racconti che sentivi, e per i pensieri che facevi magari quando la mattina o la sera andavi o venivi da solo a piedi dal lavoro. I libri che ho letto da giovane li ricordo ancora benissimo perché leggevo la sera e la mattina, quando scendevo dalla costa per andare al lavoro, tornavo a pensarci sopra.
Roba da leggere in casa mia ce n'è sempre stata. Mio nonno leggeva. Leggeva la bibbia e dei libretti su quelle cose lì. Sapeva chi erano gli ebrei, i farisei, roba così. Mio padre meno, comunque lui era per la cronaca. Mia madre invece leggeva e continua a leggere delle belinate: “Confidenze”, Carolina Invernizio, roba così. Io ho letto parecchio: ho cominciato con London, Steinbeck, Cronin… quei libri lì. Ai tempi della scuola leggevo anche Buffalo Bill, Rod Taylor, giornali che erano di moda allora. Mio nonno era cattolico e andava a messa, ma con un certo distacco dai preti. Nel voto era socialista. Come giornali comprava "Il Lavoro". Ho una sua fotografia, di quando io non ero ancora nato, e lui legge “Il Lavoro”.
Leggere era l'unica occasione che avevamo per guardare fuori della finestra o magari anche più dentro casa nostra. Altri confronti non ne avevamo: "turismo" non sapevamo neppure cosa voleva dire. Non si sapeva che ci fosse della gente che girava il mondo per vederlo. No, credo che non si sapesse. C'erano dei cittadini che venivano a Begato nel giorno di festa, parenti, amici, il giorno dopo Pasqua arrivavano a masse, cantavano anche. Facevano delle gite, balli, bicchieri di vino a botti e via così; magari all'ultimo una bella lite e botte; roba del genere.
Anche a ballare di qui e di là la gente ci andava, ma sempre a piedi. Viaggi fuori mai sentiti. Solo per il militare. Per quelli della mia generazione, almeno per me, era già un po' diverso. Io prima di fare il militare avevo già visto Milano e qualche altro paesetto qui dei dintorni come Nizza Monferrato, Novi Ligure, posti così, insomma viaggi per modo di dire. L'invenzione dei viaggi non era ancora stata fatta; non si vedeva. Da militare sono stato parecchio a Napoli dove bombardavano da matti, ma avevamo capito che un posto dove forse non avrebbero bombardato era Pompei. Allora nelle giornate libere prendevamo su e andavamo a Pompei. Mangiavamo ostriche fresche, 50 lire l'una, e andavamo a dormire a Pompei. Lì non c'era nessuno, si capisce, niente turisti, mentre a Napoli bombe dell'accidente. Solo i guardiani che volevano farci vedere questo e quell'altro non tanto per la cultura ma per rimediare quelle 50 o 100 lire e noi li stavamo a sentire e andavamo qua e là a vedere. Fosse adesso me la guarderei per benino Pompei, ma allora lo scopo principale era che lì non ci bombardavano.
E poi la radio: in casa nostra è arrivata in tempo di guerra, certe persone ci avevano portato la loro, sfollata, per nasconderla e noi sentivamo Radio Londra. Solo dopo la guerra ne abbiamo comprata una nostra e passavamo molto tempo a sentirla. A quei tempi era tutta un'altra vita e di tempo ne avevamo a bizzeffe. C'erano le serate lunghe d'inverno che non si sapeva cosa fare e questi anziani non riuscivano a dormire. Allora si andava a casa di uno o dell'altro a giocare alle carte o a parlare, vecchi e giovani, così solo per far venire una certa ora, se no rimanevi in letto 15 ore. E tutti a lamentarsi che la serata era lunga. Una cosa che oggi non si sente più.
Poi c'erano le feste: quelle patronali e quelle di carnevale. Il primo maggio si cercava di festeggiarlo lo stesso anche se col fascismo era pericolosissimo. Con la scusa di offrire la vignainna - il laccio che tiene i salici necessari a piegare la vigna e che voleva dire che avevi finito a tempo i lavori - a san Bernardino, una chiesa poco lontana, in collina, sotto il Righi, tutto il paese si metteva in marcia anche perché Bernardino era il santo che doveva salvarli dalla grandine. Con quella scusa, mettendoci in mezzo anche la chiesa, si festeggiava il primo maggio che era proibito e si finiva per ballare un po' nel club. Perché la chiesa era importante: ci andava tanta gente, specialmente donne mentre gli uomini un po' meno, in fondo come si vede ancora. C'erano anche quelli che non ci andavano proprio come mio padre. In quelle quattro o cinque case dei Coronelli, la frazione dove abitavo, per la chiesa c'era solo mio nonno e un altro vecchio. I giovani avevano già rotto un po' i ponti pur essendo religiosi. Qualcosa come "u segnù u gh'è ma i previ l'en gunduin".
Feste familiari niente. Di compleanni non se ne parlava. Un po' di festa, poca, si faceva per i matrimoni ma solo di qualcuno un po' ricco. Però la festa allora era proprio la festa; si vedeva. Non come adesso che è quasi un giorno qualsiasi. Quasi ogni domenica nei club ballavano - un mucchio di sale da ballo, d'estate e d'inverno, con dischi, fisarmoniche o, a volte, anche solo un gna gna gna ma c'era - e poi giochi da bocce, morra, carte, roba così: la festa si vedeva veramente e la domenica era un giorno diverso. E si parlava, molto. Non tanto di pallone: le squadre grosse c'erano ma non se ne parlava quasi; di più invece di quelle locali, il Rivarolo, il Pontedecimo, il Sestri, l'Aurora di Bolzaneto. Ognuno andava a vedere la squadretta del suo paese con liti e le solite belinate. Ma non era l'unico discorso: l'opera era molto seguita e conosciuta e di un film succedeva che se ne parlava per settimane. Insomma il divertimento c'era, anche se era una cosa più piccola, più locale.


