24. Fondi di caffé
Passa ogni giorno alle tre. Attraversa il rettangolo di
vetro e gira l'angolo dove finiscono i tavolini all'aperto recintati di
girasoli. Lì la strada s'impenna, ma lui la risale senza rallentare,
con la stessa falcata ritmata dallo stereo che stringe teneramente nell'incavo
dell'avambraccio, appoggiato sul cuore, come un bambino. Cammina eretto, con un filo teso lungo la spina dorsale che sembra sospenderlo
sulle gambe molli e che ne stanca le spalle aggravitandole verso l'asfalto.
I jeans risvoltati rilevano le calze rosse in pendant col berretto, che
sembra impossibile levare senza scoperchiare la fronte nera lucida di
sole. Nel breve tragitto intorno al caffè stipato di voci la sua
apparizione scivola inosservata, non fosse per quell'alone di musica che
lo avvolge e che si lascia dietro un retro-senso di colore, un quasi-rosso.
Passa ogni giorno, sempre alla stessa ora, sempre attorno allo stesso angolo, una radio-fantasma che scorre davanti la vetrata, su cui poi tornano a incidersi le macchine, i bus, i passanti con le mani in tasca, gli zaini in spalla e gli walk-man nascosti nelle giacche, solo le cuffie sulle orecchie, anch'essi immersi in una simile aura repulsiva che però nessuno nota, nessuno ascolta.
Entro nel caffé di corsa, soprapensiero, guardandomi
distrattamente attorno nel caso che qualche faccia nota mi colpisca, quando
mi arriva una voce. - Caroline! - Guardo in giù. Seduta a un tavolo sta una donna bassa, grassottella,
intorno ai quarant'anni, in canotta e pantaloncini rosa, capelli ricciuti
e spettinati. - Sei Caroline, no? - mi dice con enfasi e un abbozzo di sorriso. - Ssss-ì - balbetto incerta cercando di arpionare nella memoria
qualcosa che mi ricordi dove potevo aver incontrato quella donna. - Sono Gina -. Un frammento mi attraversa a razzo la mente, lei che mi ferma in mezzo
alla strada chiedendomi di dove fossi, ché "anche" lei
era italiana, cioè, di origini italiane ecc. - Ah, come va? - faccio io innescando il pilota automatico, come s'impara
a fare presto in questo paese. Mi divincolo dalla conversazione a stento rifugiandomi all'esterno del
café, in mezzo ad alcuni amici seduti. Imperturbabile, lei mi raggiunge.
Mi sventola sotto il naso (che invano avevo ficcato tra le pagine di un
giornale) un mazzo di foto: questo era mio padre da giovane, vedi, aveva
la divisa dell'esercito, mi dice indicando una foto in bianco-e-nero stinto,
e questa è mia nipote, fa mostrando una bambina di due anni seduta
fra i giocattoli nell'interno di una casa; poi altre foto con lei, la
bambina e un'altra donna, sempre nella stessa stanza, dove si distinguono
un tappeto, delle foto incorniciate sui mobili, dei centrini. Non posso
fare a meno di registrare una sensazione di squallore. Mi mostra le foto sporgendo con tutto il busto e le braccia verso di me,
a causa delle altre sedie che fanno da barriera, e parla frenetica, come
se stesse chiedendo la grazia a un vescovo. Impartisco sorrisi benedicenti, finché alla fine lei raccoglie
le sue borse che aveva mollato sgraziatamente a terra e salutando effusamente
se ne va, il sederone rosa che sventola a destra e a sinistra. Gli altri mi guardano interrogativi. Io mi stringo nelle spalle protestando invano la mia innocenza.
Ha una di quelle camminate che ad ogni passo buttano avanti
le spalle lampadate, esposte nelle loro curve anaboliche dalla canotta
bianca. Seguono i pantaloncini sportivi in pendant con le nike, che molleggiano
le falcate spavalde. I capelli sono letteralmente tirati a lucido in una
coda. Il viso è squadrato e duro, lontanamente latino. Superfluo
menzionare la catenina d'oro. Siede al café nei tavolini all'aperto con la sigaretta in una mano
e il cellulare nell'altra, dopo aver perlustrato tutte le donne presenti.
Si vocifera che sia avvocato specializzato in divorzi: non si stenta a
crederlo, probabilmente ne ha pure parte attiva, anche se resta il dubbio
di quando lavori veramente, stando sempre al café. Qualcuno ha
difeso (e diffuso) l'ipotesi che sia piuttosto uno smerciatore di coca.
Anche, si vocifera che sia un razzista. Una volta, a un nero che lo ha
salutato calorosamente ha risposto con una serie di ammiccamenti grotteschi,
alla giocatore di basket, salvo poi strizzare l'occhio all'amico (bianco)
che gli sedeva accanto. D'altra parte, se sei una donna sotto i quaranta
che annaspa coi fiammiferi e la sigaretta, lui arraffa il suo zippo e
in due secondi te la accende, la mano a coppetta. Una volta si è seduto non distante da una tipa sui cinquanta, una
pazza che viene sempre a bere un bicchier d'acqua con le borse della spesa,
i capelli biondastri a spazzola, un vuoto rettangolare nel sorriso. Lei,
come fa sempre, ha attaccato a parlare, o meglio, a lanciare nella direzione
del tipo qualche frase disconnessa. Lui per un po' ha risposto con qualche
grugnito, gli occhi duri che seguivano le volute di fumo, i piedi sulla
sedia. Poi è sbottato. - Con chi stavi parlando prima che venissi io? - L'ha detto così, voce ferma e intonazione scientifica. Lei non ha più fiatato.
