29. Di (dis)amore, matrimoni, inseguimenti
Matrimonio alla pittsburghese Passano a prendermi che è già notte, la strada
risplende di pioggia, io raggiungo la macchina barcollando sui tacchi:
siamo un'italiana, un canadese, un'americana e uno svizzero. Ci conosciamo
tutti da poco, ma in virtù di quelle accelerazioni e condensazioni
tipiche di chi vive in una comunità ristretta di stranieri stiamo
già andando insieme a un matrimonio. Non i nostri, beninteso. Posteggiamo in un quartiere residenziale di casette e praticelli, costeggiato
da Penn Ave, una strada di costruzioni scrostate e decadenti night club,
dove la sera si vedono solo afroamericani e che divide, come un colpo
di rasoio, la zona-bene, di studenti e professori universitari, dal quartiere
povero di colore. Camminiamo lungo l'asfalto lucido e deserto, nel silenzio assoluto, lo
svizzero e il canadese nelle loro giacche che fumano una sigaretta, accanto
a me il riverbero della gamba dell'americana che esce a ogni passo dallo
spacco del vestito da sera. Arriviamo in questa grande hall, un edificio
tutto illuminato, fatto di saloni dai soffitti alti, caminetti, cornici
color crema, divanetti, tappeti rossi e inservienti in livrea. Ci accoglie
una folla mista di professori di filosofia, studenti americani ed europei,
parenti italiani (lo sposo è un ragazzo di Torino), parenti americani
(la sposa è una ragazza di Pittsburgh), vari ed eventuali. Attraversiamo diversi saloni e raggiungiamo una (finta?) cappella, dove
viene servito il dolce. La funzione è già stata fatta, rito
civile, l'officiante un quacchero amico degli sposi, più dichiarazione
congiunta affinché anche i gay un giorno si possano sposare. Tutto
questo dopo che gli sposi erano stati esaminati sulle reciproche preferenze,
tipo il dentifricio usato e roba del genere, giusto per vedere che non
fosse un matrimonio green card. Nella cappella dallo stile austero, ma dallo slancio gotico, attaccano
a parlarmi in italiano uno svedese amico dello sposo e amante dell'Italia,
studente di filosofia e aria da frequentatore di disco gay, una bionda
tettuta con un terribile accento anglo-romano, mezza o un quarto o tre
quarti italiana, che si prodiga nell'enumerare tutti i suoi master in
progress e nel fare osservazioni sugli scolli ed i tessuti degli altrui
vestiti, e un italiano vero, torinese, faccia pulita e distinta, che ha
mollato il posto d'ingegnere per fare un master in Francia in qualcosa
che ha a vedere con le comunicazioni (- Io e Gualtiero (lo sposo n.d.r.)
- dice - abbiamo fatto asilo, elementari, medie e superiori assieme. Poi
ci siamo iscritti insieme a ingegneria, solo che lui ha resistito tre
settimane e poi è passato a filosofia, io invece ci ho messo un
po' di più -). Un altro italiano con cui parlo è un tipo molto per bene, trent'anni,
neoconsigliere regionale per i radicali, occhiali dalla montatura nera,
intellettuale ma con moderazione. Non parla inglese, lui, e rimane confinato
nel gruppo italiano o italo-americano o italofilo. Non come l'altro suo
amico radicale, dalla faccia tonda e lo sguardo decadente, un po' felliniano,
stile Ottoemezzo, che si lancia in discussioni ispirate di politica in
qualsiasi lingua. - La Bonino, la Bonino... - quant'è buona la
Bonino, sembra dire. - Ma 'sto Pannella? - dico io. - E va be' Pannella,
ma la Bonino... - Nelle panche in legno sistemate a coro sta seduto un giovane dall'aria
sfatta, gli occhi lucidi e stravolti, il ciuffo scomposto, la pelle sudaticcia.
Accasciato con la bottiglia di birra in mano si guarda attorno un po'
sperso. È un amico dello svedese e dello sposo, viene da Chicago,
dove lavora in qualche ufficio. - Ci siamo già conosciuti - mi
dice - a un concerto jazz nel parco quest'estate -. Sforzo la memoria.
Lo ricordo senza ricordarlo. So che c'era questo tipo al concerto, ma
allora non lo avevo memorizzato. E poi stava in disparte con una donna.
