Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Le furie di Odoardo

Nel settembre del 1639 Odoardo Farnese, Duca di Parma, comparve all’improvviso a Caprarola, una sua terra non distante da Viterbo. Ci si aspettava che entro breve venisse a Roma, magari in incognito per eludere i consueti problemi di etichetta.[1] L’ingresso di Odoardo in città tardò invece sino al 21 novembre e, sebbene in incognito, il Duca fu accolto e alloggiato “alla grande” in Palazzo.[2] Anche la sua permanenza a Roma, che si prevedeva breve, durò invece un paio di mesi.
Sulle ragioni della sua venuta circolavano voci diverse.[3] Si diceva tra l’altro che, in vista della futura e sempre rimandata creazione di nuovi cardinali, Odoardo volesse sollecitare di persona presso il Papa la promozione di suo fratello, il principe Francesco Maria.[4] Ma poiché, risolte le vecchie vertenze, l’idea di una lega tra Venezia e il Papa circolava insistente e in suo favore proprio in quei giorni la Francia stava intensificando le pressioni sul Pontefice,[5] era inevitabile che si supponesse che la presenza del Duca di Parma a Roma vi avesse qualcosa a che fare.[6] I più preoccupati erano naturalmente gli Spagnoli,[7] ma c’era anche chi (non il Papa, però, né il Cardinale Barberini, assai scettici in proposito) sospettava che Odoardo stesse per mettersi d’accordo proprio con loro in funzione antifrancese. [8]
In realtà Odoardo era soprattutto mosso «dalla necessità di dare acconcio alle cose del suo Ducato di Castro rispetto alla pecuniaria, disordinata non poco per le spese soverchie fatte da lui hor sotto Valenza hor dentro Piacenza».[9] Si trattava da un lato di saldare i conti e trovare un nuovo accordo con i fratelli Giovanni Battista e Alessandro Siri, depositari del vecchio Monte Farnese e affittuari di Castro,[10] e dall’altra di ottenere dal Papa l’erezione di un nuovo monte che sostituisse i vecchi a un tasso di interesse più basso, il 4,5 contro il 5 e il 5,5 per cento, e con un capitale sensibilmente maggiore, un milione e duecento mila scudi contro i novecento mila precedenti.[11] Non mancavano però altre grosse questioni da affrontare, prima fra tutte quella del rango del Duca, che era vassallo della Chiesa, ma che non perdeva occasione per comportarsi da principe sovrano. Anche su questo tema si sarebbe prodotta la rottura: oltre ai favori ottenuti, Odoardo pretendeva in Roma onori che il Cardinale Barberini non si risolse a concedergli.[12]
Alla fine, dopo un drammatico colloquio con il Papa, Odoardo manifestò pubblicamente la sua irritazione uscendo precipitosamente da Roma insalutato ospite, ossia senza formalità, ma anche, come non mancò di rilevare lo storico di Urbano VIII, Andrea Nicoletti, senza la prevista sottoscrizione della lettera di vassallaggio.[13] Secondo quanto il residente del Farnese a Roma, Alfonso Carandini, ebbe a dire all’ambasciatore veneto Giovanni Nani, Odoardo era rimasto «sodisfattissimo del Pontefice» e «disgustatissimo di Barberino». Il Duca, spiegava il Nani,

«è restato offeso in tre punti. In quello de monti, perché ottenutane da Sua Santità la gratia prima del suo arrivo in Roma, siano poi state fraposte tante difficoltà et longhezze dal card. Barberino che non ha potuto venirne a capo se non doppo due mesi. Che oltre di questo sia stato quasi constretto a cedere un castello a Signori Barberini che possedeva Sua Altezza nel mezzo de Stati comprati dalli medesimi. Et finalmente che vivendo il Sig. Duca lontano dal pensiero di far promovere il fratello al cardinalato, con vari discorsi gliene sia quasi stata data intentione et poi quando ne ha mostrato desiderio se gli siano mutate in mano le proposte».[14]

La contrapposizione tra il comportamento del Papa e quello di Francesco era evidentemente strumentale e non era vero quel che il Duca andava ripetendo e cioè che il Papa, dopo tutto, gli era rimasto amico: in Urbano allo sconcerto iniziale era presto subentrato il desiderio di vendetta. Quanto al Cardinale Barberini, è possibile che fosse sincero quando, subito dopo il fatto, dichiarava allo stesso Nani di ignorare «le cause delli disgusti del Sig. Duca» e di voler ascrivere l’accaduto «a sua cattiva fortuna».[15] E non è detto che fosse solo simulazione l’elogio che di Odoardo aveva fatto lo stesso Francesco quando il Duca aveva accettato di entrare in Roma e tutto sembrava dovesse andare per il meglio:

