Manlio Calegari, Cara Marietta - Caro Professore: Premessa, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17

Venerdì, 20 marzo 1987





Telefonicamente ho concordato con Marietta di vederci attorno alle 16. Ho con me il testo del nostro primo colloquio. Servirà a provare che non intendo escluderla dal lavoro che sto facendo, ma glielo lascerò solo se me lo chiederà esplicitamente. Quando i materiali cominciano a circolare prima della conclusione di un lavoro succedono sempre dei grandi pasticci, interferenze, incomprensioni ecc. In questo caso, tra l'altro, la parte iniziale della registrazione è risultata pessima e in alcuni punti incomprensibile.
Arrivo puntuale e vengo introdotto in cucina dove questa volta c'è la luce accesa. Oggi siamo soli.
- Era il compagno V. della polizia partigiana, - spiega lei. Lo conosco da sempre e che fosse presente al nostro colloquio era una decisione dell'ANPI. Sono stata io a telefonare all'ANPI. Il compagno che mi ha cercato per propormi l'intervista, anni fa si era mescolato con gli extraparlamentari; era stato anche incarcerato. Lo sa vero?
- È andato via tranquillizzato? - chiedo con una certa petulanza. Marietta non risponde ma sorride, scettica. Dispongo sul tavolo i miei armamentari:
- La chiaccherata della volta scorsa, le dico, mi ha posto così tanti problemi che spero ci si possa vedere ancora. Intanto torno a farle i nomi dei personaggi di cui mi sto occupando e le leggerò alcune battute che mi ha fatto su di loro in modo che, se crede, possa aggiungere…-
Frastornata da questa raffica di pronomi in terza persona mi dice: - Non so come si usa oggi, ma potrebbe darmi del tu; non sono abituata al lei…- Sommata alla assenza del poliziotto-partigiano è la svolta decisiva nei nostri rapporti.
Il tema sono ancora una volta i comandanti. Nel movimento, lo scontro tra comunisti e non comunisti avviene sulle nomine e mi aspetto di conoscere la sua opinione su ognuno. Marietta, anche se non sottovaluta le questioni di linea politica, è perfettamente consapevole che, nella guerra di guerriglia che lei ha conosciuto, la personalità dei comandanti ha un peso fondamentale.
- Erano i comandanti che facevano i partigiani. In tutto: nell'andare, nel ritirarsi, nel mangiare, nell'aiutare. Era una scuola di vita e come a scuola c'erano maestri più bravi o meno bravi. In genere i comandanti più bravi non erano dei politici come si intendeva allora. Magari erano anche dei compagni ma non dei politici. I politici invece stavano nei ranghi superiori e allora poteva nascere qualche contrasto. -
- Perché contrasti? -
- Perché lassù c'erano uomini, comandanti come Bisagno o Croce, che preferivano gli elementi militari, che venivano dall'esercito, e noi non eravamo d'accordo. Dalla città salivano quadri operai sperimentati, uomini di valore, e per riuscire a inserirli nelle formazioni ogni volta era una lotta. -
Le faccio notare che i comunisti in questo scontro non avevano la mano leggera: avevano presentato sotto le mentite spoglie di "militari" persone che non lo erano o ne avevano imposte altre incaricandole di non troppo misteriosi ruoli ispettivi. Marietta riconosce che "forse" c'erano stati degli eccessi, ma i comunisti per primi li avevano individuati e corretti.
Nel quadro fattomi da Marietta tra la lotta cospirativa in città e guerra partigiana in montagna c'è una indissolubile continuità. La città, mi dice, e in particolare il Partito comunista, aveva desiderato, sostenuto e amato i partigiani. Ne era stata la premessa. La supremazia del partito sul movimento partigiano, a suo parere indiscutibile, non discendeva dai rapporti numerici ma dal fatto che i comunisti avevano voluto i partigiani e deciso che cosa avrebbero dovuto fare. Marietta riconosce volentieri che per la loro provenienza i partigiani erano stati, almeno in parte, una sorpresa, un fenomeno di giovinezza e di creatività quasi sconcertante, ma anche una realtà grezza, che aveva richiesto di essere plasmata. In questo difficile compito di direzione, quasi sovrumano per la sua vastità, solo i comunisti erano emersi anche se tra loro, aggiunge, non tutti erano stati all'altezza del compito.
