Elisabetta Graziosi, Cesura per il Secolo dei Genovesi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.





9. La rinuncia e l’abiura

Del resto in quegli anni le delusioni politiche per un repubblichista come Brignole Sale, ambasciatore dal 1643 al 1646 nella più grande monarchia del mondo, furono molte. Nel 1643, a pochi mesi dalla morte del Richelieu, cadeva l’Olivares, personaggio-mito per la monarchia spagnola e per la cultura, [1] nel 1644 i mutamenti del soglio papale portavano alla fuga del cardinale Antonio Barberini che nella Repubblica manteneva una serie di circuiti clientelari,[2] nel 1646 la mobba dei gentiluomini bloccava a Genova le nuove ascrizioni e con queste una certa idea di Repubblica, più dinamica, più mutevole, più instabile come l’aveva predicata Anton Giulio nella sua opera-programma. [3] E come l’aveva sostenuta anche Giovan Battista Raggio che al Brignole per molti rami era imparentato.[4] Un vero scambio di carte nelle due forme politiche: un coup de théâtre nell’immutabilità dinastica, un irrigidimento nella permeabilità repubblicana. A completare la misura nel maggio del 1648 veniva alla luce la congiura di Gian Paolo Balbi che, a vent’anni da quella del Vachero, di Genova mostrava ancora una volta l’immagine lacerata in fazioni aristocratiche pronte ad appoggiarsi ai sovrani esteri.[5]
È su questo scenario che la rinuncia di Brignole Sale non fu, come quella di Giovan Vincenzo Imperiale, solo una letteraria « abdicazione », ma divenne per Genova una vera cesura epocale.[6] Per spiegarla il Frugoni, che aveva seguìto il Brignole nell’ambasceria spagnola, ricorse al terrore dei pirati e al voto di ritirarsi fra i Gesuiti (nonostante fosse ben viva ancora la moglie),[7] una soluzione che connota romanzescamente il discontinuo di una storia altrimenti iniziata. Ma non mancò chi insinuò dubbi sulla sua salute mentale: che è un altro modo per notare il discontinuo. Col ritiro di Anton Giulio nella casa dei Missionari urbani nel 1649 la socializzazione aristocratica perdeva un promotore e un convinto sostenitore. Dimentico di avere scritto per il teatro, e di avere rappresentato al vivo il teatro della mondanità, Anton Giulio predicò contro le commedie e le veglie giungendo a punire il figlio per averle frequentate. Ma al di là dell’aneddotica pittoresca fu evidente la rottura della solidarietà aristocratica che si fece clamorosa nell’avversione che il marchese mostrò più tardi verso gli antichi sodali al cui fasto oppose una mendicità ammonitoria, esibita, iperbolica. E fu rottura anche con quella politica dinastica che a Genova fondava insieme famiglia e ordine repubblicano: Anton Giulio consigliava pubblicamente ai parenti più diretti di seguirlo nelle scelte entrando nel chiostro o fra i Gesuiti, facendo, come ricorda il biografo gesuita, « pressioni a detrimento della famiglia ». A favore dell’Ordine, della casa delle Missioni, delle opere caritative fu il suo testamento su un patrimonio in parte già intaccato dalle donazioni. Anche nelle grandi cerimonie simboliche delle alleanze interfamigliari fu esplicita la rottura: nel 1652 ai festeggiamenti per le nozze della figlia Emilia con Francesco Imperiale Lercaro Anton Giulio rifiutò di sedere nella tavola di famiglia per rimanere in quella del clero.[8] È difficile identificare fino in fondo un messaggio così radicalmente diverso da quello che il marchese aveva lanciato muovendo i primi passi nella vita cittadina: certo in questa fase Anton Giulio mostrò di credere che l’unico compattamento della classe di governo possibile in Genova poteva avvenire entro l’ideologia cattolica della carità e non in quella laica della mondanità aristocratica, un’ideologia caritativa per nulla « congruente con la cultura della classe dirigente » ma allargabile a sfere più ampie della cittadinanza, attraverso il fenomeno della condivisione.[9]





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[1] Maria Luisa Doglio, Mito e metafora del Conte Duca nella letteratura italiana del Seicento (con un memoriale inedito di Fulvio Testi), in Da Dante al Novecento. Studi critici offerti dagli scolari a Giovanni Getto nel suo ventesimo anno di insegnamento universitario, Milano, U. Mursia & C, 1970, pp. 319-45.

[2] Claudio Costantini, Tra Barberini e Panfili: Genovesi alla corte di Roma, in Studi in onore di Luigi Bulferetti, numero monografico di “Miscellanea storica ligure”, a. XVIII, n. 2, 1986, pp. 714-16.

[3] Carlo Bitossi, Mobbe e congiure. Note sulla crisi politica genovese di metà Sicento, in “Miscellanea storica ligure”, a. XVIII, n. 2, 1986, Studi in onore di Luigi Bulferetti, pp. 587-617; Carlo Bitossi, Il governo dei Magnifici, cit., pp 253-65.

[4] Carlo Bitossi, Patriziato e politica nella Repubblica di Genova tra Cinque e Seicento, in I Gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, cit., pp. 26.

[5] Edoardo Grendi, I Balbi. Una famiglia genovese fra Spagna e Impero, Torino, Einaudi, 1997, pp. 186-209.

[6] Per l’abdicazione dell’Imperiale vd. Renato Martinoni, Gian Vincenzo Imperiale, cit., pp. 55-58. Su questi ultimi quattordici anni della vita del Brignole rimando a Quinto Marini, Anton Giulio Brignole Sale gesuita e l’oratoria sacra, in I Gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, cit., pp. 127-50.

[7] Francesco Fluvio Frugoni, L’Heroina intrepida overo la duchessa di Valentinese. Historia curiosissima del nostro secolo adornata da F.F.F., Venetia, presso Combi e La Noù, 1673, vol. III, pp. 445-49.

[8] Gio. Maria Visconte, Alcune memorie delle virtù del padre Anton Giulio Brignole Sale, cit., p. 39.

[9] Edoardo Grendi, La costruzione del sistema assistenziale genovese, in Idem, La repubblica aristocratica dei genovesi, cit., p. 304.




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Anton Giulio Brignole Sale.
Un ritratto letterario

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