Elisabetta Graziosi, Cesura per il Secolo dei Genovesi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.





10. Cesura per il secolo dei Genovesi

Non erano mancati al Seicento genovese i gesti di rottura ufficiale con le forme della socializzazione aristocratica all’interno del’élite di governo: nel 1638 vi era stato lo scandalo senza precedenti del doge Agostino Pallavicino che aveva inutilmente chiesto « che li [fosse] concesso deporre la dignità o almeno la toga perpetua doppo la fine del suo dogato »,[1] ma il caso del Brignole è diverso e più radicale perché tocca in modo più deciso e preciso la storia della cultura. Con il ritiro dalla vita pubblica del marchese mancava un punto di riferimento genovese nella diffusione dei testi letterari, un uomo che aveva una biblioteca e ne faceva circolare i volumi, ma venne a mancare anche un mecenate che aveva accettato (e forse sovvenzionato) dediche e promosso l’attività editoriale: la stamperia da lui fatta venire dall’Olanda nel 1648 e affidata a Giacomo Peri fu venduta due anni più tardi. Da promotore di stampe il Brignole si trasformò in potenziale, sia pure caritatevole, censore tanto da dare la caccia alle copie del Pastor fido di cui aveva promosso l’edizione [2] per (pare) bruciarle o forse, e più oculatamente, vista l’ampiezza del mercato e la vivacità della richiesta, venderle per beneficenza. Gli effetti della scelta di religione coinvolgono il marchese anche come produttore di testi, perché apparentemente non esiste travaso di esperienze fra l’uno e l’altro troncone biografico. Mentre il ritiro fra i preti della Missione si limita ad interrompere l’attività letteraria del marchese, l’ingresso nella Compagnia di Gesù mette in moto un meccanismo di mortificazione pubblica, con un’abiura e un’autocensura che mirano in parte alla distruzione materiale dei testi già pubblicati. Come riporta il suo biografo, il Brignole Sale gesuita supplicava gli uditori delle sue prediche pubbliche di « stracciare e abbrugiare quanti di quei libri potessero avere, obbligandoli a ciò quanto poteva in coscienza ». [3] L’aristocratico sconcerta un tessuto già lacerato, il mecenate inverte il segno della protezione, lo scrittore cancella le sue tracce nel pubblico.
Si è qui data la voce soprattutto alle ragioni sociologiche di questa frattura culturale, ma è necessario dire che anche le scelte letterarie del marchese a loro modo vi contribuirono, perché col suo inquieto sperimentalismo Brignole Sale non lasciava nemmeno un “modello forte” con un testo esemplare capace di fondare una continuità di scelte in un genere e in uno stile, così che mancò alla Repubblica un modello letterario di prestigio cittadino che aggiornasse il Chiabrera. Fra opere disconosciute, censurate, pseudonime, anonime, falsamente attribuite, postume, manoscritte, annunciate, perdute non è facile neanche ora orientarsi nella scrittura di un autore in cui le discontinuità furono troppe. Ma forse era per lo meno contraddittorio, nell’età del maggior prestigio culturale della Spagna, lanciare un programma di equilibri politici repubblichisti ponendosi a rimorchio delle scelte di gusto della cultura spagnola, con una sostanziale incongruenza fra scelte politiche e scelte culturali.
Per queste ragioni di società, di politica e di cultura la cesura fra un primo e un secondo Seicento a Genova si presenta così netta e sensibile ancor prima dello scoppio della grande peste. Eredi delle finali sperimentazioni stilistiche di Anton Giulio furono non i Genovesi ma i Gesuiti, perché in assenza di scritti (che andarono dispersi) l’esempio della predicazione del marchese agì per linee interne all’Ordine: la predicazione orale, rinnovata “all’apostolica” condotta « in piccole ville e luoghi ignobili »,[4] trovò infatti un’ideale continuità in quegli anni nelle missioni popolari del confratello Paolo Segneri.[5] Non sono in grado di precisare se nel corso della sua finale predicazione “all’apostolica” il Brignole ebbe modo di incontrare il Segneri che aveva iniziato nel 1654 lo stesso ministero a Pistoia: è comunque probabile poiché il Genovese, che in Toscana possedeva il feudo di Groppoli, predicò certamente a Firenze, a Lucca e a Siena.[6] Quanto alla poesia, Brignole agì più per antidoto che per contagio ma sempre attraverso le linee della cultura gesuitica: amico del Lemene, Anton Giulio fu ammiratore e sostenitore della nuova poesia moralizzata nata all’ombra della Compagnia di Gesù di cui il Lodigiano si era fatto promotore assieme al Maggi.[7]