Ma è giunto il tempo delle danze. Dalla cappella ci spostiamo nella
pista da ballo, che sta esattamente di fronte. Dall'altare dell'una si
può vedere il palco del Dj dell'altra. Giovani donne dai vestiti lucidi e succinti si scatenano, insieme a giovani
uomini che si tirano invano la cravatta. I gintonic e gli whisky vanno
giù a ripetizione, la musica è un terribile revival dei
settanta, viene esibita una sensualità densa e indifferenziata,
che stride con la normale rigidità e distanza degli americani,
di quegli stessi americani che ora si abbracciano in pista strusciandosi
a destra e a manca come dei gatti. L'americano sfatto di Chicago è conteso da più parti, poi
si ritira su un lato con in mano il suo bicchiere. Mi fermo a parlargli
in virtù dell'attrazione che i debosciati un po' fuori luogo suscitano
su di me, giusto in tempo per vedere la anglo-romano biondo-tettuta marciare
a passo d'oca verso di noi. Non ho voglia di competizioni e me ne torno
in pista. Il Dj lancia un bugghibugghi che trascina dentro una coppia
settantenne la quale seppellisce tutti col suo virtuosismo. La sala fumatori è di sopra, un rettangolo attorno a un divanetto
quadrangolare, dove lo schienale ugualmente quadrangolare posto al centro
come un obelisco impedisce di guardarsi in faccia da seduti, per cui alla
fine si sta in piedi, a sfumacchiarne due o tre di seguito, pensando di
compensare così l'astinenza precedente e seguente, e sempre con
l'inconscio timore che salti comunque uno dei molteplici allarmi. Nel
mezzo di questa congrega di reietti salta su un cinquantenne di colore
che inizia a parlarci dei suoi libri e che si esalta quando viene a sapere
la mia nazionalità, - Me lo hanno appena tradotto in italiano -,
mi dice, - È un libro sui ragazzini condannati a morte nell'800,
a metà tra la storia e la fiction. - Sei interessato alla pena
di morte? - gli chiedo io con un'evidente domanda retorica, - No, no -,
mi fa lui - io sono uno scrittore. - Il suo libro, continua a spiegarmi,
risulterà forse in un film con Harvey Keitel. Mi dà la sua
carta da visita: Albert French, Autore. Sarà. Sospendo il giudizio
e intasco. È mezzanotte. Il party si trasferisce a casa di Erich, lo svedese.
È un appartamento supermoderno, tubature a vista e soffitti alti,
in pratica un unico vano gigante, con cucina letto e salotto tutti assieme,
in un condominio affittato dal comune di Pittsburgh agli artisti. Erich
non è un artista, ma è abbastanza esteta da meritarsi un
loft per artisti. Qui l'atmosfera è più tranquilla, si riesce
almeno a conversare. Parlo brevemente con un'italiana studentessa di filosofia
della scienza, a Pittsburgh ormai da molti anni. È piuttosto seria
e compassata, molto per bene. Non proprio il mio tipo. - Ma tu sei sposata?
- le chiedo per non so quale impulso di gratuita curiosità. No,
fidanzata in Italia, ma non va tanto bene, fa lei abbassando gli occhi
e aggrinfando il bottiglione di vino. Sorvolo sulla gaffe e mi allontano
codardamente. Mi ritrovo a parlare con lo sfatto di Chicago. Questo, grazieaddio,
non è uno studente, però mi sbalordisce quando se ne esce
su come Svevo sia stato scoperto da Joyce a Trieste. Sono quei momenti
in cui sento di essere dotata di un intuito naturale per le persone, momenti
che non durano molto, a dir il vero. Anche perché quella volta
la mia conversazione con lo sfatto sveviano viene interrotta da qualcuno
che sollecita la mia attenzione: mi dicono che l'italiana che avevo appena
conosciuto è chiusa in bagno, forse non sta bene. Vado, in virtù
di italiche e femminee consanguineità, e mi faccio aprire. Lei
non mette neanche il piede oltre la porta che sbatte dritta a terra, sfiorando
il water con la testa. Fortuna che è bassa. La tiro su in ginocchio
e la invito a liberarsi nella tazza. Cosa che non le riesce difficile,
a quanto pare. - Non è possibile, non è possibile - dice
impietosa - io non posso fare queste cose. Io non posso farle. Io sono
troppo intelligente per fare queste cose. Troppo intelligente. - Fortunatamente
per lei sono l'unica nel bagno a sentirla, e dopo che ha finito la riporto
nella megastanza e la sdraio sul letto. La gente guarda, sussurra. Con
fatica la sistemo su un lato. - Non si potrebbe girarla dall'altra parte?
