17. Eserciti della salvezza
Passo il Birmingham Bridge, un ponte in arcate metalliche
verderame, e arrivo nel South-Side, che è appunto il meridione
cittadino, una striscia esclusa dal triangolo vitale, tutto specchi e
grattacieli, formato dall'incrocio dei due fiumi di Pittsburgh, ma adagiata
tra il versante sud del Monongahela e le colline. Popolazione: uno strano
mix di studenti, yuppies e pittsburghesi che non hanno mai messo naso
fuori da uno dei pub del quartiere. La strada in cui mi trovo è
una lunga sfilza di locali e ristoranti, è la parte più
lasvegasiana della città, ma a una delle sue estremità si
fa improvvisamente desolata. Da un lato, a fianco del fiume, spazi vuoti
su cui le ruspe cominceranno a costruire nuovi ristoranti e megasupermercati.
Dall'altro, sotto la collina, edifici grandi e scialbi in mattoni sbiaditi
Mi fermo in una coffee house dall'estesa vetrata: i tavolini rossi ordinatamente
ricoperti da tovagliette a fiori plastificate, le tazzine, la decorazione
floreale ripresa in una cornice tra parete e soffitto, il cartello in
legno "benvenuti amici", il frigo Pepsi in pendant con l'orologio
Pepsi, e il banco che si apre a vista sulla cucina di metallo, tutto mostra
le tracce del locale che è veramente "locale", la parte
verace e kitsch della provincia americana. Dentro, nessuno, a parte i
due gestori cinquantenni. È il café ideale, in armonia perfetta
con la strada e la giornata piovigginosa. E con la musichetta pop-country
in sottofondo. Entra un avventore, un amico dei gestori, aria e accento
working-class, cantilenante e a scatti insieme, camicia a quadri, jeans
e barba. Parlano i due uomini, mentre la donna mi viene a versare un lungo
bollente imbevibile caffè. Passa ancora qualche minuto e anche se sono in anticipo decido di mettere
fine a una lieve sensazione di disagio e agli sguardi discreti dei proprietari,
ed esco. Sono ormai a destinazione. Un grande edificio a otto piani e un cartello:
The Good Will. Industries of Pittsburgh. Mi si spalanca la porta automatica,
ed entro in un androne in moquette e luci soffuse. Ci sono persone su
carrozzine che attendono e guardano fuori dalla vetrata, mentre la receptionist
mi dà un cartellino e mi indica l'ascensore. Arrivo al sesto piano:
nuova receptionist, corridoi, uffici, moquette, poster e targhe di merito.
Una di queste è da parte della contea e menziona un programma di
alfabetizzazione. Accanto, una scritta sulla forza e il potere del lavoro.
Ed è proprio questa la filosofia del Good Will, la buona volontà,
come dice il suo nome, volontà che è diventata multinazionale
della carità, sparsa in tutto il paese e all'estero, una società
non-profit, privata e aconfessionale, finanziata da una miriade di rivoli
- donazioni private, fondazioni, fondi statali ecc. - e impegnata in ogni
settore della sfortuna sociale: disabili, homeless, poveri, disoccupati
cronici, analfabeti, carcerati, drogati. A volte tutte queste categorie
ne formano una sola, a cui va sovrapposta anche quella di nero o di "ispanico"
o di qualche altra minoranza. Assisto a una lezione per disabili mentali. Sembra un asilo dell'Emilia,
colori, materiali e computer abbondano. Ci sono due insegnanti per una
classe di otto persone; l'ambiente è rilassato. Una donna in tuta
rosa mi viene a mostrare il suo quaderno. Gli altri sono impegnati a fabbricare
cartoline per San Valentino. Il giro del Good Will prosegue poi con una visita alla mensa, un immenso
salone dal pavimento a scacchiera e cuori rossi che pendono dal soffitto
(altro tributo a Valentino), e ai magazzini, dove si effettua la produzione,
dove cioè le persone dentro ai vari programmi dell'agenzia fanno
lavori vari (e retribuiti), quali infilare depliant in sacchetti o impacchettare
oggetti. Un tipo sui cinquant'anni dall'aria professionale ed energica
mi spiega il loro recente programma con gli homeless: prima l'aggancio
tramite l'Esercito della Salvezza, e le scremature; poi la disintossicazione
da sostanze d'abuso; poi il lavoro al Good Will; e poi il sostegno per
iniziare a vivere da soli. Purtroppo mi sa parlare solo dell'efficacia
del loro programma, ma non mi sa dire né quanti sono gli homeless
in città, né come sono. Non c'è una particolare coloritura
razziale, mi assicura, le donne sono di meno ma in crescita, l'identikit
è doppia diagnosi: vale a dire problemi psichici e di dipendenza
da sostanze. Non sa dirmi come gli homeless sono visti in generale dalla popolazione,
né se ci siano stati episodi di violenza, né se ci sia un
programma statale o municipale o distrettuale che si occupi specificamente
di loro. In compenso ne manda a chiamare uno che sta lavorando lì.
Arriva una tipa afroamericana, tuta e sguardo imbronciato, un po' autistico.
L'idea di dover affrontare lo slang incazzato di una senza tetto americana
mi inquieta un po', e soprattutto non ho la più pallida idea di
cosa chiedere. Ma il tipo del Good Will mi toglie dall'imbarazzo, e conduce
lui l'intervistina direttamente: come ti trovi qui da noi? ti sembra che
il nostro programma ti dia una struttura? La donna è impaziente
di andarsene, risponde a monosillabi e non tiene lo sguardo fisso su un
punto per più di tre secondi. "Non immagineresti mai quanto siano più vicini a noi che distanti",
mi dice sorridendo il tipo dopo che l'intervistata se n'è andata.
L'ispezione è quindi proseguita nel supermercato del Good Will,
dove si vendono soprattutto vestiti usati, ma anche computer e mobili.
L'amica che mi sta conducendo mi fa sgattaiolare nel retro vietato ai
clienti. Qui si selezionano i vestiti donati e quelli infimi sono compressi
in balle di stracci che verranno rivenduti. La supervisora del magazzino
ci sorprende tuttavia con aria inquisitoria e solo dopo aver ricevuto
abbondanti spiegazioni, ci guida piuttosto freddamente per il resto del
negozio. - Lavori anche tu al Good Will? - mi domanda - No, sono solo interessata, perché esistono simili agenzie nel
mio paese, l'Italia
- - L'Italia? È anche il mio paese! - si illumina la prima arcigna
capoccia, mostrando la dentatura da working-class. - Sono di Campobasso, sono venuta a Pittsburgh venticinque anni fa - Mi
dice inoltre che torna in Italia ogni estate a trovare la madre e che
stanno per aprire un Good Will anche a Roma. A Roma? Sì, mi assicura, lo stesso sindaco di Roma è venuto a visitare
il Good Will (il negozio dove stavamo in quel momento)! Credo fideisticamente
a quello che mi dice, e la saluto con la promessa di tornare a trovarla
in negozio. - Un Good Will a Roma? - commenta la segretaria del mio dipartimento la
mattina dopo - Per amore del cielo! Ma d'altronde, come si aprono i Mac
Donald's... |
|