3. Al lavoro

Ho cominciato a lavorare in Ansaldo, al Vittoria, verso il '38. Ma avevo già lavorato un po' in una fabbrica piccinetta, lì a Certosa. E prima ancora, nel '37, a 16 anni, avevo lavorato anche un po' nel porto. Il porto era una esperienza notevole perché a parte bestemmie e improperi era un mondo molto vario. A lavorare c'era gente che veniva da un sacco di posti e poi si veniva a sapere molte cose delle navi, dei carichi, dei paesi di provenienza, di qualcuno che c'era stato. Mio padre quando aveva visto che mi interessava m'aveva comprato un atlante geografico, mondiale. Usato, infatti c'erano ancora i confini di prima della guerra mondiale.
Dopo il porto la fabbrichetta: facevamo telai per le finestre dei tram. A Genova, dove c'è il cinema Augustus, c'era un locale, Il ragno d'oro, dove si ballava e c'era una pedana. L'ho fatta io, una pedana di anticorroda, in piastrelle. All'ospedale di Rivarolo le maniglie, il passamano di anticorroda: questi erano i lavori che facevamo. Compreso qualche calorifero, di quelli che sono di moda ora, a corrente.
Trovare lavoro allora era dura. In porto c'era una crisi tremenda. Mia madre aveva preso un piccolo banchetto al mercato di Certosa dove vendeva frutta e altra roba della villa. Soldi però ne faceva pochi. Lì vicino c'era un giornalaio e lei, sempre, "ho un figlio che non lavora". Perché per mia madre il fatto di non lavorare era peggio di un disonore. Ce n'era bisogno, è vero, ma più che altro io dovevo lavorare. Non c'era scampo. E allora mi aveva mandato in quella officinetta lì a 50 cm. l'ora. Poi ero venuto via perché volevo una lira e il padrone non voleva darmela. Anche se mi teneva in considerazione perché "avevo fatto le scuole". Lì dentro non facevi l'allievo ma ti mettevano subito sotto. Per fare gli incassi dei finestrini dei tram c'era un bordo largo di alluminio che poi era anticorrodo, per fare il maschio lo fresavano e la femmina con un disco, come col legno. Un lavoro maledetto. Poi, fuori, puliture e tutti i sacramenti che c'era da fare. Per portar la roba a Genova partiva un camion di roba e poi mancava sempre questo e quell'altro e allora con la carretta, a spingere da Certosa a Genova fino al grattacielo, in corso Buenos Aires. Questo è stato il mio primo lavoro.
Il secondo lavoro, all'Ansaldo, è stato per un capo amico di mio padre. Ma prima di arrivare lì avevo cercato tanto. Ricordo che un mio cugino per parte di mia madre - mia madre oltre a dire a tutti che ero senza lavoro, impegnava tutta la parentela a cercarmelo - aveva detto "ci penso io, lo porto alla Fiat", la filiale della Fiat che era al Lido. È venuto a prendermi a Certosa col camion, siamo venuti a Genova, s'è fatto aiutare a scaricare della roba e poi siamo arrivati alla Fiat. "Ecco, mi dice, vai lì dentro e chiediglielo". E io che credevo che lui ci avesse a che fare… Insomma vado dentro e vedo un cartello dove c'era scritto qualcosa come "Il direttore per gli operai e gli operai per il direttore", una frase che invitava a parlare col direttore. Io sono passato dritto davanti al guardiano e arrivo dove c'è scritto direzione. Tun, tun entro e vedo una impiegata giovane con sto direttore. "Desidera?" "Cerco lavoro". M'ha un po' guardato e ha detto: "ma come ha fatto a entrare?". "Eh, belin, sono entrato e basta. Si vede che quello là alla porta mi ha preso per un cliente". Questa cosa gli era piaciuta perché ha detto: "Questo ragazzetto è furbo, è sveglio. Passa tra quindici giorni e ti metto al lavoro".
Ma c'è il caso che proprio in quei giorni ho trovato dove sono ancora oggi; all'Ansaldo, a Campi, sempre nella stessa fabbrica. Assumevano molti ragazzi, tanto che degli assunti di allora ci siamo un finimondo ancora oggi. Poco dopo è cominciata la lavorazione per la guerra e molti sono andati in guerra e son morti. Anche lì un finimondo. Credo che il 70, forse l'80% dei ragazzi assunti nel '37, '38, '39 è morto. Quelli di leva partivano tutti, in marina; o cannonieri o mitraglieri o artificieri. Gli aggiustatori li facevano artificieri e gli altri li mandavano alla scuola di Pola per diventare mitraglieri. Poi ti imbarcavi. La maggioranza è morta sul Lombardia, un mercantile che faceva base a Napoli e che come altri mercantili era dotato di due o tre mitraglie. I mercantili li buttavano tutti a fondo e imbarcarsi sul Lombardia allora voleva dire campare un viaggio o due e poi lasciarci la pelle. Anche io ero imbarcato ma su una nave da guerra. Ci ho fatto sopra un annetto poi, prima dell'8 settembre sono scappato via. Casino della madonna, disertore. Poi col tempo si sono calmati, chissà come mai. Era la fine d'agosto e con la nave eravamo venuti a Genova per dei lavori. Eravamo tutti a bordo e alla sera arriva un ammiraglio, mi pare Bianchini, io non ne avevo mai visto uno, butta il suo berretto lì e dice. "Io vi aspettavo a Genova con ansia ma ora devo darvi una brutta notizia. Dovete partire immediatamente per una cosa breve e poi tornerete e io organizzerò una festa per voi…". Io quando ho sentito così ho preso lo scalandrone, ho portato via u belin e non mi son fatto più vedere. La nave è andata verso Sud senza di me; è passata nelle bocche di Bonifacio mentre che è successo quell'8 settembre, i tedeschi gli hanno mollato due o tre cannonate ed è andata a fondo. Morti tutti o quasi. Una decina li hanno presi gli americani e li hanno portati a Bari, quelli si sono salvati. Altri venti o venticinque, di duecento che ci eravamo, li hanno presi i tedeschi e portati in Germania. Su duecento si saranno salvate 15 persone.
Io invece me ne stavo qui, o meglio lassù nella villa; mi mandavano da mangiare, zappavo un po', pascolavo la capra e poi avevo imparato a sparare bene, non ero un inesperto. A Pola avevo fatto un vera scuola e mi sentivo tranquillo. Avevo un po' la tranquillità del guerriero. Se vengono mi trovano, dicevo.
Subito dopo l'8 settembre, dopo che sono arrivati i tedeschi, sono venuto giù, a Rivarolo. Sono passati quattro o cinque carri armati e io ho preso una mela da un banco - ero in piazza e c'era il mercato - e gliel'ho tirata. Ho preso in centro la torretta e quello che spuntava fuori ha girato i cannoni verso la piazza. Una paura… e tutti a correre via. Anche io piano piano me la sono filata. Lì ho capito che era cambiata. Perché fino a quel momento i tedeschi mi erano sembrata gente innocua. A Napoli se per caso ci rompevano u belin li mandavamo a quel paese come niente. Mi sembravano delle beline; tanto da tirarci delle mele. Roba da incoscienti.
Rispetto all'officinetta dove avevo cominciato, l'Ansaldo era una pacchia. La prima battaglia è stata quella di farmi mettere a cottimo, su un tornio e a cottimo. Ero finito in torneria perché il capo che mi aveva fatto entrare era il capo dei tornitori. Allora noi ragazzi ci mettevano in cabina a dare i disegni che è un lavoro che oggi lo fanno delle signorine. Lì è cominciata la battaglia per andare in officina; tentavi di diventare un operaio. Appena riuscivi a parlare col capo: "Quando mi ci mette a lavorare?". Poi, quando ti mettevano in officina, cominciavi a fare l'aiutante. Allora ti attaccavi in continuazione all'operaio che stava alla macchina e "mi lasci fare a me; mi lasci far qualcosa", e cominciavi a far qualcosa. Fin tanto che un bel giorno ti mettevano a una macchina e quello era il più bel giorno della tua vita. Una macchina tutta per te dove cominciavi a fare casino. Magari sbagliavi qualcosa, ma - non so se era la tensione della miseria - eravamo impegnati nel fare questo mestiere, ci mettevamo tutto e ci riuscivamo.
Il primo anno mi era parso lunghissimo. Sono entrato il primo aprile del '38 e il primo maggio del '39 mi hanno messo a cottimo. Avevo fatto il fattorino, l'aiutante e un mese di lavoro in macchina, poi m'han passato. Ricordo il capo che ha detto: "festeggiamo l'antica data; ti metto a cottimo il primo maggio". Ci sono ancora adesso.
La classe operaia era proprio terrorizzata dai fascisti, proprio battuta. Invece noi che eravamo nati sotto il fascismo, noi no. I fascsiti ci sembravano una sorta di gunduin, a qualcuno magari sembravano anche buoni, che governavano l'Italia. A noi non facevano paura. La paura invece è venuta nel '43 quando ci siamo accorti che se non si andava in massa con le brigate nere ti sparavano, ti imbelinavano.
Niente in comune però coi giovani di oggi. Dico anche quelli del '68 e poi del '69, quelli delle lotte. Noi facevamo dei gran casini, belinate, stracciate da ragazzotti. Ai più anziani facevamo quegli scherzi come tirargli uno straccio pieno di grasso quando non vedevano o mettere dei chiodi nella pedana così ci si piantavano con le scarpe. Se poi gli succedevano degli inconvenienti ridevamo. Questi ragazzi di oggi invece sono più seri, stanno al loro posto. Magari si impegnano meno sul lavoro; ecco, non ci tengono tanto a lavorare. Per questo tanti li vedono come pelandroni ma per conto mio sono più maturi. Invece noi - magari era per cominciare a guadagnare - volevamo proprio lavorare.
Allora la divisione tra operai, tra di noi, era più di oggi. Un operaio parlava magari con tre o quattro. Tra noi giovani invece c'era più rapporti. Nel mio reparto, la torneria grande, saremo stati duecento, duecentocinquanta persone. Nella piccola saranno stati anche di più. Ti facevi un amico o due ma era meglio non parlare troppo con la gente. Era per via della politica.
La politica c'era anche a Begato e in casa mia ma, a vederla con gli occhi di oggi, farebbe ridere. Erano antifascisti monarchici. Come in Amarcord quell'antifascista che gli hanno dato l'olio di ricino però poi, tutto invexendato, porta la ragazza dal principe ereditario che era arrivato nel suo paese. Erano giusto i tempi del varo del Rex. Il re era giudicato una persona come si deve, per conto suo. Si pensava che era un po' abbelinato perché si era fatto prendere di mano da quel bastardo. Il re era il re: anche socialisti ma col re. Non gli si dava delle colpe; restava sempre una persona per bene. Anche da festeggiarlo; tanto che per l'inaugurazione della Camionale che doveva venire il duce e poi invece è venuto il re c'era stata soddisfazione. C'erano dei professori che erano antifascisti e lo facevano capire - magari perché non mettevano la camicia nera alla festa - che erano soddisfatti. Al contrario degli altri, come il segretario e il direttore, che erano fascisti e dicevano "Peccato che non è venuto Mussolini". Anche a casa mia a Begato dove erano tutti antifascisti erano contenti che veniva il re; era una festa. Mussolini invece non era neppure nominato. Mio padre diceva "quellu pagiassu" oppure "quellu bastardu là" e si capiva che parlava di lui.
