Lucia Rodler

Fra memoria e romanzo. Anton Giulio Brignole Sale nel ricordo di Francesco Fulvio Frugoni





In ogni occasione Francesco Fulvio Frugoni insiste compiaciuto sulla sua capacità di suscitare l’ammirazione e l’amicizia dei grandi. Come mostrerebbero le lettere elogiative che fa precedere al Cane di Diogene, egli possiede il segreto di piacere agli uomini di cultura, dotati di solida moralità. Ma, nella triste condizione di esule, Frugoni avverte di dovere incrementare la propria naturale inclinazione, senza arretrare dinanzi ai cerimoniali dell’adulazione: non per nulla le icone di principi, papi e cardinali assiepate nel Museo della Gloria e nel Sacrario di Apollo risvegliano in Diogene e Saetta – protagonisti dell’ultimo visionario viaggio del Cane – un’attrazione clamorosamente encomiastica. Non c’è dunque da meravigliarsi se Anton Giulio Brignole Sale rientra nel novero dei personaggi elogiati per riacquistare la stima della classe dirigente genovese: la familiarità con un uomo pubblico eminente offre al Frugoni la possibilità di compiere una selezione memoriale di situazioni tali da proiettare l’ingrandimento eroico del personaggio anche sul biografo d’occasione. Più ancora del sodalizio letterario, la confessione religiosa che il Brignole avrebbe rilasciato al Frugoni permette di articolare il discorso epidittico in una sorta di dialogo intimo di singolare effetto persuasivo. E alla fine ci si chiede se la memoria che diviene racconto trascrive la verità o, non del tutto in buona fede, costruisce una finzione ad uso personale.
Ma prima di giungere a questo episodio romanzesco, conviene leggere altri due passi in cui il Brignole appare come l’alter ego del Frugoni, come voce animata da una forza insieme arguta e severa. Il primo si trova nei Ritratti critici, un’opera satirica del 1669, a cui il Frugoni allega l’elenco di alcuni suoi manoscritti di imminente pubblicazione. Per voce di Innocenzo Peregrino – una figura fluida che in questo caso svolge la funzione di lettore implicito che commenta i testi dell’autore e ne orienta la decodificazione – viene menzionata un’opera intitolata La vita di S. Alessio

« colma di tenerissimi affetti e di patetica spiegatura, composta dall’autor in gioventù, gli fu rubata sul tavolino da un tal ignoto, che perciò non ardì mai imprimerla, per non esser colto col furto espresso. Il famoso Marchese Brignole Sale, che ne aveva sentito, mentre l’autore passò in Ispagna con lui, qualche squarcio, impiegò poi la sua rara eloquenza nell’altra sua, che stampò, dove pose tutto il suo sale; che perciò l’autore, quando ben li fosse stata restituita la sua, non la stamperebbe attesa l’osservanza che professa immortale alla gloriosa memoria di quel suo caro padrone» [1]