Nel giudicare i suoi compagni di partito Marietta è netta e i suoi giudizi sono spesso severi e ironici. Tra i politici incaricati dei collegamenti o della direzione del movimento partigiano Marietta promuove a pieni voti Barontini, il commissario politico della Zona, "un uomo equilibrato", Pieragostini, il responsabile militare del partito, "poco loquace ma un vero dirigente, severo con sé e con gli altri, uno che viveva per il partito" e Conte. A quest'ultimo riconosce il maggior merito nel tessere i collegamenti tra l'organizzazione comunista della città e quella nascente in montagna. Tra i comunisti che già operavano lassù il suo apprezzamento è limitato a Moro, "una persona eccezionale, grande anche se non appariscente" e ad Attilio, il capo della polizia partigiana, "più istruito" e più in evidenza di Moro, un "tribuno appassionato… scrupoloso fino all'eccesso". A loro associa Miro, "un vero comandante" che però al contrario di Attilio di scrupoli - gli piacevano un po' troppo le donne, precisa Marietta - ne aveva pochi. "Sanguigno, uomo d'azione, da piccolo gruppo che va all'attacco", Miro, in quella guerra strana "che non aveva campi di battaglia", era apparso a Marietta il più coraggioso di tutti. Quanto agli altri sono pochi a salvarsi: Ugo, il responsabile del Comitato federale in montagna e corrispondente di Scappini sulle questioni di partito, era "una persona a modo ma senza grinta" che le dava "l'idea di uno sfollato"; Vuccio, il "medico" era bravo ma a ben vedere "non dava troppo affidamento"; era "un po' una farfallina". Di Pessi riferiva compiaciuta che la sua opinione era la stessa di un prefetto che - due o tre anni dopo la Liberazione - aveva detto "quell'uomo lì fastidio ce ne darà poco…". Marzo era "un brav'uomo" ma spesso "peccava di leggerezza" e non aveva le caratteristiche del comandante, che del resto difettavano anche a Bini che infatti "aveva il compito del giornalista" anche se a lei "sembrava piuttosto un religioso". Neppure presi in considerazione, malgrado la loro appartenenza comunista, i comandanti più giovani come Gino, Carlo, Lesta.
Per i comandanti non comunisti il suo metro di valutazione è la posizione che essi avevano verso i comunisti. Canevari, ad esempio, era "un vero gentiluomo", un liberale che aveva "rispetto e amicizia per i comunisti" e pertanto doveva considerarsi un amico. Bisagno e Croce invece erano due che nelle formazioni "non rendevano la vita facile ai comunisti", per non parlare di Marco "un vero anticomunista" che aveva uomini "poco convincenti… propensi a vegetare". I primi due avevano "una mentalità militare favorevole solo agli elementi militari come loro". Ai partigiani, commenta Marietta, Bisagno e i suoi amici preferivano gli alpini del Vestone. Comunque Bisagno era un "ragazzo sincero" e "non poteva essere definito un anticomunista", semplicemente era "legato a una educazione del passato per cui non si doveva far politica", e aveva paura "di cadere dal fascismo in qualche altro sistema a partito unico". "Non era uomo da lottizzazione" ma dietro di lui c'era "gente furba che lo spingeva e poi ha raccolto i frutti". Tra questi lei indica Scrivia che, probabilmente, dopo aver avuto degli incontri con Mattei, aveva cercato di coinvolgere Bisagno in qualche suo disegno salvo poi lasciarlo solo a difendersi ("Scrivia aveva messo a bollire la pentola e poi s'era tirato da parte"). Tra i "non ingenui", come "invece era Bisagno", Marietta fa il nome di Minetto, il cattolico che a gennaio del 1945 aveva sostituito Marco al comando dell'Arzani: "un bravo comandante ma sicuramente un nemico dei comunisti". Altro che monopolio comunista del potere, conclude Marietta, "alla Sesta eravamo assediati e c'è voluta tutta l'abilità di Attilio, Moro e gli altri per non farci mettere fuori dalla Zona".