- mi fa una tipa preoccupata per i cappotti, ma desiste dopo il mio sguardo
d'odio e si limita ad allontanarli il più possibile. Ormai siamo rimasti in pochi. Erich è attaccato al telefono alla ricerca disperata di un taxi che nel cuore della notte porti uno degli italiani all'aeroporto. Pittsburgh, si sa, non è proprio come New York e trovare un taxi equivale a una caccia al tesoro. Il tipo di Chicago amante di Svevo scivola sulla propria ubriacatura rovesciando delle bottiglie abbandonate, poi le raccoglie facendo finta di mettere in ordine. L'italiana è sempre piegata su un lato, abbraccia un secchio che qualcuno le ha dato come fosse un orsacchiotto, e se ne sta lì, buona buona. Gli sposi se ne vanno come tutti gli sposi, sconvolti e contenti. Anche noi quattro salutiamo e ce ne torniamo alla macchina, non del tutto ubriachi. Incredibilmente, fuori, non fa freddo.
So cool
Immagina l'uscita di una biblioteca. Davanti le miniroulotte dei venditori di riso al ginger e pollo agli ormoni. Rovi di bici parcheggiate. Alberi sullo sfondo che resistono gli ultimi gialli e rossi. Studenti che falcano veloci i marciapiedi, mani in tasca, berretti, dentro giacchette primaverili sotto la neve secca insapore. Pensi che debba profumare di qualcosa, un ricordo di vaniglia, uno spruzzo di schiuma, invece niente, vortica volatile e vuota. Immagina che fra il dentro e il fuori non ci siano barriere, intendo fra te e la neve, te e la cattedrale scolastica di trentasei piani da cui sei appena uscito, te e i venditori indiano-pakistano-greco-arabi, te e il cielo pulito di una città postindustriale e vuota. Insomma, tutto la stessa cosa. Immagina un muro che ti protegga, ma non dal vento, e i capelli e i fumi e la neve che interagiscono rapprendendosi in grumi. Immagina un orologio fermo alle cinque meno cinque, e tu che non lo guardi ma ne segui i movimenti, e sai che in una frana di minuti dovrà passarti davanti. Non l'orologio, ovviamente. Che dovrà, che sarà costretto a passarti davanti non lo devi immaginare, perché ne hai la certezza come della legge della gravitazione universale, che sai che esiste anche se non sai formularla ad alta voce. Poi pensa che un ragazzo - non lui - un altro, che neppure sfiora la soglia dei tuoi mondi possibili, ti si avvicini, e ti chieda il nome, e cosa fai, e di dove sei, e tu pensa di rispondergli con la stessa meccanica gentilezza con cui si tiene la porta agli sconosciuti, e che non sai perché, forse per liberartene, finisci pure col dargli un numero di telefono. O forse è la speranza segreta e malata che squilli, il telefono, regalandoti un secondo di inutile illusione. Poi saluti e te ne vai, il tuo tempo è scaduto. Allora lui, lui davvero e non un altro questa volta, viene nella tua stessa direzione, di fretta, perché la lezione sta iniziando, e tu lui lo percepisci perfettamente, e lui te anche, ma aspettate a vedervi quando siete solo a un metro e per poco non vi scartate. Ma non pensare nemmeno col retro più masochistico della tua mente che questo potesse accadere, dico lo scarto. A tutto in fondo c'è un limite. Invece pensa che vi salutate, civilmente, mani in tasca, sorriso cool (con tutto quello che la parola si trascina di freddo, tosto, finto distaccato e banalmente ripetitivo), ciao, sto andando a lezione, pensa che ti dica, e tu lo riecheggi per apparire cool anche tu, ah, hai lezione?, come se non lo sapessi, come se non fossi stata lì a distribuire il tuo numero telefonico in giro apposta, come se il solo fatto che lui dica una frase così insopportabilmente insignificante non ti faccia venire le lacrime agli occhi, ai retro-occhi intendo, quelli che ti sono cresciuti a furia di cercare di apparire cool; poi pensa che lui ti dica, non ho chiamato, dichiarazione apodittica-apologia-sberleffo, e tu dica, sì lo so, sempre col sorriso scavato in faccia, e sempre che qualche grinza non sia uscita fuori come un pupazzo-molla ricevuto in dono, ma forse in questo caso la velocità ha inghiottito la sincerità, e allora pensa che lui ti dica subito dopo, con il candore e l'auto-consapevolezza più disinvolti di questo mondo, ti chiamerò, e tu, sull'onda degli stessi, risponda, va bene, e che poi vi salutiate e vi separiate velocemente, e tutta la scena, pensa che non sia stata girata per più di dieci secondi, e che di fronte a te adesso si apra solo un ventaglio di neve, vuota e asettica e schizofrenica come la tua mente, così leggera e asciutta, così fresca, così cool.