In fabbrica invece era diverso: quello che non era fascista doveva stare attento, non fidarsi anche se l'antifascismo in fabbrica era maggioranza e i fascisti li contavi sulle mani. Su duecento saran stati 6 o 7 che eran poi quelli che mettevano la camicia nera alle feste. Andavamo a lavorare alla festa e portavano la camicia nera. Quelli erano fascisti dichiarati ma di molti altri non sapevi o non si capiva e tanto bastava per star zitti. A volte sentivi delle frasi, dei bisbigli o leggevi una scritta nei cessi. Quando è scoppiata la guerra nel '39 c'erano quegli slogan come "gli inglesi mangiano cinque volte e noi italiani no". Allora sentivi degli anziani dire "sì, noi andiamo a spartire però qui c'è chi mangia sei volte mentre noi mangiamo una e prima di andare a spartire con gli inglesi sarebbe meglio spartire qui". Gli anziani dicevano queste cose a noi ragazzi, così a mezza bocca, senza parere. Noi invece le ripetevamo apertamente e così certe parole tra noi giovani si facevano largo più facilmente.
Ma erano parole. Di organizzazioni contro il fascismo non ne ho mai saputo né sentito parlare. Sapevamo tutti che c'erano quei dieci che erano antifascisti, come Lastri, che poi sono usciti durante la guerra di liberazione ma si facevano i fatti loro. Allora c'erano le due lire con il fascio inciso sopra e ogni tanto ne usciva una che sopra ci aveva incisi la falce e il martello. Allora tutti la facevamo passare e tutti volevano vedere e qualcuno diceva "sì, ci sono i comunisti, ma chissà dove sono". Magari veniva quel primo maggio che usciva una bandiera rossa da qualche parte, su un palazzo, e tanti ne parlavano "t'è sentìu?" o "t'è vistu?" Nel '38 o nel '39 è venuto Mussolini a Genova, in fabbrica. Visita a uno a uno prima di entrare, che non avessimo armi o simili. E le guardie, venute da chissà dove, che giorni prima che arrivasse, camminavano sugli scorrimenti a controllare. Poi, quando è arrivato lui, tutti fermi, nessuno doveva lavorare con l'ordine però che se si fosse avvicinato alla macchina allora dovevi attaccare. Pulizia perfetta, un ordine mai visto. Questo belinone qui è arrivato in macchina, è andato su e poi si è fermato a vedere una macchina abbastanza stupida, la mortassa, una spruzzatrice grossa che aveva un braccio particolare. Poi si è fermato a vedere dei troller che facevano crac lassù. E lui si è divertito e glielo ha fatto provare due o tre volte, troc, troc, crac. Poi all'improvviso una spazzina è andata verso di lui per dargli una lettera: casino inimmaginabile con tutti che le sono saltati addosso. Poi si è scoperto che era una fascista che inneggiava al duce e allora l'hanno mollata. È finita lì e anche noi ci hanno mandato a casa.
Il giorno dopo ci hanno portato al cantiere, tutti inquadrati, tipo militare con ogni capo che comandava i suoi. Lui è arrivato e gli hanno presentato una lamiera e due o tre brasatori hanno fatto due o tre scimmie con un po' di fiamma ed è stato allora che lui ha detto quelle parole, mi pare "secco, duro, forte". I capi ci hanno detto: avanti, forza, gridate "duce parla". E noi allora: "duce parla, duce parla". Qualcuno magari si stufava e i capi dietro a dirgli "dai, grida". Perché allora le cose andavano così. Comunque a forza di "duce parla" lui si è deciso e ha detto "volevo restare in silenzio, non volevo parlare perché io preferisco coloro che lavorano in silenzio, duro, secco, sodo e possibilmente in silenzio". E noi: uuu e quelle belinate lì. E poi festa per tutti.
Il lavoro aveva la sua gerarchia; precisa. C'era il manovale - molti manovali, più di adesso - che guadagnava molto meno del cottimista. C'era il tracciatore, com'è Cafferata: erano operai considerati e lavoravano pochetto. Ci vuole abilità a fare il tracciatore; non è un mestiere facile, allora meno di oggi. Oggi tracciano meno allora invece si tracciava tutto. Dovevano conoscere bene il disegno ma guadagnavano meno del cottimista perché erano a economia. E poi veniva il cottimista. Il cottimo allora incideva tanto nella paga: un qualificato - specializzati allora ce n'era pochissimi - aveva 3 lire e 25 di paga e chiudeva a 4,50-5 lire, un bel margine. Erano liti dell'accidente. Qualche volta te lo aumentavano, ma proprio se il prezzo era stato sballato; se invece era giusto e non ce la facevi ti davano l'8% della tua paga e ci rimettevi un sacco di soldi. Quindi la gente voleva guadagnarci su questo cottimo: cominciavi da subito a litigare sul preventivo, poi magari dovevi aspettare la gru ed era altro tempo che perdevi o che guadagnavi in meno, liti maledette con l'imbragatore se non si muoveva a farti la manovra, lite della madonna col manovale che doveva portarti a tempo il materiale, lite con i ragazzi del disegno se non facevano presto a portartelo. Questo era il cottimista: era quello che spingeva la fabbrica. Un pochino, ma molto meno, com'è anche adesso. Allora però era una battaglia e il cottimista oltre a lavorare doveva litigare con tutti.
Quando sono arrivato io il cottimo era già organizzato ma non c'erano tabelle. Facevamo locomotori che erano pagati discretamente e se non ci guadagnavi la colpa era tua. Nessuno si sarebbe arrischiato a dire "il prezzo del locomotore non va bene". Dovevi essere abile ma guai al mondo a chi ti faceva perdere tempo. C'erano altre lavorazioni, come i sommergibili, che invece erano mal pagate; anche i filobus erano mal pagati e così gli alberi motore dei tram. Stavi bene solo ai locomotori, il resto era tutta una battaglia.
Dopo la guerra le cose sono andate in bando per un po' e poi - saran passati tre anni - è arrivata la Smac e è cominciato il casino. La Smac era una organizzazione internazionale per il rilievo dei tempi. Sono arrivati degli ingegneri con cappa bianca e orologi, gente esterna all'azienda, che prendevano i tempi. Il sistema che c'era prima - lo chiamavamo il sistema Rossi, che poi era un ingegnere di lì - funzionava così. Ti facevano un prezzo così, a stima, e quello che guadagnavi su quel prezzo era tuo; se invece stavi nel prezzo senza realizzare allora ti davano il 60% della paga. La convenienza sarebbe stata quella di guadagnarci il 60% invece noi non la volevamo capire perché volevamo guadagnare sul cottimo. Con la Smac invece c'era il cottimo diretto. Non c'era più quella faccenda del "se non realizzi ti do il 60%". Con la Smac invece chi ne fa ne conta. Come prima della guerra, ma con la Smac riuscivi a guadagnare di più. Naturalmente anche il lavoro era di più e allora battaglie della madonna. Alla fine hanno vinto loro e sono passati i tempi della Smac. Sì, qualche esplosione spontanea qua e là. Altre volte ci si fermava tutti perché, belin, sembrava di non farcela: casini della madonna, "tempi tecnici", "tempi qui, tempi là" poi è uscito il passo e tutte queste belinate sono finite. Beh, finite… finite per modo di dire perché non sono finite nemmeno adesso tanto che l'altro giorno è scoppiato un casino, ma dal '68 si può dire che quel sistema si sia un po' rotto.
Prima della guerra i tempisti li chiamavamo i "bedò": arrive u bedò a pigià i tempi. Avevamo un direttore che diceva: "È inutile che un cannone mi spari mille colpi all'ora se poi in trincea non ci sono i proiettili". Perché succedeva che l'operaio andava in continuazione in cerca del materiale, dell'attrezzo, ora qui ora lì. Lui invece voleva organizzare la fabbrica con la manovalanza che portasse tutto quello che serviva e che l'operaio qualificato o specializzato non si dovesse muovere, solo e sempre lavorare, far lavorare la macchina. Invece lì o mancava il disegno, o mancava il ferro, o ci voleva il micrometro o qualche altro accidente e così l'operaio era sempre in giro. Cosa facciamo? si è detto quel direttore. Per questa organizzazione ci crescono gli operai e ci mancano i manovali. Erano i tempi del contenimento. Lo chiamavano così, mi pare. O ridimensionamento. E lui ha pensato di prendere una parte di operai e passarli manovali e lì è successo un casino. Non l'abbiamo accettato quel fatto lì, il declassamento. Sono successi scioperi, bastonate, celere sempre dietro, un casino del sacramento sempre per quella cosa lì.
C'era il partito comunista che aveva molta influenza nella fabbrica perché, cercava la lotta: i motivi di lotta erano ricercati. E il sindacato invece, per un certo periodo, ma ora forse faccio confusione, non voleva dare battaglia: erano divisi i sindacati. La Cisl non voleva mai aderire. Il sindacato, la CGIL, ci diceva: noi diamo la paternità solo se scoppia lo sciopero ma non possiamo dichiararlo. Allora il partito comunista faceva in modo che scoppiassero queste lotte spontanee, che la direzione diceva che erano "spintanee", e lì ci siamo divertiti alcuni anni così, con questo tipo di lotta. Ora invece il partito comunista tira dall'altra parte e non vuol far succedere le lotte che non siano bene organizzate dal sindacato. Se oggi un reparto vuol fermarsi per i cottimi o per i livelli o per un accidente o per un altro i comunisti più in linea tirano a non farlo succedere. A quei tempi invece spingevano per il sì.
Oggi però c'è più libertà, si fa riunione dentro la fabbrica e si può dire "io farei sciopero" mentre l'altro, il comunista, dice "bisogna stare attenti; non possiamo fare sciopero per ogni belinata e far perdere delle ore agli operai; non sappiamo come va a finire" o qualcosa del genere. Allora invece si diceva - ma da in mezzo a un banco - "mia, s'afermemmu". E si diceva così, senza salire sullo sgambelletto e dire "facciamo sciopero". Allora cosa succedeva? Che ci fermavamo e quello della commissione interna veniva e diceva "sì, sì porteremo in direzione le vostre richieste e qui e là e intanto riprendete serenamente il lavoro". Lì c'era un po' di titubanza e poi si riprendeva il lavoro. Erano cose che succedevano spesso.
Se scioperavamo, come uscivamo dai cancelli, la direzione telefonava: escono. Dopo 10 minuti - eravamo arrivavati sì e no sulla strada del tram - vedevamo già gli elmetti brillare laggiù al Campasso. Per lo più ci incontravamo a Certosa: bastonate della madonna, scappa di qui, scappa di là. Una volta al Campasso avevamo cercato di fare un cordone: bastonate a tutti. Mi sembra che fosse per i declassamenti. Siamo scappati su per la montagna e siamo scesi dall'altra a parte, da Granarolo, e da lì siamo arrivati a De Ferrari a dare i manifestini. E loro di nuovo a bastonarci sotto i portici. Era una cosa così… Era ai tempi di Scelba. Nel '68 o '69 invece non è che ci picchiassero. Perché c'era già stata la cosa dei socialisti e prima ancora del 30 giugno. Dopo il 30 giugno era cambiato qualcosa nella fabbrica. Non come nel '68 ma qualcosa era cambiato. È stato dopo che han fatto il centro sinistra che le bastonature non ci sono state più. Allora c'era stato uno scontro politico; risultati finanziari pochi. I miglioramenti c'erano solo con lo straordinario, quello sì: straordinario a tutta forza. Ma è stato dopo il 30 giugno, col centro sinistra che in fabbrica le cose sono cambiate un pochino.