Marietta, nell'esaminare la leadership del movimento partigiano, indica al primo posto i quadri comunisti incaricati dalla città di dirigere il settore militare (Pieragostini, Conte, Barontini e Miro,) e pochi altri, come Moro e Attilio, ma neppure per un attimo prende in considerazione i comandanti espressi dal movimento di cui pure anche i comunisti facevano parte.
Le obietto che i comandi così come erano andati formandosi nei primi mesi della lotta partigiana non potevano, e a maggior ragione non possono essere giudicati col metro di partito. Erano infatti espressione dello stesso movimento verso il quale Marietta ha appena avuto apprezzamenti entusiastici. Le chiedo: distinguere tra buoni e cattivi, capaci e incapaci e, specialmente, tra amici e nemici dei comunisti non finisce per far perdere di vista il carattere unitario e popolare che il movimento e i suoi comandi hanno avuto nella fase iniziale della lotta?
Marietta oscilla. Non vuol concedere troppo alla peculiarità del movimento partigiano perché crede di sentire nelle mie parole una sottovalutazione del contributo dei comunisti. Per lei i giovani saliti in montagna rappresentano una realtà nuova, emozionante - sono generosi, fraterni ecc. - ma politicamente non significativa. Teme che il mio sottolineare la discesa in campo nella guerra di Resistenza di persone comuni, inattese, spesso improvvisatesi nel ricoprire ruoli politici e militari, sottintenda una pericolosa deriva spontaneista e cancelli d'un colpo la lotta terribile - a suo parere più dura di quella della montagna - sostenuta in città.
Non è il suo unico timore. Marietta pensa che, a distanza di tanto tempo, io non riesca a cogliere l'ostilità che covava attorno ai comunisti; ammessi a collaborare dalle altre forze politiche solo per la loro forza e la loro abnegazione, ma sospetti al punto che molte di queste si preparavano, ancora prima che la guerra finisse, ad arginarne l'influenza o addirittura a scaricarli. Da qui la sua rappresentazione simile a quella già consegnatami da altri quadri di partito da me intervistati: i comunisti assediati, alla mercé di manovre sleali e spregiudicate che richiedevano contromosse adeguate e giustificavano i controlli di cui i loro nemici li accusavano.
Conosco ciò di cui mi parla e il suo richiamo è, almeno per me, quasi inutile. Ma resta oscuro perché, dopo aver fatto preziose ammissioni, riservi così poco spazio alla virtus partigiana, comunista e non comunista. Perché confinarla ad una dimensione quasi esclusivamente legata all'età: i giovani, protagonisti generosi e inattesi? Provo a far prevalere una visione più critica richiamando la sua attenzione sullo schematismo di alcuni dei dirigenti da lei esaltati a vantaggio di figure meno prestigiose ma risultate più adatte alla situazione. Ammette facilmente e lei stessa porta altra acqua al mio mulino, ma non per questo modifica i suoi giudizi. La sua filosofia generale potrebbe essere enunciata così: il partito comunista e i suoi militanti sono stati sempre i più intransigenti e coerenti nemici del fascismo. Altri si sono aggiunti per via quando il vento dopo anni è mutato e il fascismo è entrato in crisi. Ma chiunque fossero, questi ultimi non potevano reggere il confronto con chi da tempo aveva capito, operato e sofferto.
Così la storia della Resistenza tracciata da Marietta privilegiava la continuità, i suoi legami con l'antifascismo del passato, fino al punto di oscurare o cancellare le novità: forze ideali, forme associative e protagonisti inattesi. Dei quali ultimi preferisce sottolineare l'approdo al porto sicuro che i comunisti, con pazienza e ostinazione avevano costruito. Un modo di pensare che si salda con lo spirito contabile con cui i comunisti hanno in seguito presentato la loro partecipazione alla Resistenza: noi tanti, gli altri pochi, noi da sempre e giocandoci la vita, gli altri da ieri se non da oggi.
