Elisabetta Graziosi, Cesura per il Secolo dei Genovesi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.





5. Genova in propaganda: la città pacificata

L’immagine di Genova che Brignole Sale tentava di accreditare, integrata, mondanamente conversevole, cerimoniosa, era esattamente contraria a quella di una città lacerata dai complotti quale in quegli anni era stata diffusa da un Ligure illustre trasferito a Roma. Del sarzanese Agostino Mascardi era infatti comparsa nel 1629 per ben tre volte la Congiura di Giovan Luigi Fieschi, un’opera pubblicata ad Anversa e subito ristampata a Milano e a Venezia che aveva sollevato immediatamente polemiche, opposizioni, difese d’autore. [1] Sulla città e sul suo governo il Mascardi fin dalle prime pagine esprimeva più di un giudizio: « instabili i pensieri de’ Genovesi », in una città che mutava « troppo agevolmente la forma del suo governo, secondo la diversità degli humori », e dove era stato difficile anche ad Andrea Doria porre un freno « all’incostanza de’ Genovesi ».[2] La storia di una congiura fallita era ben genovese e questa opera del Mascardi avrebbe avuto un successo europeo: piacque a tal punto che il cardinal di Retz la trasformò con la sua penna memorabile in un capolavoro destinato a diventare un archetipo dell’immaginario secentesco [3] dove un posto importante era riservato, oltre al Fieschi, a quella « inquiétude naturelle de sa nation, portée de tout temps à la nouveauté » che aveva condotto al fallimento finale la congiura dei giovani.[4]
La Congiura del Mascardi provocò opposizioni in città ma soprattutto, ciò che qui più interessa, coincise con il rilancio degli Addormentati, l’accademia cittadina di più lunga tradizione, rigalvanizzata da Pier Giuseppe Giustiniani e dal padre di Anton Giulio, Giovan Francesco Brignole, con l’intervento del genius loci, Gabriello Chiabrera. Era un’accademia che, fallita forse come scuola di repubblicanesimo, svolgeva un’intensa azione socializzante anche per ispirazione del Savonese il quale pensava più utile « che non solamente fosse Accademia di letterati ma fosse insieme di Cavalieri, a’quali si conviene nella stagione del verno onorar dame con musiche, e rapresentatori, e per tal via mantenere luogo a’ discorsi Oratorii ».[5]
E così accadde negli anni immediatamente seguenti. Di quella Genova giovanile e instabile, inquieta, faziosa posta in scena dal Mascardi e poi diffusa dal cardinal di Retz, il Brignole Sale pareva in certo modo, con Le instabilità dell’ingegno, rimandare un’immagine al positivo che valeva non solo come esorcismo, ma come programma e come propaganda. Parallelamente alla costruzione letteraria di un mito genovese di concordia, il marchese era infatti impegnato politicamente nel programma di rinnovamento dei giovani repubblichisti alla ricerca di un consenso fra l’élite aristocratica. Dopo l’aggressione franco-piemontese del 1625, il rovesciamento delle alleanze e la congiura filosabauda del Vachero del 1628 (una congiura troppo recente per non trapelare anche dalle pagine del Mascardi), proprio in quegli anni nella città che cercava faticosamente di ricompattarsi per difendersi dai vecchi e dai nuovi nemici, erano ricominciate le ascrizioni al patriziato, lo strumento attraverso cui la classe di governo cooptava al suo grado.[6] Ma al di là degli strumenti politici è certo che il governo della Repubblica si occupava anche dell’immagine letteraria e, non potendo censurare quella diffusa dal Mascardi, si preoccupava di congiure più recenti e di scritture più vicine. In città alla fine del 1634 fu infatti censurata la relazione che della più recente congiura del Vachero aveva dato Raffaele Della Torre, e gli Inquisitori di Stato raccomandarono ai Collegi « che in niun modo s’habbia a permettere che l’historia o sia relatione della congiura, etiamdio in qualunque maniera reformata, si stampi, anzi che [...] si debba in ogni modo prohibire ».[7]