Il riferimento va al romanzo agiografico del Brignole, ma ai nostri fini va sottolineato l’accenno al viaggio in Spagna, compiuto tra il maggio 1644 e il settembre del ‘46, allorché il venticinquenne Frugoni aveva appena pubblicato La guardinfanteide (1643) e il Brignole, più anziano di quindici anni, si era già affermato con le Instabilità dell’ingegno (1635), la Maddalena (1636), il Carnevale (1639), L’Istoria spagnola (40-42) e il Tacito abburatato (1643).[2] Non si può certo parlare di intertestualità; ma questo breve passo ci dice che i due viaggiatori discorrevano di letteratura e che, forse, il giovane religioso suggeriva all’autorevole amico qualche soggetto narrativo. Ma non è tutto. Il Frugoni afferma infatti argutamente che, visto il « sale » del Brignole Sale, e soprattutto in nome del rapporto di stima che lo lega all’amico, morto da sette anni, egli non avrebbe pubblicato la sua Vita di S. Alessio, anche se gli fosse stata restituita. Non è una dichiarazione da poco, dal momento che Frugoni si mostra generalmente assai risentito nei confronti di chi si appropria di quelle che egli considera sue idee. Il fatto è che tra i due sembra esserci stato un vero dialogo letterario, oltre che umano.
Una conferma si legge nel Cane di Diogene: nel X racconto (Il tribunale della critica) il Brignole prende la parola in una sezione del testo dedicata alla « censura curiosa delle arguzie », alla presenza della Critica, di Matteo Peregrini e di altri letterati liguri tra cui il Cavalli, il Chiabrera e Agostino della Lengueglia. Qui il Brignole si presenta come scrittore satirico, recitando il noto epigramma dedicato al Poeta goffo, che fa parte del Satirico, « poi riformato coll’intitolarlo innocente, perocché voi ben sapete che la verità non si può dir a bocca tonda, ma bisogna strangolarla con le sincopi ».[3] Il riferimento al genere della satira non è casuale: nell’ascrivere il Cane di Diogene a tale forma letteraria, il Frugoni ribadisce infatti più volte la natura « innocente » della sua critica morale, precisando che essa colpisce il vizio e non il vizioso, è generica e non specifica o individuale. Inoltre tra le opere che egli dice di avere pronte per la stampa, esisterebbe un « Archiloco innocente, satire morali coi commentini », che fa pensare al Satirico Innocente del Brignole. Senza dilungarci sulla teoria della satira secentesca, che ci porterebbe a ragionare su Giovenale e sul suo più acuto interprete secentesco, l’Abati delle Frascherie,[4] risulta sufficiente sottolineare che i riferimenti al S. Alessio e al Satirico innocente segnalano un dialogo all’interno di una poetica comune.
Ma c’è un altro passo in cui Frugoni ricorda Brignole in modo ancora più intenso e personale. Siamo nell’Eroina intrepida, la biografia di Aurelia Spinola dalla nascita nel 1620 alla morte, avvenuta nel 1670. Il Frugoni ha già sperimentato questo genere nella Vergine Parigina (1661), la storia di S. Aurelia di Francia, figlia di Ugo Capeto: ma nel primo romanzo, una vera agiografia, si avverte una sorta di teleologismo astratto con cui il racconto afferma di Aurelia le proprietà già esistenti dalla nascita entro un disegno schematico dove trovano posto i più diversi lacerti aneddotici; nell’Eroina intrepida, invece, viene descritta la crescita di una personalità, non la sua epifania, e il maestro dichiarato è il Mascardi dell’Arte istorica, il quale aveva raccomandato ai biografi di prestare particolare attenzione allo « stato interno dell’animo » da scoprire indagando i dettagli della personalità, quelle « minutissime cose » cui l’individualismo del pensiero stoico – condiviso dagli intellettuali del tempo, lettori entusiasti di Giusto Lipsio – dava un’importanza maggiore rispetto agli attributi politici e sociali.[5] Inoltre l’Eroina intrepida è anche un’autobiografia del Frugoni che, con la maschera di Innocenzo Peregrino (in questo caso personaggio che talora, come quando ricorda il Brignole, è anche narratore di secondo grado, sostituto di un’istanza autoriale in prima persona e dunque in posizione chiastica rispetto ai Ritratti critici), riferisce la sua esperienza di amico e consigliere degli Spinola.[6]