Le opinioni di Marietta peccano sicuramente di patriottismo di partito, ma non sono frutto di una elaborazione solo difensiva. Sono le ragioni di chi, nel campo comunista e dell'antifascismo storico, si trovò, a partire dal 25 luglio, di fronte ad un movimento grandioso che in un soffio aveva cancellato il fascismo al punto da far chiedere a vittime e oppositori da chi mai, durante gli anni precedenti, fossero stati perseguitati. Era un movimento improvvisato, politicamente immaturo, non troppo diverso, salvo per i numeri decisamente più significativi, dal movimento partigiano che si sarebbe consolidato in montagna intorno alla metà del 1944. Anche quest'ultimo per i comunisti rappresentava lo stadio infantile di un percorso da loro già compiuto.
Ma da allora, dai fatti di cui Marietta mi parla, di anni ne sono passati più di quaranta e la storiografia resistenziale, compresa quella di parte comunista, ha da tempo imboccato una strada nuova: la Resistenza come espressione originale di lotta popolare contro il fascismo, il tedesco, la guerra ecc. Perché, mi chiedo, di un simile ripensamento, che ha avuto la sua vulgata a livello di senso comune anche grazie alla stampa comunista, in Marietta e altri come lei non trovo quasi traccia? A distanza di anni, e a parte gli omaggi più formali che sostanziali, all'unità antifascista e alla peculiarità del movimento di resistenza, sono ancora le posizioni come la sua a prevalere. Marietta per di più è una donna intelligente con un acuto senso della realtà che la aiuta a rendere più convincente la sua interpretazione. Sa meglio difenderla perché ne conosce i punti deboli.
In Marietta le certezze politiche coincidono con quelle morali. Il controllo del partito nei confronti dei compagni di strada, l'attività diretta ad escludere la concorrenza di altre forze, il monopolio del partito sulle attività di informazione e di comunicazione all'interno del movimento, la riserva dei ruoli di comando in funzione della fedeltà di partito appaiono il frutto, più ancora che di una cultura minoritaria (che pure c'era), della convinzione profonda di aver conquistato tale diritto col sacrificio. Quel che ai compagni di lotta appariva intrusione e controllo poliziesco erano, per i militanti comunisti, scelte giustificate dalla nobiltà del fine.
Come è possibile - mi chiedo - avere all'attivo una esperienza così straordinaria e darne una versione così riduttiva? E perché Marietta mi parla del passato usando un copione di allora senza chiedersi se gli anni trascorsi non suggeriscano qualche ripensamento e qualche modifica? Il nostro non riuscire a progredire nei modi di pensare che restano fissati su di noi come una corazza da cui non riusciamo più a liberarci è solo il risultato di una difesa? E difesa da che cosa? Cose di ieri o di oggi?
Ho anche l'impressione che Marietta parli di sé, sia in città nella cospirazione sia in montagna tra i partigiani, minimizzando il suo ruolo. Non credo che mi stia nascondendo qualcosa. È consapevole di essersi trovata nella "Storia" con la S maiuscola: - Non è difficile perché i comunisti della storia di questo secolo sono una gran parte, no? - mi dice sorridendo. Lei, riconosce, in quel periodo si è impegnata "un po' di più" di altri ma non è quel "di più" a fare la differenza. Era riuscita - "non ho avuto esitazioni, m'era venuto spontaneo" - a stringere un legame profondo, totale, tra la sua vita familiare, di moglie e di madre, e il partito. - E' possibile che la famiglia ci abbia rimesso e che i rischi siano stati eccessivi, ma ho fatto proprio quello che sentivo. Non me l'ha detto nessuno. -
Era stata insieme "Marietta" e "partito": "Marietta" perché era andata a fare quello che sentiva, e "partito" al punto che chi l'aveva conosciuta allora la considerava una dirigente forse solo per la sua capacità di assumerne di continuo la rappresentanza. Il tutto le era riuscito meglio che ad altri suoi compagni, di cui maternamente ricorda le esitazioni e gli sfoghi.
Mentre mi dice di sé mi convinco che non mi sta nascondendo nulla. Semplicemente della sua totale adesione morale e politica alla lotta preferisce parlarmi con ritegno. Marietta incarna l'epica comunista in modo così compiuto che comincio a pensare che un ulteriore incontro tra noi non abbia senso. Non mi racconta una storia ma una strada maestra: la sua condizione di trovatella, la sua infanzia nel quartiere proletario, il suo lavoro di ostetrica e di infermiera, il matrimonio e i figli fino a quando, sul finire dell'estate del 1943, è avvicinata dai comunisti. Quel giorno, chi la conosceva avrebbe potuto dire come sarebbe stata la sua militanza negli anni a venire: la cospirazione, la lotta partigiana, la miltanza del dopoguerra.
