Manlio Calegari, Cara Marietta - Caro Professore: Premessa, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17

Ge-Sestri 26 maggio '87





Caro professore,
ti mando i miei ultimi compiti. Non credo di aver più molto da scrivere. Mi sento abbastanza "spremuta". Aspetto che tu ti faccia vivo per parlare un po'.
Con affetto Marietta
 
3. Il pensiero della morte. In cospirazione e in montagna, la mia scoperta è stata che non ci sono pensieri sulla morte senza pensieri sulla vita. Io, come tutti, ho temuto la morte, che poi voleva dire la cattura e la tortura, perché la morte in sé non è una cosa che ti fa tremare se non per le persone che lasci. Nel luglio del '44 quando ormai in città ero stata riconosciuta il partito aveva deciso di mandarmi a lavorare in Riviera ma io mi sono opposta. Ero più riconoscibile di altre donne - ero alta e allora le donne alte erano poche - e poi il traffico della borsanera faceva spostare un sacco di gente dalla città alla campagna e alla Riviera. Niente di più facile che qualcuno mi riconoscesse. Mi sono opposta; ho detto no, basta, non potete chiedermi questo. E ho dovuto anche discutere. Erano compagni ma sapevano come fartela pesare. E' allora che ho deciso che sarei andata in montagna. Da Nervi la mattina del 25 luglio mi hanno accompagnata al Becco e poi a Laccio. Ricordo che camminando continuavo a ripetermi "lassù dovrò scappare ma almeno sarò libera". In montagna, piano piano, sono tornata a vivere ma dopo il rastrellamento di fine agosto '44 ho capito che eravamo stati fortunati. Era mancato poco che non ci prendessero tutti. Ero ben decisa a restare ma lassù mi è cominciata un'altra paura. Era la nostalgia dei figli che mi tormentava. Mi chiedevo cosa sarebbe stato di loro senza di me. Era un dolore così forte che sono andata da Conte e gliel'ho detto. Volevo essere rassicurata. Capisco che il mio andare dal dirigente di partito, anche se amico, per chiedere aiuto ti farà ridere e mentre te ne scrivo provo un certo disagio. Ma allora lo trovavo ragionevole. Forse era perché davo più al partito che a loro e avevo bisogno di una giustificazione per me stessa. Non so se Conte aveva capito tutto comunque ricordo che mi aveva tranquillizzato. Penseremo noi a tutto, m'aveva detto; a mandarli a scuola e a tutto il resto; frasi come "il partito non dimentica". Chissà poi cosa sarebbe realmente successo se ci fossi rimasta. Comunque mi era bastato e dopo pochi giorni mi era passata. Ero maturata. Capisci che ti possono prendere ma impari anche a difenderti che nel mio caso ha significato avere un pensiero fisso sopra a tutti gli altri: non devi farti prendere, mi ripetevo, devi stare attenta, sempre. Io lo chiamavo il pensiero talismano. I figli erano diventati il mio pensiero talismano. Non bisogna arretrare o cercare la zona che ritieni sicura, il lavoro più facile. E' la piazza anonima che ti salva non la piazzetta conosciuta del tuo paese. Ma devi stare attento, sempre, non lasciare al caso niente di quello che puoi controllare. Per il resto ci vuole fortuna.
Anche in guerra la morte non mi è mai parsa normale. Guardando quelle fila di corpi anonimi tirati fuori dalle macerie dopo i bombardamenti a Cornigliano o a Sampierdarena ho sempre visto i singoli non la massa. Per ognuno, pensavo, c'era una famiglia, una madre, una moglie, una sorella (mi accorgo mentre ti scrivo che pensavo solo a un dolore di donne, come se gli uomini non ne provassero). Ma la morte della persona che combatte con te, del compagno di lotta produce uno strazio che si rinnova dentro e non mi è possibile descrivere. Al dolore si aggiunge un sentimento come di colpa per essere sopravvissuto. Di fronte alla morte del compagno di lotta in alcuni cresceva un sentimento di rabbia, di vendetta. Io l'ho sentito poche volte e quando è successo subito dopo ho provato vergogna. Ho sentito invece spesso il tormento di essere sopravvissuta. Fortissimo al momento del fatto, è un tormento che cambia col progredire nella vita. Ma non credo che sia legato alla quantità di anni che ci separano dal fatto. Io ho avuto un rapporto mutevole con la mia sopravvivenza. Oggi ne sono felice perché ho potuto donarla ai miei figli. Ma in partenza non era stato così. Non ho mai detto: voglio sopravvivere e quindi non faccio questo o quest'altro. Col tempo invece la vita ti appare un valore in sé, da difendere comunque. Si capisce: invecchiamo e cerchiamo di non lasciarla.
Nel partito si usava la parola "cadere" per quelli che venivano catturati. Per uno che moriva si diceva invece "abbiamo perduto il compagno tale". Comunque la cattura e la morte erano previsti e se ne parlava con grande stoicismo. Come se si trattasse di una fatalità, qualcosa di inevitabile che prima o poi ti sarebbe toccato. Era il nostro segno distintivo di rivoluzionari. Invece in montagna, tra i partigiani la morte era un evento inatteso, non accettato; mai. Lassù, per fortuna, non si pensava al martirio. La morte non era nel prezzo della lotta. Al contrario esacerbava, provocava stupore. Io vedevo quei ragazzi disperarsi e ogni volta mi stupivo. Ne ero contenta perché anch'io sentivo come loro. Lassù il prezzo della lotta era la vita, le piccole e grandi soddisfazioni del vivere quotidiano, la vittoria.