Le instabilità dell’ingegno rappresentavano sul piano della sociabilità cittadina un’anticongiura pubblicata in tempi troppo brevi per essere casuale, e per di più nell’avvicinarsi del dogato di Giovan Francesco Brignole. Quella del Brignole Sale era l’immagine positiva di una città pacificata dove le famiglie erano collegate dalle strategie matrimoniali e dai vincoli del sangue e i giovani Addormentati conducevano in villa i loro pacifici intrattenimenti. Vi fu in quegli anni una convergenza ideologica cui dare il giusto rilievo. Sulla neutralità della Repubblica spese molte parole anche il cappuccino Francesco Maria Squarciafico pronunciando nel 1635 l’Orazione dell’Unione per il doge Giovan Francesco Brignole: Genova si lanciava come città della pace proprio l’anno in cui conflagrava la seconda fase della guerra dei Trent’anni, accompagnata da uno sforzo di propaganda politica senza precedenti.[8]
Anche quella del Brignole Sale è propaganda svolta con armi letterarie, parallela alle orazioni, alle prediche, alle armi diplomatiche. Nelle Instabilità dell’ingegno le pestilenze appaiono infatti non solo e non tanto come una stanca ripetizione della situazione boccacciana quanto come una trascrizione metaforica del grande conflitto europeo che toccava Genova da vicino. Dopo la notifica cavalleresca a Bruxelles avvenuta nel maggio del 1635, già nel luglio dello stesso anno Vittorio Amedeo di Savoia, col trattato di Rivoli, era indótto a un intervento le cui motivazioni espansionistiche non lasciavano adito a dubbi anche per Genova che pure teneva alla conservazione dello stato di non belligeranza.[9] Nonostante l’intensa azione diplomatica internazionale, gli eventi andavano precipitando e gli incidenti si moltiplicavano a catena, tanto che nel vicino stato sabaudo la stessa casa regnante appariva lacerata dalle scelte politiche opposte: nel 1634, infatti, il principe Tommaso di Savoia si era dichiarato per la Spagna ed era diventato capo di un’armata prima di divenire due anni pù tardi comandante in capo, con una scelta di campo opposta a quella del fratello duca Vittorio Amedeo, schieratosi con la Francia, al quale nel 1635 veniva conferito dalle forze alleate il comando in seconda dell’esercito.[10] Mentre l’Europa andava a fuoco, la politica genovese, con l’opera del Brignole Sale, metteva in scena la sua neutralità e riproponeva le ragioni delle convergenze e delle alleanze nel limitato ma pacificato scenario delle famiglie cittadine, tra ville e palazzi: Le instabilità dell’ingegno erano un’immagine propagandistica culturalmente forte per uno stato tradizionalmente debole e conflittuale.
Proprio questa considerazione aiuta a leggere in maniera meno evasiva la situazione chiave delle Instabilità dell’ingegno, il piccolo “Decamerone barocco” e genovese in cui « quattro giovani donne in compagnia d’altrettanti cavalieri, stretti loro per parentela, somiglianti per anni et incatenati per volontà »[11], tutti accademici Addormentati, sfuggono la peste (e la guerra) per ricreare un’idillica microsocietà ove non esistono rischi all’esterno e contrasti all’interno. La parentela e l’accademia, la somiglianza e la volontà concorde sono gli ingredienti di un modello politico-letterario che fa delle associazioni famigliari il centro di aggregazione fino all’endogamia. La ripresa dell’orazione panegirica in lode di Stefano Doria mostra che l’intero testo funge da cassa di risonanza all’elogio famigliare [12] e da registro di omologazione di usi e costumi che vengono proposti all’imitazione dell’aristocrazia cittadina. Si tratta di un gioco di specchi fra testi letterari e vita cittadina che deve far riflettere sulla vocazione contemporanea nell’opera del Brignole Sale: le dediche attualizzano e circoscrivono i destinatari interni alla famiglia allargata (la madre per la Colonna per l’anime del Purgatorio pubblicata nel 1635,[13] la nipote Maria Geronima in Il santissimo rosario meditato uscito l’anno seguente) ma anche i personaggi narrati sono, con lieve travestimento, quelli della società aristocratica che si ricerca e si frequenta. Questa contiguità fra testi letterari e vita socializzata nella Repubblica è evidente nelle Instabilità e nel Carnovale (in cui si possono ricostruire i nomi anagrammati del clan Brignole), ma lo stesso avviene in quell’opera censurata che fu poi Il satirico innocente: censurata con ogni probabilità perché rendeva troppo riconoscibili gli oggetti su cui si appuntava.