Dis(orientation) Non sono del tutto sicura che la prima volta sia stata all'orientamento.
Voglio dire, è stata sicuramente la prima volta, ma come sbiadita,
il nitore della novità offuscato da un ricordo anteriore. Non propriamente
un deja-vu, piuttosto un riconoscimento. Ecco sì, un'agnizione.
Resta il fatto che all'orientamento è stata la prima volta in cui
il fatto di conoscerlo, di riconoscerlo, ha oltrepassato il limine nebbioso
dell'inconscio per stagliarsi come una stigmata al cuore della mia consapevolezza.
Non che non vi fossero momenti di distrazione e noia, quella mattina.
Un centinaio di studenti provenienti dai paesi più disparati (e
disperati) che dopo essersi accalcati in una fitta e silenziosa coda si
rovesciavano come una mandria nel salone, ognuno col suo bravo cartellino
infilzato nella maglietta; un salone gigantesco, dal lusso a buon mercato,
i tavoli rosa, le sedie con lo schienale dorato, le pareti rosse, quel
rosso da grand hotel o da salone di bellezza; i membri dello staff che
si occupavano dell'accoglienza, sorretti dalle loro giacchette inamidate,
a sfilare un sorriso dopo l'altro, con metodica equità; la colazione,
un ammasso di ciambelle di pane e dolci glassati da cima a fondo accanto
a silos di caffè americano. Io mescolavo il caffè meccanicamente,
cercando di spremere dei mozziconi di conversazione da una danese composta
e gelida, di quelle che si svegliano al mattino con la piega e senza caccole
negli occhi, forse perché li tiene sempre sbarrati, pensavo tra
un sorriso e un sorso di quella bevanda dolciastra. Al nostro tavolo parlavano
rumorosamente quattro ragazzi, un tedesco un messicano un giapponese e
uno spagnolo, ed io, immersa in questa vivente barzelletta, cercavo di
figurare chi di questi avrebbe fatto la parte del più furbo, anche
se tutti sembravano soccombere a un destino di mediocrità. Ciononostante
non mancavamo, la danese ed io, di lanciare sguardi obliqui ed amichevoli
nella loro direzione, un po' per estendere le nostre conoscenze, un po'
per terminare un tête-a-tête sempre più asciutto. La massa degli studenti assiepati ai tavoli ne sfumava le fisionomie e
mischiava gli accenti in un crescendo dodecafonico. Dalla pedana in fondo
lo speaker non si decideva a parlare, affogata com'era nelle ultime precisazioni
e nella ciambella corazzata di cioccolato. Fu nel divagare dei miei occhi,
nell'alternanza di un domanda-risposta più silenzio, che lo vidi
apparire all'entrata del salone, in piedi, alla ricerca di un posto. Sembrò
che il mio campo visivo si fosse stretto in uno zoom di alta precisione,
perché riuscii a distinguere perfettamente tutti i dettagli, la
camicia a quadri squadrata sopra le larghe spalle e la maglietta scura
stretta, la collanina verde che ballonzolava nell'incavo del collo, i
pantaloni neri lunghi e stretti, gli scarponi da trekking, il berretto
a visiera che addensava il blu degli occhi, la barba scura come muschio
su uno spuntone di roccia. Girò senza soffermare lo sguardo su
nessun punto, quindi scomparve risucchiato da una sedia, dietro le teste
cotonate di alcune ragazzotte. L'orientamento allora, come a un tacito
segnale, iniziò, coi suoi sproloqui interminabili sull'assicurazione
sanitaria, e l'iscrizione al social security e il sexual harassment e
altre amenità, mentre a me non restava, tra le pieghe dell'inglese
e dell'ascelle, che inseguire quella prima visione per vedere se venisse
confermata. Appariva a bocconi: il mento triangolare, un occhio oceanico,
un braccio slanciato e impercettibilmente tornito sotto il cotone colorato,
il naso dritto e deciso come un colpo di mannaia. Io mi sporgevo indifferente
ora da un lato ora dall'altro, abbarbicata allo schienale dorato, impermeabile
alla spiegazione del sistema bibliotecario, come un marinaio affacciato
sull'abisso. Gli spruzzi di parole non mi distoglievano lo sguardo o almeno
l'attenzione, dal concentrarsi in quel punto misterioso in cui il campo