4. Il mondo nuovo

Oggi, a ripensarci, mi sembra che tutta la mia vita in fabbrica sia stata una lotta. Era una cosa che non mi piaceva e non mi piace neanche oggi. Ma forse è perchè quelli erano anni che passata una lotta ne veniva un'altra e via così. Sembrava naturale; eppure erano lotte che, a ben vedere, erano proprio pensate al tavolino. C'è stato un periodo che c'era l'indicazione dello sciopero per degli obiettivi generali, "per il triangolo", "contro il monopolio" o "per gli investimenti". Facevamo un bello sciopero, organizzato, preciso, ad esempio dalle 8 alle 12. Nel '68 è cambiato tutto. Uscivamo anche senza dichiarare lo sciopero; decidevamo di fare un'ora e poi ne facevamo tre. Era una cosa grande, spontanea. Poi col tempo siamo ritornati come prima.
Il cottimo marciava anche perché nel frattempo è esploso il consumismo. Mi ricordo che ancora nel '60 c'era un ingegnere che, quando trovava uno che non aveva voglia di darci dentro e magari cercava di evitare lo straordinario gli diceva: "M'hanno detto che lei non ha ancora tutto. Se volesse impegnarsi un po' con questo lavoro, ci sono delle ore da fare, potrebbe comprarsi la roba che le manca". Si capisce che la roba che gli mancava era la televisione, il frigo, la lavatrice. Erano tempi che cominciavi a lavorare non solo per mangiare ma anche per avere. Ma anche se cercavi di tenerti fuori la pressione era molto forte. Da una parte c'era la direzione, l'ingegnere, dall'altra ti arrivava il capo - a me successo più di una volta dalla fine degli anni Cinquanta - che ti diceva "senta io ho 2000 ore di straordinario da consumare e bisogna che le consumi, ha capito?". E aver capito era che dovevi prenderti la tua parte e farle.
Si capisce che poi si arriva a quello che dice "beh, io per stare un'ora sul tram, rimango un'ora di più in fabbrica e coi soldi mi compro l'auto e viaggio più in fretta". Era un fenomeno generale e straordinario ce n'era per tutti. Magari c'era quello che stava un po ' meglio o era meno consumatore - era un po' meno invescendato a comprare roba - e ne faceva un po' meno. Era tollerato perché c'erano gli altri che facevano anche il suo. Lo straordinario era quello che cambiava la busta, che ti faceva guadagnare. In fabbrica ha inciso molto. Non si può parlare di quei tempi, delle lotte, delle conquiste, della vita operaia dal Cinquanta al '68 senza parlare di straordinario. Lo straordinario ha avuto un’importanza enorme sulla vita dei lavoratori.
Il partito, come l'operaio più intelligente, vedeva che tutto il lavoro che faceva, lo straordinario che faceva, tutta la sua vita bestiale non andava e che forse non faceva il caso per avere una macchinetta o un frigo. Queste cose si vedevano. Si vedevano però si facevano. Anche se c'erano alcuni, pochi, una minoranza, che erano contro le ore straordinarie. Io mi ricordo che in quelle poche riunioni che si facevano ad esempio con Mantero gli si diceva "perché voi altri permettete tanto straordinario?" Era una lite continua col sindacato. E il sindacato rispondeva "noi non possiamo metterci contro lo straordinario perché ci sono dei lavoratori che lo fanno perché hanno fatto dei debiti, devono pagare e se glielo togliamo ci mandano all'inferno. Bisogna tener conto anche di loro. Poi nella fabbrica l'operaio che faceva dello straordinario era visto un po' come uno che faceva del male al prossimo. Nella base è sempre stato così: era il vertice che non parlava dello straodinario, alla base invece se ne parlava. Io mi ricordo che quando ero segretario della cellula - che poi le bastonate di Scelba avevano un po' rotto (la coesione) e il segretario della cellula era anche quello che faceva partito, sindacato tutto, venivano da me a lamentarsi "quellu bastardu là u fa duzz'ue" o magari quattordici o andava a lavorare la domenica. Ma poi succedeva che questo che protestava spariva perché poi le dodici ore le faceva lui. È vero: si faceva lo straordinario in un modo spudorato però non c'era l'idea che "più lavoriamo meglio è" o "è bello fare tante ore", no. Quello che faceva lo straordinario era sempre criticato. Da subito. Io ad esempio ero una persona rispettata perché ero contro. Che poi è un assurdo: non avevo moglie, volevo andare a ballare… perché avrei dovuto farlo? Mi ricordo che venivano delle sere che alle 5 ero l'unico a uscire o, al massimo, dall'orologio a timbrare, eravamo due o tre. Si capisce che poi alle riunioni a pressare il sindacalista ci andavamo proprio quelli che lo straordinario non lo facevano e che erano contro e gli altri magari erano a lavorare in fabbrica. Eravamo un po' gli eroi, la gente intelligente e anche se la direzione ci contestava gli altri ci dicevano "è giusto non farne perché ci sono i disoccupati". Mi ricordo però che quando al governo era arrivato un socialdemocratico, mi pare tale Vittorelli, che aveva detto di abolire lo straordinario, al governo non c'è rimasto neanche 15 giorni perché l'hanno tolto. Insomma questo straordinario l'operaio l'ha un po' subito e il sindacato diceva che non si può abolire che c'era il problema dei bassi salari. E se la medicava così. Poi c'era la riunione che uno si alzava e diceva che bisognava cambiare e fare otto ore e tutti a applaudire che poi erano gli stessi che lo facevano. O quelli che quando veniva una festa dicevano "duman me tucche vegnì a louà", insomma che doveva andare a lavorare per non urtarsi. Ecco forse questa era una differenza rispetto a prima della guerra. Allora l'operaio diceva al capo: "io voglio venire a lavorare di domenica" ed erano liti perché si lamentavano: "a me non mi comanda mai". E il capo: "perché non c'è lavoro per tutti; oggi ho comandato questo domenica prossima comanderò lei". Questo era il discorso. Invece dopo si faceva molto di più che prima della guerra.
Ma c'era qualcosa che non riguardava solo noi, ma anche l'economia importante, la banca e chissà cosa. Perché arrivava quel periodo che bisognava aumentare lo straordinario anche se lavoro ce n'era pochetto. Capitava che lavoro non ce n'era e i capi si davano un gran daffare a cercare dei lavori solo per riuscire a far fare lo straordinario. Capitava anche il contrario; che c'erano dei periodi con tanto lavoro, ma scattava una regola che non potevi fare più di 60 ore alla settimana. Penso che fosse per il liquido che avevano nelle banche: "abbiamo dei soldi e dobbiamo sbatterli fuori. Come facciamo?" E lì straordinario. Facendoci fare più ore, più produzione, più straordinario i soldi uscivano e forse avevano la possibilità di farli rientrare più rapidamente. Quando invece c'era poco liquido in banca dicevano "rallenta un po' che aspettiamo che ne entri". Insomma smaltivano la crisi con lo straordinario. Così almeno mi pare, anche se non ne sono certo. Ma era un mistero. C'era gente che faceva la gimkana. Stava in fabbrica dal sabato mattina per tutto il giorno e poi la notte fino all'una o alle due della domenica.
I contratti non servivano a toccare questi meccanismi che erano quelli su cui girava tutta la fabbrica. Ad esempio quando abbiamo chiuso il contratto del '66 il sindacato diceva "abbiamo messo in mano al lavoratore una grossa macchina, ora lui dovrà saperla guidare". Loro avevano messe le basi e noi dovevamo gestire. Ma o non ci siamo riusciti o non era possibile. Per esempio per lo straordinario, i cottimi, gli infortuni, la pericolosità e tutte le altre questioni fondamentali dovevano essere create delle "commissioni paritetiche" con cui trovare le soluzioni. Ma era un pasticcio, tutto un rimandare, un questionare, e non se ne è fatto niente. Un gran malcontento. Il '68 è nato anche da lì, dal fallimento di quel contratto. Poi qualcosa si è fatto; ma non su tutto.
Non è che sulla antinfortunistica o sulle malattie anche oggi il sindacato si impegni molto. Forse le direzioni sono diventate un po' più sensibili, più attente che non gli scoppino casini. Prima invece ti dicevano "ma no, guardi, lasci perdere". Ora invece qualche spesuccia la fanno. La regola però è che non devono perderci in produzione. Invece la questione è tutta lì. Se davvero si vuole cambiare ci vorrebbero degli investimenti enormi se no come si potrebbe togliere il silicio all'Italsider? Bisognerebbe cambiare proprio il modo di produrre. Non sono scelte indolori, lo può capire chiunque. Se dobbiamo piantare un chiodo sul muro, in alto, io salgo su uno sgabello e magari uno mi sale sulle spalle e in 5 minuti abbiamo finito. Può darsi che si rompa lo sgabello o che quello sulle spalle caschi di sotto ma al 99% dei casi il chiodo va a posto senza danni. Ma se dobbiamo fare le cose per bene e costruiamo un ponte ci vuole mezza giornata. Ecco: la prima soluzione è competitiva, la seconda no. Allora si dice "è un rischio ma anche se c'è un prezzo da pagare si può correrlo". Che il prezzo poi è la pelle dell'operaio.
Prima del '68 era così anche per tutto il resto: il padrone aveva preso troppo di mano agli operai. La commissione interna non riusciva a combinare più niente. I cottimi non si potevano discutere perché erano legati alla produzione. Di aumenti non se ne doveva parlare. La commissione serviva solo per quel piccolo clientelismo - del genere assumere il figlio quando il padre andava in pensione o era rimasto invalido lì dentro - che finiva per renderla ancora più impotente: comunque cosette e i problemi dei lavoratori niente.
Si capisce che era una questione politica generale. I democristiani avevano la maggioranza assoluta o quasi. Alla Fiat erano usciti i sindacati gialli e comunque, grazie a quei quattro soldi, di scioperi non avevano più fatti. È lì che è nato il miracolo. Con gli operai messi in riga. Se l'industria vuole avere dei profitti, prosperare sia in produttività sia in competitività, l'operaio deve stare buono e prendere quello che gli danno. Se entra in lotta si capisce che il sistema entra in crisi. Allora si aprono anche questioni politiche, possono venire dei momenti pericolosi. È normale.