Nella stessa direzione, interna alla classe di governo genovese, mi pare punti la Maria Maddalena peccatrice e convertita che fu dedicata nel 1636 all’altra sorella, Maria Maddalena Brignole Durazzo.[14] Certo non basta l’identità del nome fra dedicataria e santa romanzata per spiegare la scelta del tema di questo oramai celebre romanzo agiografico, ma non mi paiono nemmeno sufficienti i richiami alla rilevanza (che pure è reale) del tema secentesco e all’esempio, troppo vicino per non essere menzionato, della Conversione di santa Maddalena del Chiabrera.[15] Forse è comunque opportuno ricordare che Giacomo Filippo Durazzo, marito di Maria Maddalena Brignole, era fra i protettori di un conservatorio per fanciulle pericolanti (e spesso spinte alla prostituzione) intitolato a « S. Maria del Rifugio », per il quale Virginia Centurione Bracelli aveva chiesto da pochissimo (nel dicembre del 1635) l’autorizzazione senatoria: « Tamquam opus publicum seu pro Reipublicae utilitate institutum ».[16] La propaganda esemplare di un’illustre convertita poteva servire d’appoggio al programma caritativo che poi divenne una bandiera di famiglia per il gruppo Brignole-Durazzo. E il tema a Genova era nell’aria, tanto più che la vedova savonese Maddalena Ghirinzani (familiare al Chiabrera), dopo aver fondato in patria un monastero intitolato a Maria Maddalena, si era trasferita proprio in quegli anni a Genova dove nel 1639 avrebbe pubblicato, per parte femminile, i Progressi di S. Maria Maddalena principessa di Maddalo.[17]
Comunque, per ritornare al romanzo del Brignole Sale, se per la Maria Maddalena peccatrice e convertita non pare credibile una identificazione dei destini sottintesa dall’identità del nome fra protagonista e destinataria (la Brignole fu moglie esemplare di Giacomo Filippo Durazzo, madre dei due gesuiti Ippolito e Vincenzo) ben genovese mi pare l’immagine delle lusinghe mondane offerte da una secentesca Gerusalemme cui sarà da associare l’immagine di una santità femminile aristocratica e apostolica, non subordinata, non dimessa e non claustrale ma agonistica e protagonistica, con un ruolo di santa viva consigliera di prìncipi [18] che non è frequente nella galleria delle sante offerta dalla spiritualità post-tridentina. Una santità femminile principesca che è quasi il parallelo della figura della Vergine, che soltanto l’anno seguente, e con gran lustro cerimoniale sarebbe stata promulgata ufficialmente proprio dal doge Brignole, padre del nostro, sovrana di Genova.[19] Aggiungo, ma è solo un cenno al futuro, che si tratta di un modello di protagonismo femminile a mio parere ben genovese, trasversale rispetto ai consolidati ruoli sociali [20] che si riproporrà infatti con qualche adattamento e con eguale vocazione contemporanea nell’Eroina intrepida di Francesco Fulvio Frugoni: il romanzo della genovese, aristocratica, devotissima Aurelia Spinola passata attraverso corti altrettanto pericolose.[21]
Del resto gli anni Trenta del Seicento registrano in Genova un’urgenza di contemporaneità, di rapporto col presente cittadino che mi pare documentato anche nel fervere delle imprese editoriali provocato dall’apertura di nuove officine tipografiche (giunto alla scadenza nel 1635 il lungo privilegio del Pavoni) e dal contemporaneo lancio quattro anni più tardi di ben due gazzette[22].
Rimane da identificare anche in Brignole Sale quella che si è definita la funzione Chiabrera (o la funzione Colombo), connessa alla mancanza di una tradizione culturale cittadina da difendere che favorisce la scoperta del nuovo nell’altrove. Della carenza di studi adeguati nella giovinezza è noto che Anton Giulio si dolse, circondandosi di letterati proprio in funzione riparatoria e moltiplicando il tempo dello studio. Ma io credo che vi sia stato anche qualcosa in più da parte del Brignole, l’urgenza del nuovo, il miraggio del non sperimentato, cui si accoppiò lo sforzo di acclimatare nel campo della prosa lo stesso grado di innovazione promosso dal Savonese in tanti settori della poesia. Su questo problema esistono testimonianze che mi paiono ancora da sfruttare ai fini di una migliore collocazione storico-letteraria di un gruppo di scrittori che fecero capo a Genova nel ventennio cruciale 1630-1650.