Della scelta religiosa di Anton Giulio Brignole Sale il Seicento genovese ebbe i frutti nella vita sociale ma pagò molte conseguenze sul piano della cultura. Con il ritiro del marchese fra i Missionari urbani nel 1649, l’arcivescovo Stefano Durazzo acquistò un mecenate della carità e un intellettuale del pulpito sul cui esempio si mosse poi quel piccolo sodalizio famigliare che avrebbe dato a Genova la grande istituzione dell’Albergo dei poveri e l’assistenza eroica nella peste del 1656. Trionfo della carità e non solo della miseria, o meglio un trionfo della carità evidente e monumentale sulla miseria alla genovese.[8] La Repubblica invece perse definitivamente un uomo di governo che aveva dato impulso a quella aggregazione culturale della classe dirigente che era uno dei problemi fondamentali della città. Era il momento in cui nella generazione dei giovani Addormentati di dieci anni prima si aprivano dei vuoti. Già all’inizio degli anni Quaranta, alcuni anni prima di morire nel 1647, l’olivetano Vincenzo Renieri aveva lasciato Genova per la cattedra pisana. Nello stesso anno moriva Paolo Spinola che in assenza del Brignole aveva retto l’Accademia insieme a Giulio Saoli, e ne aveva continuato l’impegno politico con l’orazione per il doge Giovan Battista Lomellini.[9] Nel 1648 era la volta di Giovan Vincenzo Imperiale che, sia pure appartato, rappresentava in città la continuità con la Genova primo-secentesca, mentre i suoi figli impegnati in una lunga causa successoria non avevano nessuna volontà di giocarvi un identico ruolo. Nel 1649 Matteo Peregrini ritornava a Bologna come segretario maggiore del Senato, dove pubblicava in ambiente ormai diverso i genovesissimi Fonti dell’ingegno ridotti ad arte, due anni prima di morire a Roma. Nel 1650 scompariva con Pier Giuseppe Giustiniani un altro degli Addormentati storici mediatore tra Giovan Vincenzo Imperiale, Chiabrera, Brignole e Matteo Peregrini.[10] Nel 1655 moriva anche Bartolomeo Imperiale che con Anton Giulio aveva contribuito a riformare l’Accademia, le sue opere rimaste manoscritte non trovarono editori.[11] E nemmeno mancò nella città disaggregata quello che Brignole Sale aveva ardentemente desiderato e consigliato ai più stretti parenti, e cioè il contagio ideologico estraniante rispetto alla Repubblica: Agostino Centurione doge nel 1650, nel 1654 abbandonava la politica per entrare nella Compagnia di Gesù [12] e altrettanto faceva nel 1655 Ippolito Durazzo, interrompendo a Roma una carriera in prelatura.[13] Religioso finì pure Francesco Maria de’ Marini che per l’elezione dogale del padre Giovanni Agostino aveva composto una tragicommedia recitata dal gruppo dei giovani Addormentati fra cui era anche Brignole Sale.[14] Le scelte dei singoli e le congiunture generazionali giocavano contro, interrompendo insieme al ricambio la prosecuzione delle linee di tendenza intraprese, senza prospettarne delle nuove.
Quando nel 1655 Gaspare Squarciafico riprendeva la polemica sulle Politiche malattie della Repubblica di Genova con straordinaria vivacità di scrittura (in un libro brillante e fazioso che più di altri meriterebbe una ripubblicazione), la scissione cittadina fra giovani e vecchi, fra “spagnardi” e “navarrini” era di nuovo evidente e dava un’immagine certo più vicina a quella che di Genova acremente faziosa aveva data il Mascardi, che a quella pacificata e ritualizzata delle Instabilità dell’ingegno.[15] Genova era di nuova la città di Giano, un solo corpo con i due volti: l’uno rivolto al passato, ed erano i nobili vecchi, l’altro al futuro, quello dei giovani.[16] A compiere l’opera dimezzando nel giro di un decennio la popolazione ci fu poi fra il 1656 e il 1657 la grande peste con i suoi quarantamila morti. Impoverimento demografico, carenza di istituzioni aggregatrici, scarsità di sbocchi professionali, rotture generazionali, eclissi improvvise dei consolidati sostegni editoriali (venuto meno il Pavoni nel 1641, cessata l’attività del Peri nel 1650, morto Benedetto Guasco nella peste):[17] è un bilancio in perdita quello genovese nella seconda metà del secolo, è cesura per il secolo dei Genovesi di cui nella figura di Brignole Sale si trovano tutte le premesse. Anche la soppressione di ordini religiosi e quella dei piccoli conventi nel 1652 riducono la mobilità e l’autonomia di intellettuali ecclesiastici che pure si erano legati alla Repubblica come, per fare un esempio accadde al chiavarese Filippo Maria Bonini che, soppresso nel 1645 l’Ordine di S. Ambrogio ad nemus, si allontanò da Genova divenendo prima familiare del cardinale Antonio Barberini e in séguito cappellano di Eleonora d’Austria.[18] E forse per le stesse ragioni altri due regolari come Francesco Fulvio Frugoni dell’Ordine dei Minimi e l’agostiniano Angelico Aprosio, entrambi antichi protetti del marchese, ebbero negli anni seguenti un itinerario accidentato e pubblicazioni ritardate o interrotte, per finire l’uno confinato a Ventimiglia e l’altro inquieto pellegrino a Venezia, entrambi con una ruggine evidente nei confronti della Dominante. Ma questa volta la consueta diaspora dei Liguri, privata di una figura centrale o per esemplarità letteraria o per prestigio sociale, capace di indirizzare le scelte, appoggiare le iniziative, mediare i conflitti, non esisteva più. L’antica capitale si era trasformata in una provincia già pronta per la futura colonia d’Arcadia.[19]