Poi capitano delle lotte che magari non c'entrano con la produzione ma chissà perché esplodono in modo inaudito. Come è stato la volta delle pensioni nel '67. Non mi ricordo neppure perché, i sindacati erano contrari. Avevano indetto uno sciopero alla fine della giornata per andare in piazza della Vittoria. So che correvamo tutti a prendere il tram per arrivare a tempo eppure non c'erano stati avvisi particolari. Mentre invece, si sa com'è, no? Si fa una riunione il giorno prima annunciando la manifestazione e dicendo che è importante essere tanti, la mattina poi si dà il volantino che convoca tutti e via così. Invece, quel giorno lì, niente; eppure correvamo tutti per riuscire ad arrivare a tempo. Non ricordo nemmeno perché. Era probabilmente che uno potesse lavorare oltre la pensione... È successo che avevano tolto i 35 anni - perché una volta i 35 anni te li prendevi e poi andavi a lavorare invece poi è successo che no, che i 35 anni non te li davano più. Su questo però noi in fabbrica eravamo abbastanza d'accordo. Perché uno deve prendere pensione e stipendio? Deve prendere una pensione buona e basta. No, non c'entrava il motivo che ho detto; era per la liquidazione che eravamo arrabbiati. Ero arrabbiatissimo per quel motivo lì e non perché toglievano i soldi a chi andava a lavorare dopo i 35. Non aveva senso andare a lavorare dopo i 35 e prendere pensione e stipendio. Su quello eravamo d'accordo.
Non saprei dire se le cose venute dopo sono cominciate allora ma quella delle pensioni era stata una cosa grossa che forse ha avuto il suo peso per quello che è successo dopo, nel '68 e nel '69. Mi ricordo ad esempio che noi facevamo le nostre riunioni sindacali nella sezione dell'ANPI e c'eravamo sempre i soliti. Quando la cosa era proprio giù di corda eravamo cinquanta, quando scottava di più, cento al massimo. Quella volta - eravamo nel '68, mi pare - c'era un gruppo di gente nuova e allora si era deciso di fare la riunione da un'altra parte, dai frati, al Boschetto. "Facciamo la riunione al Boschetto" han detto e quel giorno siamo usciti, incolonnati e tutta la fabbrica è andata al Boschetto. Una riunione mai vista; problemi sindacali, niente di straordinario. Eppure c'era una massa di gente tale che noi, quelli del gruppetto che ci andavano sempre, eravamo lì a guardarci e a chiederci il perché. "Perché oggi vengono tutti, perché ci siamo tutti?" Nessuno che avesse dovuto andare, che so, dal parrucchiere. Ecco, questo è stato l'inizio e queste sono le cose che non capisco: il perché. Eppure è stato così anche altre volte. Che un bel momento scoppia un qualcosa e gente che prima neppure la consideravi è lì che briga e si dà da fare.
Anche nel '45, all'insurrezione è stato così. È uscita un mucchio di gente che mai avrei creduto che avrebbero preso le armi o che fossero antifascisti. Un bel momento scatta qualcosa nelle nostre teste, vediamo una cosa importante e la facciamo. È vero che prima di quella famosa riunione al Boschetto che ci eravamo ritrovati in tanti c'era stato il maggio francese ma non è che in fabbrica per quei fatti ci fosse stata gran discussione. Anzi ce n'erano tanti che ne dicevano male. Ma anche quello forse è stato un avvio. La gente capisce che quello è il momento, che si può cambiare qualcosa. Perché, che una cosa è sbagliata, lo sai benissimo, ma te la tieni fino al giorno che si pensa che si possa fare qualcosa e allora, quel giorno, tutti fanno, ma così, senza quasi accordo. Da che cosa viene? Anche il fatto di Tambroni, che han detto che eravamo 100 mila. Perché così tanti in un giorno che non doveva più esserci niente dato che col 28 le manifestazioni erano finite? Così; perché sì. Perché, si dice, tutti hanno capito il momento. Va bene ma allora perché altre cose abbastanza grosse erano passate nell'indifferenza? Ecco cosa dovrebbero spiegare gli storici.
Non credo che sia facile: perché un giorno succede quella cosa che bum, scoppia. E i gruppi politici non riescono a starci dietro perché diventa troppo grossa. Al partito comunista e ai sindacati è successo: nel '68 si son trovati con la gente lanciata e forse avrebbero voluto che la cosa non prendesse la piega che poi ha preso. Perché in fabbrica c'erano molti che il movimento gli faceva paura. Ma stavano zitti, a vedere; del resto non potevano fare altro. In genere erano quelli che avevano portato avanti il sindacato fino a quel momento che magari quando c'erano i mugugni dicevano "se vogliamo ottenere di più bisogna lottare di più, essere più uniti, andare alla manifestazione…". Poi è venuto quel giorno che è successo tutto in una volta, più lotta, più uniti, più manifestazioni e lì gli ha preso il crampo "belin ma avanti così dove andiamo a finire, cosa succederà; bisogna stare attenti". Per non dire che in quei momenti di casino e discussioni viene subito fuori gente nuova, giovani - ma anche gente con degli anni che se ne stava zitta da una vita - che parlano, propongono, imbelinano e passano avanti a loro che sono abituati al tran tran e che la linea la davano sempre loro alla fine della riunione e doveva andare bene a tutti. Invece lì, figurarsi…
Così per l'affare di Togliatti: un remescio che non finiva più. Invece per la scissione dei sindacati non era successo niente. Anche lì perché? Vai a vedere.
L'attentato a Togliatti lo ricordo bene. Una reazione spontanea: siamo usciti sul mezzogiorno, mi sembra verso l'una. Era successo al mattino. Usciti tutti, anche i democristiani, gente non comunista, anche veri anticomunisti. Nessuna fatica; siamo usciti tutti, di slancio. Il partito non aveva dovuto impegnarsi. Spontanei. Siamo venuti giù a piedi. Il tram si era fermato. Siamo arrivati a san Lorenzo e mi ricordo che c'erano dei giovani con delle armi in mano e noi gli dicevamo "ma state attenti, non fatevi prendere con le armi". E loro "Sì, sì" e andavano a nasconderle. Le avevano prese alla polizia. E lì han bloccato tutta la città e poi: "Calma, calma!". Lì a Palazzo Ducale c'era un microfono che invitava alla calma a non fare degli atti… Noi pensavamo che bisognava reagire perché lì partivano da Togliatti e poi avrebbero fatto un colpo di stato. A quei tempi la Democrazia Cristiana faceva una propaganda anticomunista terribile e continua e tutti ci siamo detti "qui ci fanno fuori". Abbiamo pensato che fosse una svolta, una specie di fascismo, levare il partito comunista dalla legalità. Una cosa che non erano d'accordo, almeno tra gli operai, né i socialisti, né i democristiani o altra gente d'ispirazione cattolica. Un po' come quello che sta succedendo in fabbrica con Lotta Comunista che sono malvisti dai gruppi socialisti e comunisti perché hanno paura che gli creino dei casini, ma non sono malvisti dagli operai perché parlano di cose precise, che conoscono bene. Poi si capisce che cercano di tirarti dalla loro. Allora i partiti parlamentari vorrebbero che non gli si parlasse e invece la gente gli parla. Perché hai voglia a dire che loro prendono i soldi qui e là, ma poi tu li vedi lavorare lì con te, te li vedi misci come cani che non possono arrivare alla fine della quindicina, vedi che sono nelle manifestazioni e finisce che un po' di simpatia gliela dai. Magari dici che sun abbelinè, esagerati, ma vedi che si muovono per cambiare le cose. Sono ragazzi giovani che dicono un po' le cose che dicevamo noi trent'anni fa. Allora era lo stesso. Il socialista, il democristiano, l'anticomunista della fabbrica ti dicevano "effettivamente voi altri siete quello che siete, ma bisogna riconoscere che siete gli unici che fate qualcosa, che vi battete". Forse era per questo che quando c'è stato il fatto di Togliatti sono usciti subito anche loro, senza forzare.
Invece per la scissione dei sindacati non s'è mosso nessuno, a cominciare da noi. Eppure mi sembra che fosse un momento che i lavoratori avrebbero dovuto dire "no, non vi scindete". Invece niente, li hanno lasciati andare via con quelle frasi come "i sindacati liberi sono dei bastardi, sono scissionisti". Credo che fosse perché al sindacato che avevamo allora non gli interessava molto; forse gli faceva anche piacere: restiamo noi, quelli veri... Tutto il contrario di quello che è successo nel '68 che si è data una grande importanza al sindacalismo e molti che facevano politica nel partito comunista si sono lanciati nel sindacato. Ad esempio tutti gli iscritti giovani che nel partito non facevano niente si sono messi tutti nel sindacato; anche per questo il sindacato è venuto quella cosa grossa che è. Anche se ora sta di nuovo scivolando. Il padronato però, e il governo, non fanno più l'errore di un tempo di bastonarlo. Anzi lo chiamano al governo, gli chiedono questo e quell'altro e negli uffici del personale ci sono quelli di sinistra, anche gente del partito. Prima invece se eri nel sindacato ti licenziavano. Bastava un niente, una mosca e via.
Ora però sta scemando di nuovo. Prendiamo questa lotta delle 30-35 mila lire che abbiamo chiesto. Qualcuno diceva "dobbiamo chiederne 50" e qualche altro "se chiediamo troppo aumentano i prezzi e ci rimettiamo". Così abbiamo chiesto meno ma chiedendo anche investimenti e lavoro. Ma queste sono cose vaghe, incontrollabili. E poi cosa sono questi investimenti? Il padrone che ha dei soldi fa un altro baraccone a fianco di quello che ha già e poi cosa ci mette? Chi lo decide? E perché quello e non quell'altro? Insomma questa richiesta degli investimenti sembra solo una cosa per darti di meno e basta. Invece nel '68 chiedevi quello che potevi toccare. Facevi la richiesta e se gli andava bene, bene, se no uscivi e lottavi. Non accettavi che ti imponessero quello che volevano. Invece, ancora pochi mesi prima, era il pugno di ferro che comandava.
Mi ricordo che non più di sei mesi prima che cominciasse il casino che poi è cominciato è venuto un capo da Milano – tra l'altro un bravo uomo e uno che conosceva bene il suo lavoro. È arrivato e ha detto "Ho sentito che qui c'è gente che non vuole saperne delle comandate. Ora vi dico come la penso. Se uno lo comando per 10 ore e non le vuol fare io lo manderei subito fuori dalle scatole perché fuori ci sono quelli che ne farebbero anche 12". Ecco quello che poteva dire un capo senza essere rimbeccato. La gente soffriva di questi linguaggi. Passava la voce: "Ma ti se cose u la ditu? U la ditu cuscì e cuscì". E l'altro allora "E ti alua cose ti gh'è ditu?". "Eh, belin, cose gh'o ditu, nu gh'o ditu ninte…". Vivevamo con una paura maledetta, una paura che dal '68 non l'abbiamo più accettata. Si capisce che anche tutte le lotte fuori, e gli studenti che venivano lì sono serviti a dare coraggio, a farci sentire più importanti.