Sono quasi due ore che parliamo è c'è stanchezza in entrambi. Comincio a raccogliere i miei fogli e le faccio un complimento. Riascoltandola al magnetofono, le dico, sono rimasto colpito dal suo modo di raccontare, di delineare i personaggi. - Possiedi un linguaggio letterario, e sicuramente lo sai. Mi son perfino chiesto se su questi temi hai scritto; magari solo per te -.
Apparentemente si mostra stupita e sorride nel solito modo enigmatico: - Sì, ho scritto qualcosa; ma per i miei famigliari, i figli -. Aggiunge che non sa però dove sia finito quel che ha scritto. Immagino che lo sappia benissimo ma non intenda mostrarmela.
È comunque l'occasione per abbandonare il tema del partigianato e parlare di letture e di scrittura, le sue passioni non più segrete. Escono autori e titoli: Dickens, Gorki, London, Tolstoji e "tutti i russi", Ibsen, Ariosto, Zola, Maupassant, Rostand… E' un torrente che ingrossa poco a poco: per ogni nome, una parola, un richiamo ad un personaggio e a volte un gesto con la mano come dire d'una storia bella, importante ma finita. La donna d'azione descrittami dai compagni, facile all'arringa, accesa e poco diplomatica propagandista del verbo comunista, rispettosa della gerarchia di partito, si mostra sotto un'altra luce fatta di libertà, fantasia, gratuità. Tra l'altro mentre mi parla di un mondo fino a quel momento segreto la sua voce si mette a vibrare e l'indicatore del mio magnetofono soddisfatto me lo segnala.
Ora è lei a domandare. Mi chiede se ci sono romanzieri di oggi importanti come quelli del suo tempo. Ha perso il contatto, aggiunge, e poi un tempo i libri passavano di mano in mano: "sapevi già se ti sarebbero piaciuti perché conoscevi chi li aveva letti e te li passava." Ora però non riesce più a leggere: "è per via degli occhi e della stanchezza"; solo un po' il giornale ma poco anche quello. Chiedo se ha qualche libro dei suoi da farmi vedere. - Non ne ho più, risponde senza troppa convinzione: i traslochi, i figli… E poi non saprei cosa farne… non riesco più a leggere, non mi interessa. -
Restiamo d'accordo per vederci ancora, ma tutti e due ci comportiamo come se il gioco fosse concluso. Forse è per rompere questo stato d'animo che nel riaccompagnarmi alla porta si ferma ed entra in una camera da dove torna con una busta grande, del genere confezione di carta da lettere, che mi porge. - Sono gli scritti di cui ti ho parlato - mi dice, sbrigativa. - Forse qui potrai trovare qualcosa che serve ai tuoi studi. - Sono fotocopie delle pagine di cui mi aveva parlato sul finire del pomeriggio. Le aveva già pronte per darmele.
A casa mi metto a leggere. Si tratta di due testi dattiloscritti: uno, 21 cartelle, è una lunga lettera al figlio più giovane, Piero, a cui la madre racconta la storia della sua famiglia, del suo incontro col fascismo e la guerra, della sua militanza antifascista e comunista, e si conclude con il rastrellamento dell'agosto del 1944. L'altro, indirizzato a entrambi i figli, è un profilo, in 4 cartelle, del marito. Per me è un colpo di fortuna; un regalo inaspettato.




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Manlio Calegari

Cara Marietta, Caro Professore

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Indice
Premessa
4 marzo 1987
12 marzo 1987
20 marzo 1987
Il partigiano Fran
Caro Piero
4 maggio 1987
5 maggio 1987
Pro-memoria
Sestri 8 maggio
13 maggio 1987
Sestri 12 maggio
Sestri 26 maggio
3 giugno 1987
16 giugno 1987
17 giugno 1987
25 agosto 1987
10 ottobre 1987


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