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[1] Claudio Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, cit., p. 282.

[2] Non so precisare l’edizione del Pastor fido cui il Visconte fa qui riferimento, ma noto che un’edizione senza indicazioni tipografiche (ma Genova, Giovan Domenico Peri) è segnalata in Maria Maira Niri, La tipografia a Genova e in Liguria, cit., scheda 917.

[3] Gio. Maria Visconte, Alcune memorie delle virtù del padre Anton Giulio Brignole Sale, cit., pp. 121-22; ma si veda anche pp. 8-9 41-42, 182. Sul gesuita Giovanni Maria Visconte, che fu insegnante di retorica, filosofia e teologia e poi Provinciale a Milano negli anni in cui maturava la riforma della prearcadia lombarda, cfr. Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris, O. Schepens, A. Picard, 1898, vol. VIII, coll. 837-38.

[4] Gio. Maria Visconte, Alcune memorie delle virtù del padre Anton Giulio Brignole Sale, cit., p. 165.

[5] Per la predicazione missionaria del Segneri nell’alveo della tradizione gesuitica (con l’importante precedente genovese del venerabile Giorgio Giustiniani vd. Armando Guidetti, Le missioni popolari. I grandi gesuiti italiani. Disegno storico-biografico delle missioni popolari dei gesuiti d’Italia dalle Origini al Concilio Vaticano II, Milano, Rusconi, 1988, Milano, Rusconi, 1988, pp. 104-106; 114-25 (sul Giustiniani, alle pp. 98-99). Per la riflessione teorica vd. Gian Domenico Gordini, L’arte di ben predicare di Paolo Segneri, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento. Atti del X Convegno di Studio dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa Napoli 6-9 settembre 1994, a c. di Giacomo Martina e Ugo Dovere, Roma, Edizione Dehoniane, 1996, pp. 111-25. Sulla differenza, anche nel padre Segneri, fra la predicazione missionaria e quella cittadina si veda R. Librandi, L’italiano nella comunicazione della Chiesa e nella diffusione della cultura religiosa, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, vol. I, I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, 1993, pp. 335-81, e particolarmente le pp. 355, 363. Per un’utile rassegna orientativa nel troppo materiale, vd. Erminia Ardissino, Rassegna di studi sulla predicazione post-tridentina e barocca (1980-1996), in “Lettere italiane”, a. XLIX, n. 3, luglio-settembre 1997, pp. 481-517.

[6] G.M. Visconte, Alcune memorie delle virtù del padre Anton Giulio Brignole Sale, cit., pp. 63, 154 e passim.