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[1] Gino Benzoni, Duccio Tongiorgi, La storiografia. Paolo Sarpi, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, volume V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, p. 956.

[2] Agostino Mascardi, La congiura del conte Gio. Luigi Fieschi descritta da A.M., in Venetia, appresso Giacomo Scaglia, 1629, p. 4. Per sole ragioni di convenienza cito da questa edizione, di cui però il Mascardi ebbe a dolersi (vd. Francesco Luigi Mannucci, La vita e le opere di Agostino Mascardi con appendici di lettere e altri scritti inediti e un saggio bibliografico, in “Atti della Società ligure di storia patria”, vol. XLII, 1908, pp. 593-94).

[3] Cesare De Marchi, Splendori e miserie della congiura dei Fieschi, in Jean-François-Paul de Gondi, Cardinale di Retz, La congiura del conte Gian Luigi Fieschi, a cura di Cesare De Marchi, Palermo, Sellerio, 1990, pp. 12-13, 22-26. E vd. anche la voce dedicata a Gian Luigi Fieschi dal DBI, XLVII, 1997, pp. 462-64 (Osvaldo Raggio).

[4] Cardinal de Retz, La conjuration du comte Jean-Louis de Fiesque, in Oeuvres, édition établie par Marie-Thèrése Hipp et Michel Pernot, Paris, Gallimard, 1984, p. 49 (in cui si vd. anche le pp. 1099-1110.

[5] Nicola Giuliani, Ansaldo Cebà, in “Giornale ligustico di archeologia, storia e letteratura”, a. X, 1883, p. 6.

[6] Vd. Romolo Quazza, Genova, Savoia e Spagna dopo la congiura del Vachero, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, a. XXXI, 1929, pp. 265-326; a. XXXII, 1930, pp. 171-216; Rodolfo Savelli, Genova nell’età di Van Dyck. Sette quadri con un epilogo, in Van Dyck a Genova. Grande pittura e collezionismo, a cura di Susan J. Barnes, Piero Boccardo, Clario Di Fabio, Laura Tagliaferro, Milano, Electa, 1997, pp. 18-28.

[7] La frase degli Inquisitori di Stato sulla Congiura di Giulio Cesare Vachero si trova citata alla voce Raffaele Della Torre in DBI, vol. XXXVII, 1989, p. 650, (Rodolfo Savelli). Sull’importanza della congiura del Vachero nell’immaginario secentesco, e tanto più a Genova, vedi Jean Boutier, Trois conjurations italiennes: Florence (1575), Parme (1611), Gênes (1628), in “Mélanges de l’École française de Rome Italie et Méditerranée” [= MEFRIM], vol. 108, 1996, n. 1, pp. 319-375.

[8] Vd. Romola Gallo Tomasinelli, La corrispondenza tra Anton Giulio Brignole Sale e il Senato genovese. Una “vittoria” degli “innovatori”: la legge dell’11 marzo 1645, in “La Berio”, a. XXXIV, n. 2, luglio-dicembre 1994, pp. 8-9. Ma l’immagine di Genova come città della pace, miracolosamente illesa in mezzo alle rovine delle guerre, era già in Luca Assarino, Discorso di Luca Assarino, fatto in lode di Genova nell’occasione delle nuove mura, Genova, per Giuseppe Pavoni, 1631 [G. Ruffini, Sotto il segno del Pavone, cit., scheda 447]. Per l’ideologia della neutralità come scelta di moderazione nel concerto delle potenze europee, vd. Luciana Garibbo, La neutralità della Repubblica di Genova. Saggio sulla condizione dei piccoli stati nell’Europa del Settecento, Milano, Giuffré, 1972.