4. Gli operai. Quand'ero bambinetta e la guerra, la prima, era finita da poco sentivo ripetere questa frase: un tempo si lavorava e si mangiava ora si lavora di più ma non ce n'è. L'operaio dopo la guerra era un povero: disoccupazione, fame da non riuscire a venirne fuori. Magari nelle campagne era diverso ma da noi era così. In quegli anni l'operaio è andato in basso. Non è che prima fosse in alto. No, ma è andato più in basso. Nel '18 quando la guerra stava per finire sentivi già i discorsi delle donne - lavoravano negli stabilimenti - che parlavano di chi sarebbe stata lasciata a casa per far posto agli uomini che tornavano. Si parlava della Russia ma qui la rivoluzione era cercare di metter qualcosa sul tavolo tutti i giorni perché con la guerra bene o male ci erano riusciti. Dopo la guerra invece sono venuti anni terribili. Si sentiva - sarà stato attorno al '25 ma non sono sicura - sussurrare di scioperi dei portuali. Ma in porto, lo sapevano tutti, qualcosa da mangiare o da vendere lo trovavi sempre. Giravano, detti a bassa voce, i nomi dei capi di certe lotte, gente che aveva fatto certe cose che poi finiva sempre che quelli che avevano brigato alla fine avevano avuto roba; avevano mangiato. Ricordo di aver sentito spesso i grandi parlare di roba da mangiare, da comprare; era quello di cui si parlava di più.
Col tempo è peggiorata ancora. Negli stabilimenti, verso il 1930, i capi, i guardiani erano tutti fascisti. Un richiamo fatto da loro era una multa, una sospensione e una sospensione voleva dire non mangiare. Oggi ci sono cose del passato che, se le dici, sono facilmente comprensibili. Ad esempio potrei elencare cose che quando ero bambina c'erano e poi sono scomparse. La neve, l'inverno, le scarpe sempre con l'acqua dentro (sempre), i morti di fame per lo più bambini o vecchi; sono cose che chiunque può immaginare. Ma che in casa di uno che prende una sospensione non si mangia, che la madre dice ai figli "vai un po' fuori e arrangiati" riesci a immaginarlo? Un bambino di 6 o 7 o più anni che gli dici "no, oggi niente, vai un po' fuori a cercartene". Non credo che, se tu lo raccontassi a scuola, un bambino di oggi potrebbe capire cosa significa "andarsene a cercare". Per fortuna, nella casa dove sono cresciuta, non era così, ma queste cose le sapevo e le vedevo.
Lo stabilimento era un posto di abiezione, di miseria morale. E' l'idea socialista e poi comunista che ha dato alle parole fabbrica e operaio un significato di importanza, di dignità. Ne ha fatto luoghi di solidarietà e di fraternità, dove la coscienza poteva crescere. Senza le Leghe, le società operaie, i sindacati, i partiti di sinistra, gli anarchici la fabbrica sarebbe rimasta, come in parte era quando ancora ero bambina, un posto di abiezione. Molti - quando io avevo 6 o 7 anni - ci entravano già quando ne avevano 12 anche se non si sarebbe potuto. Passavano il tempo a correre di qua e di là a fare i servizi agli operai che a volte li picchiavano o gli allungavano dei calci. Sentivano solo bestemmie, idiozie, alterchi. Ancora nel Venti erano tantissimi gli operai che non sapevano né leggere né scrivere. Era una situazione che era migliorata lentamente col socialismo ma che poi col fascismo si è fermata per anni.