[7] Tommaso Ceva, Memorie d’alcune virtù del signor conte Francesco de Lemene con alcune riflessioni su le sue poesie esposte dal p. Tomaso Ceva, (1 ed. 1706), in Milano, per Domenico Bellagatta, 1718, pp. 146-47.

[8] Edoardo Grendi, Pauperismo e Albergo dei Poveri nella Genova del Seicento, in Idem, La repubblica aristocratica dei genovesi, cit., pp. 249-51, 303-4; Claudio Costantini, Politica e storiografia, cit., pp. 133-35. E vd. anche Elisabetta Molteni, L’albergo dei poveri di Genova, in Andrea Guerra, Elisabetta Molteni, Paolo Nicoloso, Il trionfo della miseria. Gli alberghi dei poveri di Genova, Palermo e Napoli, Bologna, Electa, 1995, pp. 17-77.

[9] Matteo Peregrini, L’idea del giovane di Repubblica. Discorso funebre del sig. Matteo Pellegrini fatto nell’Accademia de’ signori Addormentati di Genova per la morte dell’ill.mo sig. Paolo Spinola conte di Pezuela, Genova, per Gio. Maria Farroni [1647]. Vi è comunque in questa orazione continuità nell’immagine dell’aristocratico cólto e dedito alla politica, rispetto all’esperienza di Anton Giulio e di Giovan Vincenzo Imperiale, vd. Renato Martinoni, Gian Vincenzo Imperiale, cit., pp. 12-15.

[10] Vd. Matteo Peregrini, lettera del 16 giugno 1651, in Michele Giustiniani, Lettere memorabili, cit., pp. 153-62.

[11] Romola Tomasinelli Gallo, Anton Giulio Brignole Sale e l’Accademia degli Addormentati, in “La Berio”, a. XIII, 1973, n. 2-3, pp. 68-69.

[12] Su Agostino Centurione vd. DBI, XXIII, 1979, pp. 618-22 (Giovanni Nuti).

[13] Tommaso Campora, Vita del p. Ippolito Durazzo della Compagnia di Gesù, in Genova, nella stamperia di Giorgio Franchelli, 1690, p. 120.

[14] Francesco Maria de’ Marini, Il fazzoletto. Tragicommedia inedita del secolo XVII, cit., p. X.

[15] [Gaspare Squarciafico], Le politiche malattie della Repubblica di Genova e le loro medicine descritte da Marco Cesare Salbriggio a Filidoro suo figlio e rappresentate al grande e real consiglio, Francoforte, s.e., 1655. La diffidenza dello Squarciafico (che fu poi uno dei tanti uomini in fuga da Genova) verso i due troppo potenti vicini era già evidente in Genova eterna. Ode Pindarica di Gaspare Squarciafico al serenissimo Agostino Centurione Duce della Repubblica di Genova, in Roma, nella Stamperia d’Ignatio de’ Lazari, 1652. Per una valutazione dell’opera e del personaggio, vd. Claudio Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, cit., pp. 341-47.

[16] Elvio Cassina, La libellistica contro le congiure genovesi del primo Seicento, in Genova, la Liguria e l’oltremare tra medioevo ed età moderna. Studi e ricerche d’archivio, Genova, Fratelli Bozzi, 1974, p. 248.

[17] Graziano Ruffini, Appunti per la storia dell’editoria genovese (secoli XVI-XVII), in Genova nell’Età Barocca, cit., pp. 442-43.

[18] Franca Marré Brunenghi, Un autore dimenticato: Filippo Maria Bonini, in Studi e documenti di storia ligure in onore di don Luigi Alfonso, cit., pp. 307-24 .

[19] Ma per l’intera trasformazione che include la lunga durata di un quarantennio, vd. Elisabetta Graziosi, Da capitale a provincia. Genova 1660-1700, Modena, Mucchi, 1993.




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Anton Giulio Brignole Sale.
Un ritratto letterario

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Cesura per il Secolo dei Genovesi
Malfatto
La biblioteca di Anton Giulio
Corradini
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De Troia
L'ossimoro crudele
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Maddalena-naviglio
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La traduzione portoghese della Maria Maddalena
Rodler
Anton Giulio nel ricordo di Francesco Fulvio Frugoni
Carminati
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