5. L'importanza del '68 (e delle idee chiare)

Prima, quando ero giovane, ci soffrivo a essere operaio. Io mi sentivo un po' studente, avevo fatto quella specie di terza media - allora era qualcosa - e ero rimasto amico di gente che andava avanti con gli studi. Sulla mia carta d'identità c'era scritto studente e non sono certo andato a reclamare per farci mettere operaio. Mi sembrava che studente… se qualche ragazza l'avesse visto… Non ci davamo importanza a essere operai. Dentro, in stabilimento, magari sì, e l'operaio ci teneva più di adesso, ma all'esterno cercavamo piuttosto di far credere che era qualcos'altro. Capitava, magari in sala da ballo, che la ragazza ti chiedeva "cosa fai di lavoro" e tu rispondevi "sono un collaudo", o una belinata così. Io ci tenevo a dire studente. Mi ricordo che andavo a ballare in un circolo vicino al teatro Carlo Felice e non dicevo faccio l'operaio. Invece, per l'operaio - quello che aveva fatto solo l'operaio fin da 12 o 13 anni - cos'era lo studente? Era un figlio di bagascia che andava a gridare "vogliamo la guerra". Mi ricordo che dopo la guerra quando c'è stata quella storia di Trieste noi eravamo usciti dalle fabbriche e in piazza Di Negro, avevamo tirato degli studenti giù dal tram che magari poverini loro non sapevano niente e noi: "figli di bagasce, dove sono quelli che gridano viva la guerra" e avanti così. Il concetto era questo: gli studenti erano quelli che studiavano, diventavano i nostri ingegneri, i dottori, i preti, gli accidenti che comandavano, che volevano le guerre, il male dei lavoratori.
Una mentalità che nel '68 per fortuna si è rotta. Ci sono state molte diffidenze ma alla fine si è rotta. Finite – magari non del tutto – le frasi "ma insomma, noi ce la siamo sempre medicata senza di loro, sono intellettuali, fan delle chiacchiere": posizioni che io ho sempre ritenute sbagliate. Dall'altra parte lo studente ci guardava come se fossimo qualcosa di più di quello che eravamo veramente. Il contrario di noi che li avevamo sempre snobbati. Era stato un errore, grave. Noi operai abbiamo delle colpe: non aver legato di più con loro, con gli studenti. Un limite che continua a pesare ancora oggi. In fabbrica, ad esempio, ci sono tanti che il fatto che degli operai vadano alle 150 ore non lo vedono di buon occhio; una mescolanza che non gli piace. Non sono pochi a pensarla così e ce n'è di tutte le idee politiche.
Col '68 le carte si sono mescolate e anche questo è stato un bene. Una volta, per esempio, sarebbe stato vergognoso per un comunista, prima del '68, iscriversi alla Cisl. Invece ora ci sono dei giovani, magari comunisti, che si iscrivono alla Cisl e forse in fabbrica sono quelli che fan di più. Ci sono dei socialisti che la pensano molto a sinistra; ci sono giovani che si iscrivono dai socialisti e li senti che sono più a sinistra dei comunisti. Capitano degli iscritti alla Dc che ti parlano più a sinistra dei comunisti. Ecco cosa intendo per carte mescolate. Forse idee chiare non ce n'è molte e anche questo compromesso storico non si capisce cosa sia. Per non dire della crisi che c'è da due o tre anni, ma nessuno ti dice cosa si deve fare per superarla.
No, sulle cose che contano le idee chiare non ci sono. Per esempio: questa belin di automobile ce la dobbiamo togliere dai piedi o no? Queste sono le cose che la gente vorrebbe sapere. È venuto il momento di mettersi a fare il contadino o l'operaio? Non conosco partiti capaci di rispondere a queste domande semplici. O forse le idee ce l'hanno ma non le dicono per non urtarsi con la maggioranza, quelli che l'automobile ce l'hanno o la vogliono. Si capisce che se uno dice "l'automobile lasciatela a casa" trova subito quello che gli risponde "e perché? Si fan tanti sacrifici e le gioie son già così poche che proprio ora che me la son comprata me la togli?" Forse bisognerebbe dirgli "ma domani sarà peggio". Ma c'è un partito disposto a parlare chiaro? No. La sfiducia verso i partiti viene da lì. Dal fatto che non sanno o non parlano chiaro.
Ora ad esempio è uscita la storia dell'assenteismo. Ma se c'è una belinata è proprio quella. I partiti, tutti i partiti, vogliono fare intendere che bisognerebbe lavorare di più. E così in fabbrica cominci a tagliare qualche bolla, qui e là, senza parere. Eppure lì ci sono 1000 impiegati; possibile che non ce ne cresca uno? O che non si possano occupare un po' di come far scendere il costo d'un lavoro? Possibile che non si possa vedere un ingegnere venire giù in officina a lavorare poche ore per studiare un po’ la cosa in modo da far scendere il costo del lavoro? E i pensionati? Chi è quel pensionato che non verrebbe a lavorare nella sua fabbrica per un mese gratis? Se fosse lanciata l'idea "guardate, l'Italia va a rotoli, bisogna produrre a meno prezzo…". Un appello ai pensionati che chi vuole viene in fabbrica un mese gratuitamente. Ce ne sarebbe un finimondo che verrebbero. Anche quello che deve andare in pensione direbbe "bene, io faccio la mia domanda di pensione, mi licenzio ma lavoro ancora un mese". Ma qual è quello studente che non verrebbe, non fosse altro per vedere com'è fatta una fabbrica. Eppure, se tu facessi una proposta così, ti direbbero "ma che cazzo mi porti i pensionati in fabbrica e tutte queste scemenze qui se non c'è lavoro nemmeno per voi?"
Ma allora cosa cazzo vuole questa gente che ce l'ha con l'assenteismo; e questi partiti che sono tutti d'accordo a produrre di più. A produrre di più cosa? Ce le hanno le idee chiare loro? No, penso proprio di no. Sono cose che potrei parlare per una sera intera ma senza riuscire a spiegarmi. Perché io non sono capace a spiegare tutto quello che abbiamo nella testa. Ma anche detta così si capisce che è un casino. Che magari ti parlano di una cosa che però non è quella veramente importante ma serve solo a nasconderne un'altra. Intanto discussioni e dibattiti, televisione, tutum e tutum, e ti fanno una capocciata al giorno che viene che non ne puoi più e continui a non capire se è colpa dell'assenteismo, degli investimenti, del petrolio… E viene che ai partiti nessuno crede più; nemmeno al tuo. Ma è possibile che un partito non sia in grado di dire "si dovrebbe fare questo e questo". Bisogna produrre di più, ti dicono, ma nessuno che ti dica cosa bisognerebbe fare per eliminare questa crisi dell'Italia. Ma poi è una crisi? E da cosa viene? dalla produzione? dalla fabbrica? Siamo sicuri? Senza chiarezza non c'è politica. Quando c'erano i fascisti e i tedeschi era chiaro cosa si doveva fare. Darci un colpo nella testa e stare attenti, ché loro non scherzavano. Poi magari non glielo davi ma sapevi che la strada era quella. Anche negli anni '50 e '60 iscriversi al partito comunista cosa voleva dire? Cercare di non farti schiacciare dal padrone, no? Ora invece cosa vuol dire essere comunista? Fare dei nuovi impianti? E essere socialista cosa vuol dire? E democristiano? E quel La Malfa cosa vuole di preciso? Ecco perché al momento buono si dice i partiti fanno schifo; che poi è un’idea pericolosa perché c'è il rischio di altri poteri autoritari che ne approfittano…
È vero che, dopo il '68 l'operaio ha i consigli di fabbrica ma abbiamo fatto presto a capire come era difficile farli funzionare. Anche delle 150 ore, nel 1972, durante primo anno, non se n'è fatto niente, e le ore le abbiamo lasciate lì. Poi hanno preso un pochino ma sono in pochi a crederci; vanno avanti stancamente. Qui a Genova il casino forse è venuto dal fatto Italsider che non sono riusciti a far pagare le ore all'operaio che voleva andarci e allora ci sono andati solo i delegati di reparto o quelli coi permessi sindacali. E si capisce che all'operaio che non fa parte di questo giro ‘sta cosa non piace. Ci sono quelli che vanno a prendere la licenza media. Ma quella è una esperienza individuale. Esci due ore prima, vai un po' a scuola e via. C'è qualcuno, l'operaio genitore, che magari è finito nei consigli scolastici ma per lo più è quello che è già nel consiglio di fabbrica, nel partito, nel sindacato, quello che si dedica alle cose sociali. Che poi è quello che era già così prima del '68. Non è una cosa spontanea, anzi. Le 150 ore invece era una idea importante, rivoluzionaria si può dire.
Dopo il '68 anche il padrone ha cambiato il suo modo di pensare. Si è accorto che battere il sindacato era un errore. Negli anni Cinquanta il sindacalista nemmeno veniva ricevuto, non era riconosciuto. Anzi, se potevi lo tartassavi, lo mandavi a casa. Credo che si siano pentiti di aver fatto così. Oggi per il padronato avere la classe operaia sotto il controllo del sindacato non è una brutta cosa. Si capisce: il sindacato non deve essere troppo forte ma neppure troppo debole.
Oggi comunque la questione è difficile. Come finirà il contratto? Che non avremo né investimenti, né occupazione, né salario? E che effetto avrà in fabbrica? Di addormentamento? Ecco, io ho paura che tutto si addormenti di nuovo, tutto il baraccone… È il sonno il nostro rischio.
Ma il problema resta la politica: non ci sono idee. Nelle scuole, nelle fabbriche si criticano i partiti. Una ragione c'è. Gran paternali alla televisione però mai esce un uomo, un partito che dica: bisogna fare questo, il sacrificio va fatto così e così. Si dice "i sacrifici sì, ma per tutti". Ma come è possibile? Non si capisce come fa a mangiar meno uno che ha tanti soldi. Allora "inasprimenti fiscali". Ma quello che guadagna 150 mila al mese dice "ahi, arrivano le tasse". Perché è abituato che succede così e poi - anche se non succedesse - più è povero e più si spaventa di questi inasprimenti. Anche se si dice “colpiremo in alto” resti con la paura. Io per esempio, mi trattengono i soldi sulla paga, ma non so mica se sono in regola o se m'arriva qualche multa maledetta perché non pago altre tasse. La casa dove sto, per esempio; era di mio padre, ci sto con mia madre, magari dovrei scrivere, pagare qualcosa, e chi lo sa. Non so mica com'è la situazione con questi moduli complicatissimi. Allora tutti i lavoratori – perché sono tanti in questa situazione un po' irregolare, della casa specialmente – stan zitti, ne parlan poco, perché tutti si sentono in colpa. Pensano alla multa che arriva da un momento all'altro e poi non sai cosa mangiare. Tanti hanno la moglie che lavora, cumulo non cumulo, deve farlo la moglie, no lo faccio io, ma io non lo faccio… Ma che vadano a bagasce! Ma nessuno è tranquillo e quanto si sente dire inasprimento fiscale tremi perché anche se non hai niente sai che non sei in regola; e chissà da quando. È l'incertezza che amareggia la vita. L'incertezza è più pesante della mancanza di soldi.
Venire via dalla nave, per esempio, disertare, chiuderla lì, era stata una idea chiara, facile da capire. Era una idea che se ne parlava tranquillamente a bordo. Belin noi eravamo una delle poche navi rimaste che camminava avanti e indietro nel Mediterraneo; li avevamo tutti dietro, ci aspettavano al varco. In quella situazione la prima spinta l'avevano data i siciliani: quando gli americani erano sbarcati in Sicilia, loro erano stati i primi a filare. E poi si sentiva di gente su altre navi che avevano portato via u belin e allora c'era quello che usciva a dire "e noi quando è che ce ne andiamo?" e altre frasi così. Era chiaro che la guerra era persa.
Alla Liberazione io ero già iscritto al Partito comunista. È successo alla fine del '43 quando avevo disertato: sceso dalla nave, a casa a Begato. C'era un parrucchiere che faceva spendere pochissimo - tra l'altro soldi non ne avevo - e organizzava il partito comunista. Così quando è venuto il 25 aprile ho preso il mio fuciletto e mi sono presentato nel paese; lì abbiamo fatto dei prigionieri tedeschi, una quarantina, e li abbiamo portati in giù. E avanti così due o tre giorni.
Anche allora il programma era chiaro: era tutto rotto e dovevi rifare. Fare i vetri, fare le saldatrici, fare le barche; fare tutto. E capivi anche il perché delle cose. Ad esempio non puoi fare i vetri perché non c'è la sabbia, perché non c'è la macchina che è stata rotta e bisogna mettere su la macchina e allora mentre qualcuno lo fa io aspetto e faccio altro. Una cosa facile da capire: non potevi avere le cose tun, come volevi. Invece ora non si capisce.
Non credevamo di essere i proprietari di tutto; c'era la fame, bisognava mangiare, non avevi le scarpe. C'era uno che investiva e ti prendeva a lavorare. Lo sapevi già prima quello che ti sarebbe toccato; era così per lui e per te. Oggi invece non è così. Allora si diceva: lavoreremo e mangeremo. C'era la fiducia e un certo ottimismo. Sono le cose che oggi mancano. Non si capisce perché manchi il lavoro. O che produzioni bisognerebbe fare o non fare. Se le automobili dobbiamo ancora tenerle, se dobbiamo tornare al sapone marmorizzato, se dobbiamo fare la fame. Non si sa cosa bisogna fare per far bene. Invece a quei tempi lo sapevi. Dovevi lavorare e poi cominciare a chiedere: belin, dammi due soldi in più. Anche perché ti guardavi in giro e cominciavamo a vedere la gente che veniva ai bagni dal Piemonte, loro coi soldi, qui tu sempre miscio.
Il '45 e il '46 erano passati come un’attesa di mettersi a lavorare. Pensavamo che saremmo comunque andati avanti: finita la guerra, finito il fascio. Pensavamo che i Consigli di gestione sarebbero riusciti, che nelle votazioni il partito comunista sarebbe andato avanti, che sarebbe venuto una cosa forte e che ci avrebbe fatto rispettare. Dico il partito e non il sindacato. Il sindacato a quei tempi era troppo squalificato, non era niente, non ci si pensava nemmeno. I partiti invece li sentivi vicini, i comunisti ma anche i socialisti e la stessa Democrazia Cristiana che pensavamo che con la sua amicizia con l'America avrebbe fatto cose buone. C'era la speranza e giorno per giorno vedevi anche il miglioramento: il pane un po' più bianco, le scarpe, qualche cappotto Unrra e poi - quando il cappotto Unrra era proprio "il cappotto Unrra" - allora è arrivato anche il cappotto non Unrra, piccole cose, magari qua e là, che ti facevano capire che andavi avanti.
Dopo la guerra il sindacato lo avevamo poco in considerazione perché da noi, in Italia, non è stato come in Inghilterra che è nato dal piccolo, dal poco e in tre vai a parlare col padrone e il padrone ha visto che… Ma qui il sindacato, prima della guerra, era una cosa addomesticata, diretta da uno pagato dal padrone che serviva solo per la tessera del dopolavoro. Poi dopo la guerra son venuti Di Vittorio, Grandi e un altro, e hanno fatto il sindacato, il cappello, e noi lavoratori ci siamo andati sotto. Una cosa piuttosto inventata: infatti quando c'è stato il primo contratto non c'era quasi nessuno che andasse alle riunioni, alle manifestazioni. Tutti così, come niente: "è il contratto". E lì sono nate le prime polemiche col sindacato che ancora adesso non le capisco.
Cos'era il primo contratto? Era che l'impiegato di seconda categoria era pari, parametrato dicevano, come l'operaio specializzato. Dovevano essere più o meno uguali senonchè arrivati in fabbrica con un contratto del genere il padrone ha detto agli impiegati "non spaventatevi ci penso io" e ha cominciato a dargli qualcosa di più, aumenti eccetera. Poi con gli scatti l'impiegato è diventato quella cosa tutta diversa dall'operaio che solo dal '68, '69 ha cominciato a recuperare. Perché il sindacato non è nato dal basso piano piano ma è stato fatto così, da tre che poi hanno detto "questo è il sindacato". Ecco perché la gente non poteva avere tanto attaccamento per una organizzazione fatta così, dall'alto. E allora si è incolpato il sindacato di aver fatto poco per l'operaio e molto per l'impiegato; invece è stato il padrone che ha guadagnato la mano. Forse era meglio fare ottenere di più all'impiegato e meno all'operaio in modo che anche l'impiegato si sarebbe accorto che era stato difeso dal sindacato; invece l'impiegato ha detto "ma che cazzo servono questi sindacati che mi dà di più il padrone di quello che riesce a farmi avere il sindacato". E così l'impiegato, ha abbandonato il sindacato, completamente. Da parte sua l'operaio incolpava il sindacato che quelli lì, gli impiegati, guadagnano tanto: è una mentalità che – magari un po' meno – ha resistito fino ad oggi. Che se vogliamo è anche vero, ma ha una sua spiegazione dove anche al sindacato tocca la sua parte.