Brevemente conviene delineare l’intreccio dell’Eroina intrepida: la famiglia Spinola è una delle più prestigiose a Genova: la madre di Luca, generoso e paziente padre di Aurelia, è Maria Doria, sorella del doge Gio. Stefano Doria, elogiato dal Brignole; quanto a Pelina, la madre di Aurelia, è nipote, da parte materna, di due eroi: Ambrogio, definito dal Malvezzi « il più chiaro generale dell’età nostra » e lodato dal Cebà, e Federico, anch’egli dedicatario di una canzone del Cebà. Particolarmente interessante è la figura di Pelina che vive un rapporto conflittuale con Aurelia, fatto di passioni complesse tra cui l’invidia. Sia pure entro i limiti di un discorso che intende amplificare le qualità di Aurelia, anche a costo di sminuire la virtù di chi la circonda, il Frugoni dimostra una notevole capacità di indagine psicologica nel descrivere i sentimenti che legano le due donne, anche perché identifica in essi la causa primaria delle azioni. A una decisione materna va addebitato anzitutto il matrimonio di Aurelia con Ercole Grimaldi, figlio del principe di Monaco Onorato II, il quale intende rassicurare i potenti amici iberici con un matrimonio filo-spagnolo, mentre ha già deciso di seguire le ragioni di Richelieu e poi di Mazzarino. Aurelia si trova così a Monaco accanto a un uomo che si rivela ossessionato dalla gelosia e dalla sottomissione al padre. Qui conosce anche le difficoltà della vita a corte: una damigella, Alcinella, conquista il cuore del vedovo Onorato, screditando ai suoi occhi Aurelia. E quando nel 1652 Ercole muore, ucciso per errore – almeno così pare – da un servo durante un gioco di tiro al bersaglio, il disagio di Aurelia aumenta sempre più. Nel frattempo Pelina, in un luogo di pellegrinaggio presso Savona, conosce il Peregrino, che diviene il confidente di madre e figlia e l’interprete dei conflitti, soprattutto dopo che il buon Luca muore di peste nel 1656 e Aurelia viene esiliata da Monaco e allontanata dai figli, per le pressioni di Alcinella su Onorato.
A questo punto l’eroina decide di rivolgersi a Luigi XIV per ottenere comprensione ed essere riammessa a Monaco. Mazzarino è morto (1661) e Aurelia spera che « rimosso l’ostacolo del cardinale con cui Onorato se l’intendeva, le si aprirebbe più agevole il varco per introdursi alla sua giustificazione ».[7] Va subito detto che Aurelia viene ricevuta da Anna d’Austria, ma non incontra direttamente il sovrano. A Parigi prende dimora nel convento di Bella Caccia, a Saint-Germain, dove il Peregrino che nel frattempo è stato bandito da Genova, a causa di alcune allusioni della sua Vergine parigina contro il doge e la classe dirigente genovese – a riprova del fatto che il Peregrino è l’alter ego del Frugoni –, la raggiunge. Tra la primavera del 1661 e il ‘63 (l’autore afferma che Aurelia è stata a Parigi ventisei mesi), Peregrino e Aurelia risiedono dunque a Parigi, dove giunge loro la notizia della morte del Brignole, di Pelina e di Onorato II, che lascia erede al principato Luigi, figlio di Aurelia, desideroso di riconoscere alla madre i diritti su Monaco. Prima di leggere l’episodio che ci interessa, ricordiamo che i restanti capitoli narrano il trasferimento di Aurelia a Aix-en-Provence, dove si ammala nel 1669 e muore l’anno seguente, assistita dal Peregrino.
Parlando del Brignole, il Peregrino intende offrire a Aurelia un exemplum di forza morale, in modo, però, non astratto, ma vivo e commosso: egli narra il difficile ritorno dalla Spagna – testimoniato, come vedremo, da Luca Assarino –, allorché la nave genovese viene seguita per un intero giorno da due galee africane e Peregrino raccoglie una confidenza del Brignole, un voto che è poi la sua decisione di farsi religioso. Così, in una situazione di massima instabilità, il Brignole ha trovato stabilità dentro di sé, ascoltando la propria voce interiore. Lo stesso comportamento può e deve essere assunto da Aurelia; la vita del Brignole risulta infatti simile a quella dell’eroina: entrambi hanno sperimentato l’agio esteriore, preso coscienza degli inganni del mondo e dell’apparenza, e ancora rifiutato le passioni terrene per volgersi alla fede. Il panegirico del Brignole si inserisce in un contesto già di per sé esemplare: nel convento di Bella Caccia, infatti, Aurelia è un modello di comportamento per le monache, che ammirano la costanza con cui ella segue il digiuno, in occasione della Quaresima:

« Oh di qual forza è l’esempio! Quelle religiose, tutto che ottimamente disciplinate, riflettendo lo sguardo col pensiero sopra di Aurelia, ne contraeano più intenso il fervore di spirito [...] considerando un’italiana secolare, principessa, allevata nell’agio, benché dal disagio sbattuta, esser capace, colla sua sola norma di vivere, a riformare qualsisia rilasciata assemblea del monastico stuolo ».[8]

Ma come le monache ammirano Aurelia, così Aurelia ammira il Brignole, in un intreccio di punti di vista sapientemente regolato dall’autore, che trasforma un discorso epidittico pronunciato per rafforzare la « divozione » di Aurelia in novel avventuroso – riproducendo in miniatura il carattere dell’intero romanzo. È un momento di sincera commozione, in cui tra lacrime e sospiri il Peregrino afferma con serietà « ora potrò parlare », iniziando un elogio delle virtù intellettuali e morali, dall’infanzia alla maturità, del Brignole, definito « il più brioso fanciullo che mai la natura formasse [...] il più studioso giovine che Minerva erudisse », e poi « non men parteggiano di Amor, che di Apollo », « un Mercurio del tutto [...] nell’Accademia svegliatissima degli Addormentati » con una « Pallade al fianco », cioé la saggia consorte Paola Adorno.[9] La serie dei riferimenti mitologici non deve stupire: essi permettono al Frugoni di sottolineare il carattere eroico della biografia, ricorrendo a una serie di antonomasie. Di più, poiché l’antonomasia si basa sull’applicazione del principio dell’analogia, essa corrisponde perfettamente alla funzione esemplare che il Brignole assume nel discorso del Peregrino. Dopo aver evocato tra gli illustri accademici Addormentati gli amici del Brignole, il Mascardi, il Chiabrera e Giovan Battista Manzini – che alla vigilia della partenza per la Spagna scrive al Brignole una lunga e affettuosa lettera per dissuaderlo dall’accettare un’impresa scomoda e rischiosa –, il Peregrino procede dunque alla rassegna delle opere letterarie.
Sin qui non vi è nulla di particolarmente originale: in una struttura lineare e compatta viene rappresentato il volto pubblico dell’intellettuale, artefice della propria sorte per la perseveranza di una condotta responsabile, guidata dalla vocazione letteraria. Ma la tonalità muta allorché il Peregrino si abbandona al ricordo autobiografico: si tratta naturalmente solo di un frammento, e ci vorrà ancora un secolo perché biografia e autobiografia rinneghino il modello esemplare per orientarsi verso il racconto dell’esistenza quotidiana, privata e ordinaria. Ma, intanto, è un primo indizio del mutamento di questo genere letterario. È il 4 settembre 1646, e i due stanno per affrontare un viaggio che dura cinque giorni; c’è poco vento, e l’imbarcazione dove si trovano i genovesi è assai lenta con i remi, anche perché la ciurma non lavora con impegno. Non ci sarebbe comunque fretta, se all’orizzonte non comparissero due temibili galee:

« Fu il ritorno strano, e non saprei chiamarlo se più fortunato, o più fortunoso. Ci dieron una caccia da cani due galee rinforzate di Algieri, che alla nostra partenza [...] ci tesero agguato, e ci vennero addosso, tosto che ci scoprirono, sullo schiarir del giorno [...] Il periglio era certo, come incerto lo scampo ».[10]

Ancora, nel ricordo, le parole esprimono un senso di pericolosa instabilità, sottolineata dalla ricorrenza di termini legati all’aria: le galee nemiche « volavano sulla punta d’un ponente, che non giungeva a gonfiar le vele della nostra galea »; il Brignole « invocava propizia la salvezza da quel Signore che ambulat super pennas ventorum, il quale producit ventos de thesauris suis ». Sulla nave genovese l’atmosfera si fa subito affannosa, mentre le azioni si susseguono rapide: il marchese esprime al Peregrino le sue ansie: se verrà fatto schiavo, che ne sarà di sua moglie e di sua madre? Il capitano, Giovan Battista Giustiniani, consiglia di offrire denaro ai marinai per dare loro vigore – precisamente « mille pezzi da otto reali »; vengono poi gettati in mare gli oggetti pesanti, ad eccezione del cannone; è promessa la libertà a due schiavi rematori, e tutto questo mentre le due galee nemiche avanzano pericolosamente. È un passo di indubbia efficacia romanzesca, come più volte ci accade di leggere nell’Eroina intrepida. Il racconto procede poi verso lo scioglimento edificante, senza però perdere nulla della sua intensità. In luogo del susseguirsi rapido delle azioni, abbiamo quella che il narratore definisce la « concentrazione del pensiero », un momento di stasi che coincide con la decisione importante del marchese e lo scambio di intimità tra i due uomini:

« Presomi per la mano mi disse, stringendola due volte e tre, con voce sommessa all’orecchio: Io vi chiamo in testimonio alla presenza del mio Dio che faccio voto irrevocabile, quando mia moglie muoia prima di me, farmi religioso di quell’instituto che mi sarà inspirato dal cielo; ma vi prego, per la confidenza che vi professo, e ‘l voglio per l’importanza delle conseguenze, che me ne conserviate il vostro segreto, finché duri questa mia vita. Io m’obbligai, ed egli, premendomi di nuovo la mano, andò meco salmeggiando, finché incominciò ad incresparsi, al soffio di un zeffiro lieve, l’onda incalmata ».[11]

