25. Dentisticherie
Mi sveglio una mattina e il fastidio alla gengiva è
diventato dolore. È lo stesso dente su cui mi è stata fatta
un'otturazione tre mesi fa. Evidentemente la carie era troppo profonda
ed è necessaria una devitalizzazione, quella che qui, con una parola
dalla risonanza un po' inquietante, chiamano root-canal. Telefono all'ufficio dentistico della mia assicurazione, quella specifica
per denti e occhi, per la quale sborso direttamente dalla paga circa venti
dollari al mese (gli altri ce li mette il mio datore di lavoro, l'università).
Preciso che siccome sono un'ottimista la telefonata non la faccio subito,
ma dopo qualche giorno, quando il dolore, invece di attenuarsi con gli
sciacqui dell'ultimo portentoso disinfetta-e-distruggi-colgate, è
andato aumentando. Mi danno appuntamento dopo nove giorni. - Nove giorni? - le faccio tra l'incredulo e il sofferente. - Mi fa male.
È da due notti che prendo medicine per dormire. Come faccio a resistere
nove giorni? - - Quel giorno è l'unico che ho disponibile - mi fa glaciale la
signorina riagganciando. Mi accascio sulla sedia. Il dolore al dente sembra all'improvviso ringalluzzito
dal solo fatto di averne parlato. Nove giorni. Prefiguro notti insonni
e pulsanti, sudata nel letto mentre l'infezione avanza insieme alla febbre.
Penso sempre che potrei volare in Italia e andare dritta dalla mia cara
dentista di fiducia, una figura a metà tra dio e la mamma. Poi
penso che sono ipocondriaca e che se durante il giorno posso vivere normalmente
la situazione non è così grave. E dunque arriva la notte. Prendo gli antinfiammatori ma il dolore è
lì, in agguato, nascosto sotto la lapide del mio dente moribondo
che dà gli ultimi sussulti disperati di vita. Alle sette del mattino mi alzo incazzata come una biscia. Riprovo a telefonare
e la signorina mi liquida ancora più velocemente di prima. Allora
decido di andare di persona, almeno non potrà chiudermi il telefono
in faccia. In fondo l'assicurazione la pago, diobono. E cosi adotto la tattica all'italiana. Vado, simulo un dolore spropositato
(dicesi di dolore che porta a far commettere spropositi) e soprattutto
non mi schiodo dalla vista delle tre segretarie che sono chiaramente seccate
ma non possono mandarmi via. Alla fine, dopo avermi chiesto il mio tipo
di assicurazione, mi fanno visitare da un medico giovane giovane, probabilmente
della scuola dentistica. Lui è molto gentile e mi offre due possibilità:
che lui inizi la devitalizzazione, e poi il medico in carica la finisca;
oppure che lui mi prescriva degli antibiotici e antinfiammatori in modo
da resistere fino alla settimana dopo. Io, naturalmente, sarei per, come
dire, togliermi il dente subito, ma cerco di capire cosa veramente vorrebbe
il tipo. - Ma se faccio la devitalizzazione la prossima settimana sarà tutto
in una volta? Come mai? Di solito non ci vogliono due sedute?- - Sì, ma questo dente non è difficile, e in più il
Dottor Wallace ha un'esperienza trentennale - mi fa con una genuflessione
rispettosa della voce nel pronunciare il nome del Dottore. L'impressione è che lui preferisca somministrarmi le medicine,
non so se perché intimidito dal mio premolare o piuttosto dal professorone,
a cui, immagino, non vuole sottrarre l'osso succulento dei soldi dell'assicurazione.
Insomma, accetto a malincuore le prescrizioni e me ne vado, riponendo
le mie speranze nei trent'anni d'esperienza e bla bla bla (non sarà
mica un vecchio dalla mano tremolante? mi sovviene a un tratto nell'uscire
dall'edificio). Dopo essermi imbottita d'antibiotici e consimili arriva infine il benedetto
giorno. L'assistente mi accompagna in uno dei molti scompartimenti da
cui traspare con più evidenza la taylorizzazione della medicina.
Mi sdraio e attendo. C'è la radio accesa. Doctor Wallace arriva.
Ha circa cinquant'anni e l'aria da super-giovane. È tutto frizzi
e lazzi. Devo fermarlo prima che inizi perché vorrei mi spiegasse
che cosa sta per fare. Di certo non si dilunga. Gli dico che voglio il
rivestimento bianco e non scuro come mi è stato fatto nell'otturazione.
Ovviamente, ridacchia lui, implicando che non siamo mica in Italia, dove
ancora si fanno le otturazioni girigie. - Veramente me l'hanno fatto qui - gli dico il più gentilmente
possibile. Poi lui mi chiede, in quanto italiana presumo, cosa ne penso del Papa.
Risatina. Sua. Non me ne frega un c..., mi verrebbe da rispondergli. Ma
il trapano che pende dietro la mia testa come un segreto auricolare mi
suggerisce un calmo, similfaceto: - Non ci penso granché al Papa
-. Lui continua a ridacchiare. Poi inizia. Tra le altre cose mi mette in
bocca un fazzoletto di gomma che me la tiene aperta, bloccata e al riparo
da eventuali frammenti. Doctor Wallace fa tutto senza smettere di chiacchierare
e fare (stupide) battute con la sua assistente (nera), frasi del tipo:
"Tutta Portorico si è trasferita a New York, Cuba a Miami,
e l'Italia a Pittsburgh", ecc ecc, seguite da commenti quali: "Silenziosa
la nostra paziente, vero?" e conclusi immancabilmente dalla risatina. - Sarò in Italia - rispondo con la freddezza della rassegnazione.
La segretaria fa finta di provare a cercarmi un altro angolino e chiede
al Dottor Wallace, il quale sta passando in quel momento e senza neanche
fermarsi, leggiadro e giulivo, risponde che non ha spazio. Grazie al cielo, mi dico. - Mi dia l'appuntamento a fine
agosto, - dico alla segretaria. Poi esco e me ne vado. A comprare un set di spazzolini e dentifrici. |
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