magnetico si stringeva in un imbuto dritto dentro i suoi occhi. E fu quindi
con sollievo e impazienza che l'ultimo applauso scrosciando sull'ultimo
argomento, qualcosa come lo psicologo per i traumi da sradicamento, ebbi
modo di liberarmi dalla stretta del tavolo e di precipitarmi verso l'uscita,
dove già un branco di studenti si stava accumulando e dove il mio
sguardo cadde e ricadde invano, dato che lui, quasi inspiegabilmente,
tanto inspiegabilmente da farmi dubitare della sua esistenza, era già
sparito. Per alcuni minuti rimasi basita tra la folla, un sughero in balia della
corrente, e senza decidermi se assecondarla o impormi contro i suoi flutti
agonizzavo in occhiate disordinate e vane, nella speranza di riagguantare
la sua immagine. Trascinata nel salone d'ingresso, ricoperta di voci che
improvvise, in un'esplosione liberatoria stavano riempiendo i molteplici
cubi d'aria dell'androne, mi balenò infine davanti uno stemma rosso
su uno zaino da trekking, e di nuovo come a un segnale convenuto nel remoto
passato lo riconobbi sfrecciare anguillescamente tra gli studenti appiattiti,
un miracolo tridimensionale sullo schermo di un videogame. Scattai come una molla e lo seguii dentro la scia, risucchiata dai vuoti d'aria, partecipe solo di quel marchio rosso, lo stemma e i miei occhi, in ipnosi reciproca, finché infilò la porta girevole e in improvviso scarto cinetico si fiondò nella strada buia. Accelerai immediatamente, malgrado la pesantezza inaspettata della porta che bloccò lo slancio, e giù nella strada, a pochi metri di distanza, attraversando le ombre degli alberi e gli ombrelli di luce dei lampioni, ma poi lui dribblò verso l'attraversamento lasciandomi impalata al rosso del semaforo, a guardarlo marciare sicuro nell'oscurità. Almeno, sapevo che era canadese. Passarono dei giorni imprecisati, affogati nella catena infinita delle
incombenze burocratiche, la compilazione di moduli, il ritiro di tesserini,
la sistemazione della casa, i corsi preparatori, in una selezione darwiniana
che permetteva solo la sopravvivenza dei più forti, ovvero motivati,
devoti e organizzati, e dalla quale per l'appunto mi sentivo automaticamente
esclusa, o se non altro capace solo di una collocazione marginale, border-line,
in costante disequilibrio. Giorno dopo giorno districavo lezioni e doveri
di studente-insegnante in fieri all'interno di un edificio singolare,
una cattedrale di trentasei piani dalla geografia precartesiana, un dedalo
di corridoi uffici bar aule e laboratori dentro la linearità fallica
di un missile puntato verso il cielo, ed ogni volta uscendo da uno dei
sei ascensori giganti continuamente in funzione, perdevo minuti preziosi
nel tentativo di orientarmi. Fu nell'attesa di uno di questi ascensori,
all'altezza del dodicesimo piano, che le porte si aprirono su una manciata
di persone che stavano salendo, e in mezzo a loro, ritagliato nello spazio
vibratile, stava lui, il solito berretto calato sugli occhi, le spalle
dritte, piantato saldo nell'ascensore, inamovibile. L'ascensore però
si mosse, le porte cominciando a richiudersi mentre io conavo un movimento
lento, acquatico, onirico, e quando vi arrivai era già tardi. Guardai
i piani in cui si fermava: 14,18,21. Senza pensare, senza sapere cosa
e come avevo intenzione di fare, mi precipitai su per le scale, contravvenendo
apparentemente al cartello che intimava di non usarle per fare esercizio
fisico, e iniziai dal primo, il quattordicesimo. Dagli ascensori si diramava
una corolla di corridoi, e dio mi feci trascinare dall'istinto, che nella
situazione coincideva col caso, e casualmente trovai un'aula piena di
studenti, intenti a seguire la professoressa, un pesce-palla che fluttuava
lungo la vetrata, ed in mezzo a quelli lo rividi, impassibile e intento,
ascoltava diritto senza prendere note. Alcuni studenti si voltarono a
guardarmi, e per un incredibile, incommensurabile secondo anche lui mi
guardò, da sotto la visiera, un imperscrutabile sguardo abissale.
