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Esco nel silenzio fosforescente di neve. Otto di sabato
mattina. Il silenzio delle mattine pittsburghesi ha qualcosa di universale,
con l'aggiunta di una specifica sensazione di isolamento data dal ghiaccio.
Prendo un autobus di zombi viventi, riscaldamento a palla e odori stagnanti.
Mi chiedo chi me lo fa fare. Esco dall'autobus e salgo sul furgone. Siamo
in quindici, per la maggior parte studenti molto giovani, in tuta, scarpe
nike, berrettini steelers e tazza di caffè university of Pittsburgh.
Alla guida c'è una cicciona che pronuncia dieci parole al secondo:
è nervosa per il maltempo, dato che nevica fitto e le strade sono
bianche. Allaccio premurosa la cintura. A quanto pare qui nessuno mette
le catene: sono vietate perché rovinano il manto stradale. Partiamo. I ponti d'acciaio emergono dalla condensa di nebbia e nevischio
come i relitti preistorici del Carnagie Museum. La città è
scomparsa. Costeggiamo una università privata, la prigione, i grattacieli
del centro, poi tiriamo su per le colline. Il paesaggio è fatto
di casette in legno o mattoncini, in un saliscendi di stradine. Sembra
che la neve le possa sfondare, quelle casette, tanto sembrano fragili.
Siamo nel North Side, una delle zone povere. Ci dobbiamo incontrare con
un tipo sui quarant'anni che gestisce il "progetto Pittsburgh",
un'organizzazione che aiuta a migliorare le abitazioni di "persone
a basso reddito", come chiamano qui i poveri. Il tipo, Dave, perde
un'ora in presentazioni e discorsi. È incredibilmente inefficiente
e s'incasina nell'assegnare i vari compiti. Guardo gli altri volontari.
Tre studenti neri attendono serafici, quell'inimitabile espressione di
scazzo e rilassatezza sul viso. Negli altri si avvertono fremiti d'impazienza,
sguardi d'intesa. Alla fine arriviamo sul posto. Il furgone ci porta in
cima a una collinetta, dove la quiete e il silenzio sono assoluti. Apriamo
un cancelletto in ferro mezzo scardinato e bussiamo a una casa in legno
piuttosto malmessa. Ci apre una ragazza nera di circa trent'anni, bandana
viola in testa, jeans e maglietta dell'università di Pitt. Dalla
porta si vedono le scale in legno marcio che portano al secondo piano,
dove si apre un buco nella parete. A fianco delle scale un corridoio di
linoleum porta alla cucina. C'è l'odore tipico delle case vecchie.
Di lato si apre un salottino con un finto caminetto con le colonne bianche
e sopra uno specchio arrugginito. Le tende pesanti, verdi, la moquette
rossiccia e spelacchiata, il tavolino basso al centro con sopra la bibbia,
tutto ha un'aria di velleitaria, ostinata borghesità, di casa della
nonna. Di era pre-ikea. Il riscaldamento alto e l'umidità congiurano assieme un clima tropicale
e la sensazione di muffe proliferanti. Un gruppo di intrepidi ragazzi
scende nelle cantine per cambiare le tubature dell'acqua ghiacciate. Io
e altri due ci occupiamo invece del buco nel muro, che mostra l'intelaiatura
lignea della casa. Mentre sgretolo la parete ho modo di toccare con mano
la struttura della casa americana, fatta di travicelli in legno inchiodati,
e detta a "balloon frame", ovvero "telaio a mongolfiera".
Come infatti spiega splendidamente Marco D'Eramo nel suo libro su Chicago,
il vantaggio di questa casa, a parte l'inconveniente di incenerirsi facilmente
e di consumare molta energia sia in inverno che in estate, è quello
di essere il più standard e impersonale possibile. "Il fatto
che le casette siano costruite tutte esattamente nello stesso modo, stessa
logica, stessi accessori, con assi della stessa sezione 2x4 pollici, ti
fa vivere sempre nella stessa abitazione, che ti trovi in Texas o nel
Maine, ti fa sentire sempre a casa tua". E rende accessibile a tutti
il sogno-diritto americano di una casa indipendente. Anche a chi, come
Lori, sopravvive con i minimi sussidi statali per madri sole, non ha assicurazione
sanitaria e spende probabilmente una cifra in riscaldamento. Resta il fatto che dissolvere un muro con le tue mani ti innalza alla
dimensione di super-eroe e mostra ancora una volta come le esagerazioni
dei film americani (il tipo che spacca il muro col pugno) non siano esagerazioni.
Dopo il lavoro di pulitura si mettono dei pannelli che vanno inchiodati
sui travicelli principali e poi ripassati con un po' di calce e imbiancati.
Lori ci guarda lavorare imperscrutabile. Mette un cassetta di rap gospel
nel registratore. Lei ha tre figli, uno di cinque, uno di otto e una di
ventuno anni. Quella di ventuno ha avuto un figlio giusto giusto il giorno
prima. Ora stanno tutti dalla nonna, almeno finché non si può
usare l'acqua di nuovo. Nonna che, immagino, è stata promossa bisnonna
a soli quarantacinque anni. Certi destini che si ripetono all'infinito
non si trovano solo nei libri di Marquez. Ci sediamo nel salottino, io Lori e un'altra volontaria di vent'anni,
Chantel. Chantel e Lori sono proprio dello stesso colore e non hanno molti
anni di differenza. Chantel però studia marketing all'università,
ed è appena tornata da cento giorni di crociera intorno al mondo
organizzati dal college. Gli studenti pagano qualcosa come quindicimila
dollari e si fanno un giro coi professori tra Brasile, Sud Africa e Giappone,
studiando in classe sulla nave e andando a fare il safari a terra. Tornano
eccitati, entusiasti, sognanti e sempre più convinti di vivere
nella migliore delle nazioni possibili. Però a Chantel piace fare
volontariato e ora sta seduta accanto a Lori e parlano, se non con lo
stesso accento, almeno con lo stesso ritmo, ed hanno la stessa rilassatezza,
la stessa inattingibile autarchia. Il colore avvicina dove la classe divide.
Indubbiamente in America sono più evidenti le possibilità
combinatorie di colore, sesso, classe, provenienza geografica e residenza.
Lori, ad esempio, abitava nella Collina, uno dei quartieri più
malfamati, dominato da gang. Se n'è andata per i figli, e si è
trasferita in questa zona, ugualmente povera ma apparentemente un po'
più tranquilla. Anche qui ci sono gang, ma non si vedono. Sono
più discrete. Alle due abbiamo finito. Salutiamo Lori che ringrazia e ci benedice. Scendiamo
dalle colline innevate lungo i binari arrugginiti di una defunta linea
ferroviaria per il trasporto del carbone. Lì ora la gente ci va
solo a guardare il panorama. Dei poveri. |
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