[9] R. Quazza, Tommaso di Savoia-Carignano nelle campagne di Fiandra e di Francia 1635-1638, Torino, SEI, 1941, p. 58; Per la difficile neutralità genovese vd. Claudio Costantini, La Repubblica di Genova, cit., pp. 271-74.

[10] R. Quazza, Tommaso di Savoia-Carignano, cit., pp. 33-34, 58.

[11] Anton Giulio Brignole Sale, Le instabilità dell’ingegno divise in otto giornate dall’illustriss. sig. marchese Anton-Giulio Brignole Sale, in Bologna, per Giacomo Monti e Carlo Zenero, 1635 (ma cito dall’edizione a c. di G. Formichetti, con introduzione di C. Mutini, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1984, pp. 31-2).

[12] Ivi, pp. 259-72.

[13] La colonna per l’anime del Purgatorio spiegata da Antonio Giulio Brignole Sale, in Genova, per Pietro Giovanni Calenzano e Gio Maria Farroni, 1635 (vd. Maria Maira Niri, La tipografia a Genova e in Liguria, cit., scheda 462).

[14] Se ne veda la già citata e recente edizione a c. di Delia Eusebio, Maria Maddalena peccatrice e convertita, Parma, Fondazione Pietro Bembo, Ugo Guanda editore, 1994.

[15] Su cui vd. il bel saggio di Salvatore Ussia, Il tema letterario della Maddalena nell’età della Controriforma, in “Rivista di storia e letteratura religiosa”, a. XXIV, 1988, n. 3, pp 385-424 (ora rifuso in Il sacro Parnaso. Il lauro e la croce, Catanzaro, Pullano, 1993, pp. 107-39) e Delia Eusebio, Introduzione, in Maria Maddalena Peccatrice e Convertita, ed. cit., pp. XXVII-XXXIV.

[16] Su Giacomo Filippo Durazzo, vd. più sopra n. 63: su Virginia Centurione Bracelli, vd. DBI, XXIII, 1979, pp. 634-35 (Giovanni Nuti).

[17] Maddalena Ghirinzani, Li progressi di S. Maria Maddalena principessa di Maddalo, in Genova, per li Farroni, Pessagno e Barbieri, 1639 [vd. Maria Maira Niri, La tipografia a Genova e in Liguria, cit., scheda 769ter].

[18] Davide Conrieri, Il romanzo ligure dell’età barocca, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, 1974, serie III, vol. IV, pp. 1083-84.

[19] Vd. Clario Di Fabio, Un’iconografia regia per la Repubblica di Genova. La “Madonna della Città” e il ruolo di Domenico Fiasella, in Domenico Fiasella, a cura di Pietro Donati, Genova, Sagep, 1990, pp. 61-84.

[20] Su questa specificità del modello femminile costituito dalla Maddalena, non riducibile a uno dei tradizionali “stati” femminili (né vergine, né moglie, né vedova) mi sembra che abbia qualche buona osservazione Ada Testaferri, “Maria Maddalena peccatrice convertita”: un modello femminile barocco, in “Rivista di studi italiani”, a. XII, n. 1, giugno 1994, p. 11 (ma il saggio è privo di collegamenti coll’importante referente storico del romanzo di Brignole Sale).

[21] Su cui vd. ora il saggio di Lucia Rodler, Dimore romanzesche: l’“Eroina intrepida” di Francesco Fulvio Frugoni, in Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani tra Trecento e Seicento, a cura di Gian Mario Anselmi, con un saggio introduttivo di Francisco Rico, Roma, Carocci, 1998, pp. 233-249 (ma il protagonismo e l’antagonismo di Aurelia e Pelina Spinola meriterebbero un discorso a parte radicato nella reltà genovese).

[22] Graziano Ruffini, Sotto il segno del Pavone, cit., pp. 41, 103-4.




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Anton Giulio Brignole Sale.
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