Dopo quest'ultima guerra lo stabilimento - noi non usavamo la parola fabbrica - era un po' come il nostro santuario della Guardia. Forse confondevamo gli operai con la classe. Ci sembravano tutt'uno tanto che poi quando sono cominciate le situazioni nuove come l'Italsider, o le chiusure di molti stabilimenti con quelli che prendevano i soldi e se ne andavano in silenzio, siamo entrati in confusione. Vedevamo solo traditori; non capivamo il nuovo che arrivava e il vecchio che se ne andava. C'erano quelli che venivano in sezione piangendo a chiedere di poter fare la doppia tessera sindacale per poter essere assunto o per far assumere il figlio. Il giudizio del partito era sempre severo; la concessione, quando c'era, veniva fatta pesare. A pensarci oggi… I giovani se ne andavano e quasi non ce ne accorgevamo. Perché vanno, ci chiedevamo? Avrebbero dovuto restare, combattere. Per tutto si doveva combattere. Noi avevamo fatto una scelta di vita e ci sembrava che non si potesse vivere se non così.
Lo stabilimento era il cuore. Per la famiglia operaia, ma vorrei dire per il quartiere, tutto veniva da lì: dalle informazioni su una malattia o su una morte, a un magazzino che vendeva certe merci a prezzi scontati fino alla politica, all'economia: l'abbandono di una lavorazione, l'inizio di una nuova, l'arrivo di tecnici stranieri.
Gli operai erano il termometro della situazione. Li conoscevi quasi uno a uno e magari individualmente non ti impressionavano ma tutti insieme erano una realtà a cui si attribuiva un potere di orientamento e per questo il partito cercava di egemonizzarla, perché capiva che a loro volta gli operai avevano questo potere o prestigio sulla popolazione non solo operaia. Succedeva qualcosa, di internazionale o di nazionale o di cittadino, e tutti ci chiedevamo: cosa fanno gli operai? Era naturale chiederselo, come il respirare.
Gli operai per me erano un mondo di valori ma ne vedevo anche i limiti. Li conoscevo da vicino, da dentro - entravo e uscivo dalle loro case - e mi sembrava di sapere di loro più di loro stessi. In fondo era una società semplice da leggere. Avevano una divisa anche quando non erano in tuta. Erano poveri, con case povere, tutti col libretto al negozio. Vedevi la moglie di uno con un fazzoletto in più e tutti si domandavano come avesse fatto. La politica era il segno di nobiltà, l'aristocrazia, ma col tempo e i cambiamenti non è servita a mantenere i contatti con la massa. Eravamo sempre noi; ci si rinnovava ma troppo lentamente. E' difficilissimo accorgersi dei fatti mentre succedono. E' strano perché uno dice: sei lì e capisci. Invece no. E' perché guardi il presente con gli occhi del passato, della tua esperienza, mentre il presente contiene cose nuove per le quali l'esperienza spesso serve poco. Inoltre per conoscere la realtà non basta la politica mentre noi ci facevamo un vanto di riportare proprio tutto alla politica. Arrivavamo a dei punti incredibili. Ricordo una visita a una ragazza giovane, figlia di un compagno, magra, pallida nel suo letto che tossiva di una tosse terribile, cavernosa e noi intorno a lei che parlavamo di tesseramento, come se non la sentissimo.




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Manlio Calegari

Cara Marietta, Caro Professore

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Indice
Premessa
4 marzo 1987
12 marzo 1987
20 marzo 1987
Il partigiano Fran
Caro Piero
4 maggio 1987
5 maggio 1987
Pro-memoria
Sestri 8 maggio
13 maggio 1987
Sestri 12 maggio
Sestri 26 maggio
3 giugno 1987
16 giugno 1987
17 giugno 1987
25 agosto 1987
10 ottobre 1987


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