Quando anche la professoressa si voltò a guardare nella mia direzione
mi dileguai pensando con agitazione ma insieme crescente sicurezza a quello
che avrei dovuto fare. Decisi che avrei atteso negli ascensori per la
fine della lezione e così feci, sedendo su una panca e mettendomi
a leggere un libro. All'inizio mi sprofondai nella lettura, sicura dell'ampio margine di tempo
a disposizione e dell'imprescindibilità delle coordinate spaziali,
per cui, dato un parallelepipedo senza porte o vie d'uscita, c'era solo
un movimento che un essere umano avrebbe potuto effettuare, ed era nella
mia direzione. Tuttavia i minuti passarono, e poi i secondi, scanditi
dalle mie dita che voltavano le pagine come un arcaico strumento di misura
del tempo, flip flip, una dopo l'altra le pagine presero a chiudersi inosservate,
strati molteplici di piombo a ricoprire la mia speranza. Guardai l'ora.
La lezione doveva essere finita, non poteva essere durata più di
sessanta minuti. Mi alzai e mi precipitai in classe. L'ordine e il silenzio
sembravano raggrumarsi attorno alle sedie vuote, in file ortogonali, davanti
alla lavagna intonsa. Proseguii lungo il corridoio che sterzava ubriaco
verso sinistra, solo lacerato da identiche aule deserte, finché
non ritornai al punto di partenza, gli ascensori. Ma erano gli stessi
o ne esisteva un altro gruppo? E se sono gli stessi come non accorgermi
di quando se ne sono andati? Schiacciai con rabbia il bottone per la discesa
e uscii dall'edificio. Il sole mi investì con un'esplosione inaspettata
di luce che come un riflettore malizioso setacciava ogni angolo di campus
ad evidenziare ancor di più l'assenza di che andavo cercando. Camminai
lungo il prato e i solitari alberi, infilandomi tra i grappoli di studenti
mescolati all'erba e al cemento, senza riuscire a scrollarmi di dosso
una sensazione come di una striscia di metallo tra le scapole vibranti.
Un berretto sfrecciò nell'angolo del mio occhio sinistro e con
moto singhiozzante mi voltai, ma ad allontanarsi, in jeans e camicia,
era solo un tipo insulso, dal sedere basso e le spalle piangenti. Quella sera tornai a casa sfinita e rimasi a fissare la tv finché
non mi addormentai al suono dell'ennesima risata preregistrata. Forse
avrei dovuto controllare che classe si teneva in quell'aula a quell'ora.
Forse avrei dovuto aspettare lì davanti, o fermarmi all'uscita
centrale del primo piano. Forse era ancora dentro quando io ero già
fuori. Forse
Mi risvegliai alla prima edizione delle news, imbozzolata
nella coperta e delusa di non riscoprirmi farfalla, per poter volare alla
lezione di quella mattina per cui ero pesantemente in ritardo. Ricevetti un lungo indottrinamento su come insegnare in una classe americana:
no contatto fisico sì scarpe sui banchi, no rimproveri sì
sorrisi, no confidenza sì disponibilità, no no, sì
sì. Terminato il corso presi l'autobus insieme a una collega cinese.