Alle due meno dieci scattano le porte. Istantaneamente
rivoli di studenti catapultati fuori dalle aule da invisibili campanelli
mentali invadono i corridoi, rimbalzano ordinatamente per le scale, s'infilano
nelle porte scorrevoli uno ad uno risucchiati dallo spicchio rotante come
una fila di pesci trainati dall'amo. Davanti all'unico banco di café scavato in una nicchia al pianterreno
forse per proteggersi dall'onda d'urto delle diversi correnti che lì
si raggrumano negli interstizi delle ore si srotola improvvisa una lunga
fila di berrettini e boccoli biondi, tazze di plastica con il logo dell'università,
jeans e zainetti. Dietro al banco, in fila, stanno cinque donne nere. La prima si affaccia da sopra la vetrina con i dolci grondanti di panna
e domanda a raffica le ordinazioni. Ha un viso da Barbie botticelliana,
troppo brunita per essere bianca, troppo luminosa per essere nera, i capelli
in treccine imbiondite. Domanda cosa vuoi con l'aria di un impiegato postale
al limite dell'orario di chiusura, salvo scoppiare in risate impenitenti
alle battute delle altre compagne. La seconda riceve dalla prima l'ordinazione e la scrive su una tazza di
cartone per il caffè, oppure si incammina a prenderne una apposita,
e davvero sembra coprire una distanza odissiaca, se non fosse dopo due
secondi di nuovo al punto di partenza, pronta per il dolce successivo.
La terza sta dietro la cassa e preme a ripetizione i pulsanti, spingendo
ed aprendo lo sportelletto come un cronometro. È una quarantenne
che potrebbe anche averne venticinque o quarantacinque, non magra e non
grassa, i capelli non trattati né avvoltolati in trecce, solo una
coda secca, lo sguardo sarcastico, la bocca scazzata; e quando digita
il tuo viso sulla cassa senza chiederti l'ordinazione sai di fare parte
dell'olimpo degli abitué. La quarta è la vestale della macchina espresso. Ha una retina sui
capelli corti neri strinati all'indietro. Le dita agili. La vita snella.
Le spalle curve. Apre bottiglie di latte, aziona la pressione per la schiuma
del cappuccino, versa il latte fumante nei bicchieri-cartone, dà
una lieve mescita, schiaccia sopra il tappo, e grida: singolo cappuccino
scremato con aggiunta di espresso; doppio caffellatte con espresso e panna;
doppio espresso macchiato con latte scremato e spruzzo di cioccolata;
doppia cioccolata con ghiaccio e panna montata e latte parzialmente scremato
in tazza di plastica
Gli studenti scivolano leggiadri lungo le prime tre donne e si assiepano
dietro il banco ad attendere che la quarta, finite le mosse da fattucchiera,
gli gridi in faccia la loro ordinazione. Molti se ne stanno con le braccia
incrociate, lo sguardo assente, o cinguettano a coppie un poco discosti,
finché la quarta donna, dopo due tentativi caduti nel vuoto, non
tuona un "doppio cappuccino con latte scremato al 2 per cento",
sputando fuori un quarto di polmone. A volte il circolo virtuoso s'interrompe
e la quarta donna urla invano più e più volte un "doppia
cioccolata con latte scremato e panna!". Silenzio. Alcuni studenti si occhieggiano indifferenti. - Io avrei una doppia cioccolata parzialmente scremata - se ne esce infine
una tipa sepolta dai boccoli finti. La quarta donna sospira, riposa il
bicchiere fumante, ne afferra un altro e ricomincia: cioccolato, latte
fumante che scende come una cascata schizzando sul bancone, mescolata
con uno stecco, colpo di polso a spirale per la panna, imprimatur di tappo
tra scintille di schiuma. - Doppia cioccolata con panna e latte parzialmente scremato - riurla infine
sporgendo oltre il banco la tazza e la mano lucida di vapore. - Uh! - esclama poi asciugandosi la fronte con l'avambraccio prima di
attaccarsi di nuovo al tubo sparavapore della macchina. Ma il jolly è la quinta donna. Di donne ne fa tre: sfera quasi
perfetta con in cima una testa tonda tonda, una spazzola di capelli bruciati
da vecchie tinte, due gote mastine e solari, da nonna. La quinta donna
non ha una postazione fissa. Passa da un posto all'altro producendo plusvalore:
una passata di straccio qua, un'aggiunta di bicchiere là. Ogni
tanto si ferma, si asciuga la fronte immensa, indugia a respirare, soffoca
in una risata. Occorre una maestria particolare nel fare tutto e niente,
e un interesse per le persone, la quinta donna intrattiene le altre, a
volte anche gli studenti. Le cinque donne non si danno mai il cambio: ognuna al suo posto, alla
sua specializzazione. Solo la quinta donna ondeggia come un pesce palla.
A volte la incontri dietro la porta girevole, quasi incastrata nello spicchio
del lato esterno, a fumarsi una sigaretta, un piccolo sorriso se ne incontri
lo sguardo. |
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