20. Home Sweet Home
Proprio mentre stavo per prendere sonno ho sentito alitarmi
sui piedi e da quel primo stato di incoscienza faticosamente raggiunto
sono ritornata alla realtà. Era il cane che stava cercando di recuperare
l'osso rimasto incastrato fra i cuscini del divano. In quanto alle mie,
di ossa, erano spaccate dalle ventitrè ore di viaggio, fra treni,
pullman, aerei ed attese estenuanti all'aeroporto JFK di New York (un
pianeta dominato da neri ed ispanici, forse in onore del presidente da
cui è stato battezzato, e dove, vuoi per il loro accento strascicato,
vuoi per l'aria scazzata che hanno nello svolgere il lavoro - niente a
che fare, ad esempio, con i sorrisi al servizio del consumatore delle
signorine bionde della KLM - si respira un'atmosfera scialba e decadente,
cosicché l'appartenenza etnica o razziale sembra dominare comunque
sulla condizione di classe. Insomma se sei nero ti resta addosso un alone
di inferiorità sociale, anche se fai l'hostess di terra a New York). Così me ne sono stata a contemplare il salotto ricoperto di giornali,
cianfrusaglie, rumenta e polvere, in preda al prurito da acari e ad alcune
edificanti riflessioni sul significato della pulizia nelle diverse culture. Il fatto è che i coinquilini degli amici dai quali mi ero appena
trasferita erano rimasti più del previsto, ed il risultato era
che dopo una traversata oceanica e dorati sogni di nido abitativo io ero
rimasta senza una stanza, e per di più soggetta all'atteggiamento
di assoluta noncuranza che i giovani americani hanno verso la casa. Le case in cui vivono gli studenti in America sarebbero un sogno per molti
italiani. Praticello, patio, entrata indipendente, due piani, cortile
sul retro, soffitta, cantina. Il tutto circondato da alberi che rinfrescano
l'afa torrida di maggio, ospitano i balzi leggiadri di scoiattoli e passerotti,
e attutiscono i ronzii delle poche automobili di passaggio. Ma è
negli interni che, come dire, consistono le difficoltà. La cultura dell'efficienza (nel senso di risparmio di tempo) e dell'usa-e-getta
inizia dal frigorifero, dove la frutta è sostituita dai succhi,
i cibi primari dai pasti preconfezionati, la verdura direttamente abolita.
Continua sui pavimenti che raccolgono il passaggio di piedi e stagioni
sedimentando la memoria storica della casa. Prosegue nelle stanze da letto,
dove vige il principio dell'accumulo di oggetti, della contaminazione
di sostanze e della sovrapposizione di rumori. E s'impenna con una sferzata
di superiorità economica nella capacità di lasciare accesi
apparecchi elettrici e luci anche la notte o quando in casa non c'è
nessuno. Il giovane americano vive fuori casa e se sta in casa è per rinchiudersi
nella camera con la musica, la televisione o il computer. Prendi i miei ex-coinquilini, mi dico rigirandomi sul divano, mentre un
riverbero notturno entra dalla porta di casa spalancata (tanto la serratura
non funziona e la temperatura è sui venticinque gradi): eravamo
quattro in una grande casa indipendente di tre piani, i muri di cartapesta
o simili, la moquette incubava inediti agglomerati biologici, i piatti
fuoriuscivano perennemente dal lavandino e il patio sembrava un frammento
delle discariche del Righi. Dei miei conviventi, uno era un informatico che si passava il sabato sera
a guardare i talk-show e che non riceveva né faceva mai una telefonata.
La mattina saltava giù dal letto già (o ancora) vestito,
e impugnando la sua valigetta se ne usciva senza fare colazione, occhiali
da ranocchio, ciuffo da Charlie Brown e andatura da Robocop. Uno era un ippi trentacinquenne dal capello lungo e la barba, incisore
di legno, cantante di operetta, appassionato di arte medievale, corista
di chiesa, protestante praticante, cultore di giochi di guerra. Malgrado
non fumasse aveva perennemente l'aria di chi si è appena fatto
una canna e la sera capitava che s'impegnasse con l'informatico in lunghe
conversazioni di stampo britannico su argomenti oscuri e incomprensibili. Poi c'era la ragazza dalle fattezze asiatiche, master in business e nevrosi
a mille, che rientrava coi suoi tacchetti e i suoi tailorini urlando come
un camionista incazzato, lanciava la spugna per lavare i piatti contro
la parete sopra il lavandino, cucinava scalza sul pavimento della cucina
(per la cui tipologia vedi sopra) e si prendeva ogni giorno le sue vitamine
insieme a due pacchetti di marlboro rosse. Con me parlava o di lavoro
o di uomini, raccontandomi del fidanzato in carriera che ammirava perché
sapeva concentrarsi su degli obiettivi e perché si stava facendo
strada, e che, insomma, era un vero uomo in tutti i sensi. Io la ascoltavo
col sorriso raggelato di chi si trova davanti un pazzo in una fase di
calma apparente, che potrebbe esplodere da un momento all'altro in un
attacco d'ira inconsulto. La mattina, più di una volta, mi è
toccato arrampicarmi nel suo bazar, per svegliarla, dopo un'ora che la
radio sveglia si sentiva anche in cantina e il telefono era squillato
un paio di volte reclamandola all'università. Ora, quanto meno, gli americani con cui mi trovavo temporaneamente avevano
l'aria più tranquilla, a parte il via vai di amici culturisti che
entravano a tutte le ore, in torsi nudi e tatuati per fare pesi in soffitta.
Questi entravano e uscivano gocciolanti di sudore, ma sempre gentili ed
educati come boy-scout, mentre io e altri due miei amici italiani ce ne
stavamo a gambe all'aria nel patio, bevendo una limonata e guardando con
indolenza siciliana il passaggio di gente. E parlando di dove avremmo
appeso la bandiera. Italiana. |
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