Mi avevano infatti consigliato di andare nel North Side, dove sul niente
si stendeva una lunga serie di negozi e mercati all'aperto. L'autobus
era una cella frigorifera, che analogicamente conformava le cosce dei
passeggeri in rosei prosciutti, salvo quelle della cinese, più
simili alle zampe di un fenicottero. Né il dono della parola, di
cui era restrittiva dispensiera, sembrava differenziarla di molto dal
summenzionato volatile. Così, cullata dalle curve e dalla cantilena
slang di una coppia nera del peso di due quintali, risalimmo i quartieri
in collina, con le loro casette lillipuziane, colorate e strette, per
poi ridiscendere verso il fiume abbacinante e gli enormi piazzali costellati
di camion e magazzini. Lo spazio si strozzava poi in due lunghe strade
parallele, su cui si aprivano i negozi, le tende verdi dei mercati, i
tavolini dei café. La folla e le macchine sciamavano lentamente,
e lungo una scacchiera di luci e ombre, al vento che gonfiava i foulard
e le gonne appese, ci inoltrammo, io e la mia compagna, in silenzio perfetto.
Ma fu di fronte ad alcune vecchie stampe di città, di fronte a
ciminiere che emanavano volute dense e cremose, a carrozze trascinate
da cavalli e tram zeppi di operai, che un berretto e una camicia a quadri
rossi si incunearono, un fotogramma technicolor sullo sfondo blackandwhite.
Lui. Mi dissi, solo non posso perderlo, non questa volta non posso mi
dissi no dissi ma posso non dissi posso perdermi non
andare, ma
seguire costantemente, e gli occhi non possono mollare il contatto con
i muscoli della sua schiena e la falcata implacabile delle lunghe gambe,
e così dicendo mi avvicinavo sempre più, il punto di massima
contiguità essendo quando dovette frenare in un ingorgo di ortaggi
e casalinghe, ché quasi, ad allungare il braccio, lo potrei toccare,
sfiorargli la spalla o la collana verde poco sotto l'attaccatura dei capelli,
ma poi lui si divincolò, e si buttò in mezzo alla strada,
e io in un inseguimento all'americana lo rincorsi fra le macchine intasate
e scintillanti, con il vento che mi schiaffeggiava e questi maledetti
capelli che non mi fanno vedere dove, dove sta andando, mi chiesi quando
lo vidi infilare la Maccarony Company, e nell'afrore di olive e pecorino
lo seguii, e ancora lo vidi apparire e sparire tra i barattoli di sugo,
e la sua ombra profilarsi a stento nell'opacità delle bottiglie
d'olio. Ancora, vidi la camicia a quadri incupirsi nello sfiorare le damigiane
di chianti, e veleggiando su quel riverbero rosso lo vidi penetrare il
corridoio dei salumi appesi, tuffarsi nella condensa salata delle carni,
nelle corsie delle spezie e della noce moscata, tra il tepore neonatale
del pane sfornato, finché sformato dalle correnti d'aria non riprese
la via dell'uscita, tra famiglie urlanti sillabe atzeche e lo sferragliare
artificiale dei sacchetti, e in un fragore di luci ancora disperdersi,
nella strada costipata di cartelli e tende e magliette penzolanti, tra
il galoppo acquatico di uomini-cavallucci la giostra rotante delle massaie,
il formicolio bambinesco, i tamburelli schiaffeggiati, i raggi che s'allungavano
come trombe a colpire gli occhi con ritmo sincopato, i vuoti d'aria, le
urla disperate dei cani, i miagolii dei poppanti, le fusa delle donne
scaldate di sole, e ancora, le tue spalle, albero maestro in mezzo ai
flutti, perché non ti fermi e non ti volti a riposare le tue branchie
di squalo instancabile, potessi allungare le mie dita come protesi di
navicella nell'abbraccio alla stazione-madre, senza più dover scavalcare
questa gente, queste cose, questa strada, e infine, come un palloncino
esploso nell'azzurro, infinitarmi. - Prendi quest'autobus? - mi chiese infine alla fermata del bus voltandosi
mentre ci frenava davanti il 54C. - Veramente no, abito in un'altra direzione - risposi automaticamente,
incredula alle mie parole, e tra il fumo di scappamento mi sedetti sul
marciapiede a piangere. |
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