Con il ritorno del vento, che fa seguito al voto del Brignole fatto appunto al signore che « producit ventos », il racconto riprende la descrizione del viaggio. L’episodio è breve, ma più delle parole contano i gesti, interpreti diretti dell’immediatezza emozionale e carichi di allusività simbolica (il segno della pace veicolato dallo stringersi la mano). La paura è durata un intero giorno, dallo « schiarire » sino al « declinar del sole », ma non è ancora finita, e infatti durante la notte si vede il « fanale acceso » della galea africana. Quando finalmente, « a mezza notte », la luce « odiosa » scompare, è la salvezza, che coincide dunque con il buio: per un’antitesi tipicamente barocca, la luce interiore si contrappone all’opacità esterna, la nascita della vocazione religiosa alla morte delle ombre terrene. A vero dire, di continuo, esse rinascono, ma vengono meglio superate, come accade ai viaggiatori che presso Monaco rischiano il naufragio per « una tempesta più orribile perché non veduta nel buio del temporale notturno », giungendo tuttavia sani e salvi in patria nel giorno della nascita della Madonna.
Peregrino riferisce poi che dopo alcuni mesi Adornia morì di parto, tanto che al Brignole « crebbe lo spirito, benché si sentisse mancare il cuore » per il dolore: di qui la rinuncia alla carica di senatore (1649) e la decisione di entrare a far parte dei Missionari Urbani e poi dei Gesuiti (1652). Ma conviene a questo punto leggere la conclusione dell’episodio, visto che essa illustra l’effetto di tale racconto nell’animo dell’ascoltatrice:

« Gradì sommamente Aurelia la narrativa del Peregrino e, prendendo maggior fomento di spirituale fervore dalle notizie così esemplari dell’ammirabile servo di Dio, sì come esaltonne la vita, così anche invidionne la morte. Quindi chiedeva al Signore che le traspirasse una scintilla di così puro incendio per poterne imitare in parte il profittevole instinto. Resa perciò più vigorosa nel corso della sua divota carriera, eccitava ogni giorno più con la maraviglia l’osservanza di chi stupiva nell’osservarla ».[12]

Lo scopo è stato raggiunto: la biografia del Brignole, mascardianamente ‘intima’, ha colpito Aurelia, la quale ne trae « maggior fomento di spirituale fervore ». E, come già si è detto, queste pagine ospitano un continuo fervore spirituale, veicolato dall’intreccio dei punti di vista: le monache sentono un « intenso fervore di spirito » osservando Aurelia; Aurelia si entusiasma immaginando il Brignole; quanto al Peregrino, egli svolge per così dire la funzione di super-io, insegnando a trasformare il caso in causa di virtù, secondo il modello della letteratura edificante cui Frugoni vuole ascrivere i propri romanzi. Tra le qualità dell’Eroina intrepida c’è appunto questa combinazione equilibrata di prospettive che nel Cane di Diogene verrà meno, perché prevarrà la voce aspra e solitaria del predicatore. Anche per questo il romanzo di Aurelia meriterebbe di essere più conosciuto, mentre è restato, come molti altri del Seicento, troppo dimenticato. Basti dire che l’aneddoto della conversione non è registrato nelle biografie brignoliane. E per avere un’ulteriore conferma della tonalità intima di queste pagine vale la pena leggere la relazione fatta dall’Assarino nel numero del 15 settembre 1646 del « Sincero »: la galea del marchese è da pochi giorni tornata in patria, e il Brignole espone al Senato l’esito dell’ ambasceria; quindi viene riferita l’avventura del viaggio di ritorno:

« si intese che partitasi S[ua] E[ccellenza] [...] con buonissimo tempo d’Alicante [...] scoprendo due galere d’Algeri che venivano alla sua volta, fu con tanta ostinazione da esse per l’intiero spatio di un giorno seguitata, che la più veloce arrivò la galera del Sig. marchese a distanza di men di un miglio. Però il donativo di 1000 scudi fatto da esso alla ciurma, la libertà data a due schiavi di quei che vogavano alle spalle e l’alleggerir la galera co’ il getto di quelli impedimenti che la rendevano più tarda al vento; per maniera inanimarono tutti a procurare scampo, che in breve hora a forza di velocissime tirate di remo tanto si dileguarono dai corsari, che coll’aiuto della sopraveniente notte ne rimasero affatto liberi ».[13]