6. Un '68 all'anno

Finita la guerra abbiamo avuto tutti l'impressione che il mondo si rimettesse in moto; poi, neppure troppo lentamente, si è come cristallizzato. Le cose continuavano a cambiare, macchine, consumismo e tutto il resto, ma le teste si erano fermate e con le teste anche la politica. Gli operai hanno lottato, si sono difesi, hanno fatto questo e quello, ma per anni non sono cresciuti. Hanno fatto di più i pochi mesi nel '68 che i 20 anni che c'erano stati prima. Ma per rimuovere le idee fisse e le stupidaggini che abbiamo nella testa di '68 ce ne vorrebbe uno all'anno. Per esempio la scuola. Quanto ne abbiamo parlato negli anni passati e anche in quelli recenti. Eppure, malgrado tanto parlare, non è che in fabbrica ci siano idee molto diverse dal passato. L'operaio manda il figlio a scuola e si aspetta che gli insegnino e il figlio deve studiare perché così da grande guadagna tanto. L'operaio ha il suo esempio nell'ingegnere o nel capo che spesso è un diplomato che gira su e giù, non fa un belin e prende dei bei soldi più di lui. Eppure oggi di questa gente con gli studi a spasso ce n'è molta, ma operai ce n'è a spasso? Se avessi un figlio lo farei studiare, ma con l'idea che poi può anche fare un altro lavoro. Oggi se non vai a scuola sei castigato di più rispetto ai tempi miei che pure già c'era differenza. Un uomo senza studio poteva vivere bene cinquant’anni fa; ma non oggi. Oggi uno che non ha una certa istruzione è proprio un ravatto. La scuola è quel che è ma uno che sa leggere, scrivere e esprimere qualche idea è già qualcuno. Io non sono d'accordo con quegli studenti che all'università mi dicono "ma noi non sappiamo niente". Invece io sento che sanno perché so cosa sa la gente che davvero non sa niente. Che la scuola non insegni niente oggi non è vero.
Poi ci sono gli insegnanti bravi o che fanno le cose in modo nuovo e i genitori restano impauriti. Perché i genitori temono che i loro figli vengano diversi dagli altri e non facciano le cose in modo regolare. Nel Medio evo dicevano che ciò che è buono non è nuovo e ciò che è nuovo non è buono. Ora si vuol far credere che tutto il nuovo è buono, ma qualcosa di vero in quel modo di pensare del Medio evo c'è. Anche la medicina nuova la prima volta non la prenderebbe nessuno. Magari non si vorrebbe tenere la scuola com'è e tornare come prima. Perché il genitore cosa ha visto, cosa confonde? Ha visto un dottore quando veramente era un Cristo di dottore, il dottore. Il colletto bianco, la tuba dura, una valigetta stranissima che non l'aveva nessuno e i denari in casa, ecco il dottore di una volta. Ora lui pensa che era lo studio di quei tempi a fare quell'uomo lì e che il dottore di oggi – disoccupato – è fatto dallo studio di oggi. Invece è come è organizzata la società, come ti adopera che fa di te uno o l'altro dottore. Loro invece pensano che se il figlio studiasse verrebbe come quel dottore là, di un tempo. E temono il cambiamento della scuola, temono gli studenti che fanno casino perché pensano che non ci sia più la garanzia dei frutti e così vorrebbero tornare a prima. Ecco perché sulla scuola non ci capiscono.
Quello che ha studiato non sa – e i giovani che hanno studiato sono intelligenti ma spesso non lo capiscono – come ragiona uno che non sa. Prima di tutto se c'è una discussione sulla scuola, come farla o non farla, la respinge. Ha fatto sì e no le elementari, un sacco di anni fa, non sa cosa dire e preferisce parlare d'altro. Non sa scegliere. Vorrebbe solo che suo figlio venisse su uno che sa. Del metodo dice "belin, arrangiatevi, ci pensi il professore a come istruirlo; o il governo. Io so solo che una volta uscivano dei dottori che erano dei padreterni". Pensa così perché lui non immagina cosa c'era nella testa di quel padreterno quando lui era ragazzo. Aveva visto solo come viveva, com'era rispettato.
Chi le scuole non le ha fatte, o nella scuola non ci vive sia pure di striscio, è difficile che sappia anche vagamente cosa succede lì dentro. Io sono entrato per la prima volta dentro l'università tre anni fa, al tempo delle 150 ore, e ho scoperto – è stata proprio una scoperta – che un cittadino qualsiasi già venti o trenta anni fa – e chissà forse ancora prima – poteva entrare dentro l'università, sentirsi una lezione e andare via senza che qualcuno gli dicesse "lei chi è" o "vada fuori". Se io l'avessi saputo chissà a quante lezioni sarei andato. Magari sarei riuscito a capire quelle parole come filosofia che mi ci studiavo sopra già prima della guerra. Perché London ne parlava e io ci ho messo due o tre anni a capire cos'era. Ora so che è una parola che se tu interroghi cento filosofi te ne possono dare una definizione diversa. Oggi so che la filosofia è l'amore del sapere e che poi il sapere per ogni filosofo può essere una cosa diversa, che poi è la sua filosofia. Ma l'essenziale è l'amore, il bisogno del sapere. E che poi il rappresentante di tutto questo è Socrate. E così la biologia. Ma cosa è? mi chiedevo, e per ricordarmi la parola me la scrivevo persino sulla mano, poi anche lì ho saputo.
Certo che se avessi saputo che potevo andare all'università e sedermi lì… Io ho fatto le medie e allora un ragazzo, se non era della scuola, non poteva mica venire a sedersi in mezzo a noi: "ma tu chi sei? Vai via". Credevo che l'Università fosse la stessa cosa invece poi ho saputo… e quando l'ho detto a degli amici ci sono rimasti al punto che sono di nuovo in dubbio anch'io. Non ho ancora la certezza che mi posso andare a sedere in qualsiasi aula d'Italia a sentire la lezione di un docente d'università. Lo dico a dei compagni di lavoro e loro "Ma davei? Ma chi? Ma figurite…" E mi viene la paura che se mi infilo all'università poi mi sbattano fuori della porta.
Ecco cosa non sa quello che sa. Non sa che gente come me della scuola non sa niente e non se ne sarebbe accorta se un giorno non fossero venuti studenti a chiederci come doveva andare l'università o come doveva andare la scuola. "Ma come, lo chiedi a me. Ma dimmelo tu, invece". "No, dice lo studente, me lo devi dire tu perché sei un operaio". "Ma io sarò anche un operaio, ma cosa vuoi che sappia di scuola?". L'operaio quella richiesta la respinge magari anche si irrita: "Deve pensaghe u prufessu" è la voce che c'è tra noi. Una scuola differente? E perché? E poi differente come? No, non si immagina proprio. L'operaio manda a scuola suo figlio per farlo venire qualcosa di diverso da lui. È disposto – magari non tutti – a pagare, ai sacrifici, mantenerlo ma se poi gli vai a chiedere come dev'essere la scuola di suo figlio dirà "porcu can, mi lou pagu e poi devo anche dire al professore come deve essere fatta la scuola. Ma cosa ti pago a fare?"
Perché fare studiare un figlio vuol dire avere un’idea del cambiamento. È un’idea importante e non è che ci sia sempre. C'è il cambiamento personale e poi ci sono quelli generali… Forse c'entra con l'idea di futuro; un'altra idea difficile perché devi vederti in un modo come non sei e dire vorrei una cosa così o non la vorrei. Io per esempio ho capito che avrei potuto cambiare la mia vita sposandomi, ma non mi sembrava il caso e non mi sono sposato. La mia vita sarebbe cambiata anche se avessi preso un diploma, quella possibilità c'era, per diventare un tempista. È una cosa che non l'accettavo e l'ho scartata. Tra l'altro avrei dovuto impegnarmi per degli anni e rinunciare ai miei divertimenti. Io al divertimento do una importanza enorme e, anche se adesso ci vado poco a divertirmi, continuo a dargli molta importanza. Penso che l'uomo debba divertirsi; la considero una necessità. Perché queste sono le cose importanti per l'uomo: respirare, mangiare, il riparo, il divertimento. Le metto tutte nelle necessità. Invece ci sono quelli – quasi tutti potrei dire – che non sono d'accordo. Ma sbagliano perché una persona che si diverte è molto diversa da una che non si diverte; pensa meglio, giusto.
