28. Spaziando
La strada saliva nel vuoto. Solo sulla destra era ancora
costeggiata dalle case a due piani, mentre a sinistra il guard-rail separava
una vallata d'aria che precipitava sulla highway, ottanta metri più
sotto, e su una striscia incolore di terra, a fianco del fiume. Lo sguardo
come l'aria poteva così scendere in picchiata per poi incurvarsi
con una parabola sull'acqua distesa, opaca e bituminosa, che finiva con
lo slargarsi in tutte le direzioni laddove i due fiumi si annodavano nel
"punto", dove cioè la prora di downtown fendeva questo
dilagare di acque. Lo sguardo poteva quindi impennare contro l'argine opposto, incresparsi
ai piedi del grattacieli e arrampicarsi lungo la loro griglia luminosa
di pieni e di vuoti, fino a raggiungerne la cresta e ricaderne alle spalle
come un ottovolante. Se invece si ridiscendeva lungo la strada, i grattacieli, le arcate dei
ponti moltiplicate e sovrapposte in prospettiva, l'incrocio delle sopraelevate
e degli snodi stradali che inghiottivano lentamente topi fosforescenti,
tutto si spostava di un moto diagonale, scartava e ruotava come un modellino
sotto osservazione, sì che gli argini si slabbravano in un poligono
smussato, e le luci si spostavano lente, un'altalena inceppata dal ghiaccio. In fondo, la strada, con una sterzata e una spinta sensuale, ti sopraelevava
sul fiume, dentro la trama dei pilastri d'acciaio, una ragnatela impassibile
e gelida, sopravvissuta ai suoi ragni, che come spiriti riecheggiavano
intermittenti e fitti, propagandosi concentrici dalle fenditure sottostanti
del ponte. Per sentirli, gli uccelli notturni, si doveva lasciare l'asfalto
per il prato che infilava l'oscurità dei piloni, disseccandosi
in ghiaia ed estinguendosi, infine, nell'acqua immobile. Dalla cima dell'argine
vegliavano, colti nell'espressione di appagato riposo, due operai di bronzo,
con tuta ed elmetto, per sempre intrappolati nella colata di metallo che
li eternava. Ma la strada andava avanti, proseguiva tra gli edifici incrostati di fronzoli
europeizzanti, costeggiava una sopraelevata e i bulldozer di costruzioni
in fieri, e si miniaturizzava in un ramo laterale, tra i lunghi parallelepipedi
bassi che avevano un tempo ospitato stock di merci. Sotto la ringhiera,
una banchina fangosa. Si avvicinava a questa una chiatta di dune sabbiose, con danza ninfea,
i lunghi fari bianchi che setacciavano la banchina deserta, le macchine
immobili, i tubi che eruttavano acqua con sbuffi dragoneschi, alimentando
un rettangolo di sabbie mobili. La chiatta procedeva lenta, incidendosi
sulle pulsazioni di luci, con le sue dolci curve di ghiaia, con i suoi
occhi luminosi di rana spiritata, segnandosi sulla vischiosità
di quella notte in cui tutto respirava piano e le ombre non si staccavano
dagli scheletri d'acciaio. A riprendere il volo dello sguardo si sarebbe proseguiti sopra l'incrocio
di correnti ai piedi dei primi grattacieli, e poi dentro i crepacci di
cemento e vetro, che intrappolavano le luminescenze al neon, riverberandole
sui muri ortogonali e quadrettati, sulle vetrate e le automobili parcheggiate,
sui radi umani incastrati fra le smagliature dei palazzi. Né il
silenzio si spezzava di fronte ad acquari luminosi di uomini e donne,
alcuni immobili sigillati nei loro copi in plexiglas, altri seduti in
locali, ugualmente rinchiusi nel frastuono delle proprie parole. Ma fu il risucchio improvviso di un bus lanciato lungo l'avenue, sbucato
fuori dalla cappa delle decorazioni postnatalizie, a deformare la progressione
lineare della strada, schiacciandola contro i suoi finestrini opachi,
contro la sua vetrina nomade di posti vuoti, e bicchieri di pepsy alla
deriva, e manichini neri addormentati. Poi l'onda finì, e l'aria
tornò a riempire i vuoti, a ridistendersi sulle pareti degli edifici,
a raddrizzare il corso della strada, tra i lampioni e i palazzi quadrettati
di downtown. |
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