Come si vede, è tutta un’altra storia: la croncaca dell’inseguimento viene raccontata solo dall’esterno, senza alcun accenno alle sue conseguenze nell’animo dei protagonisti. A essere enunciate sono le news, non il novel che da esse trae origine, per dirla nei termini del romanzo inglese del Settecento.[14] A questo punto si può anche tentare di tracciare alcune conclusioni più generali sul romanzo secentesco: in alcuni casi – e l’episodio che riguarda il Brignole nell’Eroina intrepida mi sembra uno di questi – si ha davvero l’impressione che l’esperimento di questo genere nuovo sia riuscito. Da una parte c’è la realtà, riferita dall’Assarino, che informa sulla presenza dell’ostacolo e la sua rimozione – una logica binaria in pieno esercizio nell’epica e nella letteratura folclorica; dall’altra c’è la finzione del Frugoni, in cui la realtà viene interiorizzata, cosicché l’uomo non si limita a reagire dinanzi agli eventi, né si illude di dominarli attraverso un’azione tipologicamente epica, ma interagisce con essi, facendo i conti con l’immagine interna dei fatti esterni. Perciò anche la funzione emblematica delle opposizioni barocche di luce e ombra, giorno e notte, quiete e tempesta, viene ad assumere un duplice valore: descrive la realtà esterna della natura e insieme quella interna dell’uomo che in essa vive. E proprio su questo sdoppiamento di punti di vista e sull’intreccio fluido e armonico tra realtà e finzione, in cui il lettore riconosce la propria condizione di esistenza, si fonda la fortuna del novel sette e ottocentesco. Da questo punto di vista Aurelia è già una lettrice moderna, e il Brignole un personaggio romanzesco a pieno titolo.




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[1] F.F. Frugoni, De’ ritratti critici abbozzati e contornati, Venezia, Combi e La Nou, 1669, III, p. 692.

[2] Per un orientamento aggiornato cfr. Q. Marini, Francesco Fulvio Frugoni, e Id., Anton Giulio Brignole Sale, in AA.VV., La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, II, pp. 53-91; I, pp. 351-389.

[3] F.F. Frugoni, Del Cane di Diogene, Venezia, Bosio, 1687-89, X, p. 265.

[4] Cfr. U. Limentani, La satira nel Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, pp. 9-15, 244-282, e più in generale M. Hodgart, La satira. Quando la crudeltà si sposa all’ironia, tr.it. Padova, Muzzio, 1991, pp. 147-150.

[5] A. Mascardi, Dell’arte istorica, Firenze, Le Monnier, 1859, pp. 52-53. Sull’importanza di Mascardi per lo sviluppo del genere biografico di tipo plutarchiano cfr. A. Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 39-41.

[6] Nell’appendice ai Ritratti infatti il Peregrino attribuiva al Frugoni le opere che egli aveva effettivamente scritto, mentre qui – nell’Eroina – è l’istanza autoriale anonima, presumibilmente coincidente con il Frugoni, ad attribuire tutte le opere al Peregrino. Un minuetto di riconoscimenti di paternità non senza significato per lo studio del Frugoni.

[7] F.F. Frugoni, L’eroina intrepida ovvero la duchessa di Valentinese, Venezia, Combi e La Nou, 1673, III, p. 270.

[8] Ibidem, p. 436.

[9] Ibidem, p. 439-441.

[10] Ibidem, p. 443.

[11] Ibidem, p. 445-446.

[12] Ibidem, p. 450.

[13] Cfr. M. De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, Genova, Libreria Apuana, 1914, p. 262. Sul « ritratto ideale » che l’Assarino traccia del Brignole Sale cfr. F. Vazzoler, «... Anche dagli scogli nascon pennelli...»: Luca Assarino e i pittori genovesi del Seicento. Le dediche degli ‘Argomenti’ dei ‘Giuochi di Fortuna’, 1655, in “Studi di storia delle arti”, 1991-4, n. 7, pp. 35-62.

[14] Sul rapporto instabile tra news e novel cfr. L.J. Davis, Factual Fictions. The Origins of the English Novel, New York, Oxford University Press, 1983.




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