Nel '68 è successo per la prima volta che dei ragazzi, giovani, sconosciuti, magari figli di borghesi venissero ai cancelli la mattina alle 6 o alle 7 a cercare noi operai, a chiederci del salario, della fatica, della salute. Sapevano di noi cose che neppure noi le sapevamo, oppure non ci avevamo mai pensato. Un fatto importante, enorme che se ne parlerà ancora tra molti anni: ragazzi che venivano lì a chiederci "chi siete, parliamo, facciamo politica insieme". E piano piano con loro, con quelli che ti facevi amico, si finiva a parlare di tutto. E a uno di questi, un tipo tutto marxismo marxismo, una volta gli ho detto "ma parlami anche un po' di te. Per esempio che divertimenti hai, se ti piace il ballo, che libri leggi, se vai a teatro, all'opera, al cine, se tra ragazzi ora far l'amore è una cosa facile... E mentre gli chiedevo ‘ste cose lui mi guardava stupito come se non fossero cose interessanti, come se fosse un aspetto della sua vita che in quel momento gli pareva secondario e comunque che a me non poteva interessare. Allora mi son messo a ridere e gli ho detto "guarda che la politica è un mezzo e il fine dell'uomo è il piacere ed è di quello che si dovrebbe parlare". E lui mi guardava come se avessi detto una cosa profondissima. Invece è la cosa più semplice del mondo che in qualche modo la pensavo già da piccolo: che il divertimento avrebbe dovuto essere la cosa importante della vita. Perché il divertimento è il sogno. Da bambino sogni di più e nella tua testa il gioco c'è sempre: biglie, cartine, bocce, tutti i sacramenti, ziardua (trottola), cerchio, lippa. C'erano le stagioni e le mode: finiva questo e l'altro cominciava. Sentivo molto il divertimento, forse perché ti facevano anche lavorare e allora facevi presto a capire la differenza.
Più grande, a Bolzaneto, giocavamo a accostare, a toccarsi, a rincorrersi con un sistema tutto complicato che noi chiamavamo la guerra. E a giocarsi anche i soldi con la riga e poi al pallone che magari era fatto con degli stracci; insomma mille divertimenti. A volte esplodeva una passione per un gioco che non vedevi l'ora di farlo almeno un po' e anche se uscivi tardi da scuola ti prendevi quei due minuti che poi venivano un'ora e finivi che prendevi delle botte. Da grande poi andavo sempre a ballare. Se adesso parli di andare una domenica a ballare ti dicono che è un fatto anticulturale: la balera, belin, roba da matti. Invece io, se ho imparato qualcosa, l'ho imparato ballando. Dopo la guerra avevo 25 o 26 anni andavo a Pegli, che allora era una località balneare, dove arrivavano queste ragazze che avevano la maturità e io mi facevo insegnare tante di quelle belle cose da non credere. Mi davano lezioni su quello che sapevano, compresi i conti sulla bolletta, le percentuali… tutto mi hanno insegnato. C'erano delle professoresse che mi dicevano quello che insegnavano a scuola, il modo di parlare, anche la politica. Beh, certo, io avevo una certa intraprendenza, mi piaceva immischiarmi. Ricordo che dopo la guerra andavo a ballare anche da Bardi, dove adesso c'è il Carlo Felice, e lì c'erano tutti gli studenti. A Pegli, da Bardi: insomma cambiare ambiente, cosa che invece non succedeva a Cinisello Balsamo dove io avevo un amico che loro avevano quasi il terrore di andare a ballare a Milano che poi era mezz'ora di tram. Io gli dicevo perché non andavamo a ballare in quei locali che mi avevano detto le ragazze che avevo conosciuto a Pegli e loro: "Eh, ma sei matto, a Milano? Guai al mondo". Perché si trovavano a disagio e al più accettavano di andare a Sesto San Giovanni.
Io son sempre in mezzo a quelli più giovani: magari ci litigo ma con gli anziani di più. Hanno i figli che gli hanno dato tutto, che hanno tutto. Ma se vai a vedere, cosa gli avran dato mai? Noi andavamo a ballare quasi tutte le sere e questi non escono mai di casa o se escono si chiudono in una automobile e accendono la radio e dici che hanno tutto? Gli abbiamo tolto tutto, poveri ragazzi. Io la vedo così. E loro dicono che gli hanno dato tutto, che "mugugnan ancù", che sono dei bastardi e che qui e che là. I giovani le capiscono queste cose, belin se lo capiscono che la loro è una vita schifa, tutto sommato, con tutti gli oggetti che hanno più di me. Lo capiscono… Be’, almeno mi sembra. Certo sono più seri, più maturi. In fabbrica noi facevamo tanto di quel casino e quegli stracci bagnati d'olio che volavano di qua e di là e le scarpe chiavate sul pavimento. Invece gli operai giovani di oggi sono di una serietà che bisogna vedere. È impressionante, non c’è uno che faccia uno scherzo, niente, tutti bravi. Spero che sia perché si divertono fuori, da qualche parte perchè il divertimento è importantissimo, sempre, a tutte le età. È il presente e spesso ce ne dimentichiamo.
Poi c'è il futuro: del mondo, degli uomini, ma quello appartiene di più alla religione, alla filosofia. Ma anche su quello finisce che mi litigo. Perché circolano sempre quelle frasi "il povero sarà sempre povero" anche se poi sotto c'è la speranza per i comunisti di guadagnare le elezioni, per il democristiano che il suo partito lavori un po' più seriamente, che i mangioni li scoprano e li tolgano di mezzo e che le cose vadano meglio. Insomma tutti sperano in qualcosa ma neppure si azzardano a dirlo. Quelli che hanno le speranze e lo dicono sono pochi e sono considerati un po' fanatici.
Adesso ho deciso di andare in pensione e mi diverto a chiedere a uno e all'altro che cosa mi consigliano. Andare o non andare, chiedo. E i più mi dicono: “non andare, non è il momento, bisogna stare a vedere”. E io gli dico: “Starei a vedere volentieri se avessi vent'anni ma non posso aspettare così tanto perché poi muoio. Non posso lavorare ancora degli anni che poi, belin, tra un po' di anni son morto”. Ma questo fatto della biologia, che si muore – che è normale e anche da noi ne muore parecchi – non entra nel modo di ragionare. La fine della vita e la morte ci sono, fisse – si dice "certo come la morte", no? – ma nessuno le vuol prendere in considerazione quando decidi cosa dovresti o non dovresti fare. E anche di questo non ho mai capito perché. Ti dicono: “Vai in pensione e poi magari tra tre mesi chissà cosa succede e ti trovi senza soldi”. È perché ci portiamo dentro la paura del cambiamento improvviso, della miseria che torna, della miseria che è stata. È una paura bagascia che abbiamo dentro; da quando non lo so. Un segno come il battesimo che almeno quelli della mia generazione l'ha toccati tutti. Non so se è legato all'età o perché siamo noi, che abbiamo vissuto così.
E questo sarebbe il futuro personale, invece il futuro dell'uomo, del mondo... Forse l'uomo resterà; se la medica perché si sa che è un animale che si adatta, ma credo che non andrà a star bene. E il primo disastro resta l'automobile. Dopo la guerra compravo una rivista che forse ci sarà ancora, anche se è tanto che non la compro; si chiamava Mercurio, una specie di fratello di Selezione. Ci scrivevano anche degli economisti. Si leggevano degli articoli dove c'era scritto che questa automobile non può mica durare; e c'erano quelli che invece la esaltavano. Forse erano lezioni fatte per economisti delle università inglesi o americane. Però l'automobile è ancora lì e ci tengono tutti. E han fatto il suo gioco. Han tolto tramway e tutto il resto così è rimasta sola. Io penso che l'umanità dovrà liberarsene. Se non la finiamo di andare in automobile vivremo sempre peggio. Non si può comprare all'estero miliardi di benzina e bruciarla. Prendiamo un bel recipientone, grosso come Genova, lo riempiamo di benzina e poi ci buttiamo un fiammifero. Fsss brucia tutto e ci rimane il fumo, la polvere, un inquinamento bagascio e tutto il resto. E il giorno dopo vai di nuovo lì, riempi e bruci. E così avanti. Belin, come si fa a andare avanti così? Uno va in fabbrica a fare tre viti, una belinata da ridere e ci va in automobile. Sono otto le ore di lavoro? Be’ meglio che faccia solo tre ore e ci vada a piedi. Se comandassi io: “ Dove stai? A Busalla? Ti do tre ore per venire a piedi e tre per tornare; per due ore lavori: son sicuro che ci guadagno”. Sarà perché sono genovese e le cose le vedo messe sul risparmio ma belin non si può bruciare un sacco di litri di benzina per mandare a lavorare uno. Son cose pazzesche e in più inquina, sacramenta, dà un danno della madonna, impesta tutto, non passeggi più, ti fai della rabbia…



Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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Indice

Venerdì 23 gennaio
2004

Sabato 14 marzo
2004

Sabato 17 aprile
2004

Venerdì 14 maggio
2004

Venerdì 11 giugno
2004

Sabato 10 luglio
2004

Giovedì 26 agosto
2004

Sabato 9 ottobre
2004

Sabato 13 novembre
2004

Sabato 4 dicembre
2004

Sabato 18 dicembre
2004

Postfazione
2007


Frammenti di un
museo virtuale
L'album di Ezio Bartoli
Il taccuino di Pippo Bertino
La memoria di Gino Canepa



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