«Dice Barberino che [Odoardo] usa sensi molto prudenti et spiritosi, che indicano il suo animo libero et sinceramente indirizzato al servitio d’Italia, perché, se bene amaestrato dalle passate ruvine non mostra più inclinatione a movere l’armi, è però sommamente geloso della sua libertà et indipendenza con ottimi sensi li quali sono in estremo lodati dal Sig. Cardinale che afferma che, maturandosi col tempo la vivacità de suoi spiriti, si renderà un Prencipe molto considerabile in prudenza e da farsene grandissima stima perché riuscirà atto ad ogni bene che si possi desiderare».[16]

Vero o simulato che fosse lo stupore di Francesco e vera o simulata che fosse l’indignazione di Odoardo, appare evidente il tentativo di quest’ultimo di camuffare come personale e privato (un po’ per sfruttare l’impopolarità dei Barberini e la voglia diffusa di ridimensionarne la fortuna, ma molto più per sottrarsi all’accusa di ingratitudine, riottosità e ribellione nei confronti del Papa) un conflitto che era eminentemente politico.[17]
Anche i Barberini, forse nel tentativo di minimizzare l’incidente e di non allarmare gli altri Principi d’Italia, preferirono sulle prime mantenere la polemica sul piano personale sottolineando i tratti pericolosi della psicologia del Duca: l’avventatezza, la smodata ambizione, l’imprevedibilità, l’amore per gli intrighi. Poi cercarono di isolarlo diplomaticamente e in particolare di rivoltargli contro la già prevenuta Spagna: «i disgusti, dicevano, del Duca esser nati da più alta caggione, schernito nel suo dissegno, con il quale era venuto alla Corte di persuadere al Papa l’unione con Francia per scacciar d’Italia i Spagnuoli».[18]
Questa e analoghe voci riproducevano esattamente i timori nutriti dagli Spagnoli, ma trovarono nel complesso scarso credito e quando, a guerra iniziata, i Barberini si appellarono finalmente alle ragioni del diritto contro le inadempienze del Duca, vassallo tracotante e debitore insolvente, i loro argomenti parvero pretesti. Così, il tema della guerra privata, della guerra per capriccio e insomma della guerra dei Barberini passò dalla libellistica d’occasione alla storiografia.[19] Nel che c’era un paradossale ribaltamento dei fatti, giacché, semmai, si trattava proprio della guerra dei Principi ai Barberini o piuttosto (come familiarmente si diceva) ai preti e a quelli che, in un aggregato di potere che convogliava buona parte dell’innovazione e della mobilità sociale di cui era capace il secolo, figuravano come i loro naturali alleati, e cioè i banchieri (in primo luogo genovesi).[20]
Ecco un bel tema per i cultori del dibattito storiografico: come e perché la propaganda di guerra del Farnese e della Lega sia riuscita a condizionare e tuttora condizioni le ricostruzioni degli storici. E, soprattutto, come e perché vi sia riuscita non con gli argomenti più nobili e persuasivi - la furia dissacrante di Ferrante Pallavicino o l’anticurialismo intransigente di Fulgenzio Micanzio - ma con i più pretestuosi ed effimeri: la cupidigia dei Barberini, la senile imbecillità di Urbano sopraffatto dai suoi terribili nipoti, l’inutilità di una vergognosa guerricciola che l’esercito pontificio ha saputo solo perdere (e non è vero), la fiscalità irresponsabile di Papa Gabella e così via.[21]
Nella comunità degli Stati italiani il Pontificato era di gran lunga l’istituzione più autorevole, di volta in volta madre, tutrice o antagonista di grandi e piccole casate principesche e di signorie più o meno sovrane. Dal punto di vista di queste stesse casate e signorie, se a Roma il figlio di un sarto poteva diventar cardinale e il nipote d’un usuraio papa, c’era evidentemente bisogno, per la stabilità del sistema (che dopo tutto era fortemente integrato al suo interno), di porre un limite a quel che il nipote di un papa poteva aspirare a diventare e a quel che un papa poteva permettersi di operare come principe temporale e sovrano feudale.[22]
Nessuno pensava davvero a fissare nuove regole in materia, ma tutti condividevano l’insofferenza per i grandi disegni attribuiti ai Barberini e tutti alla fine si trovarono d’accordo nel lanciare, anche come monito ai futuri detentori del potere a Roma, una sfida al Papa. Che era poi quello che in modo del tutto esplicito opponeva Fulvio Testi alle reticenze di Venezia:

«Il fine de’ Principi confederati nello stabilimento della Lega non è stato semplicemente [...] d’aiutare il Signor Duca di Parma nell’oppressione che pretende di ricevere da’ Signori Barberini, né tampoco di procurar solamente [...] il componimento delle turbolenze correnti, ma di reprimere la soverchia baldanza degli Ecclesiastici, in forma tale che ne resti l’esempio ai Pontefici e nipoti che verranno». [23]

Iniziata senza idee e controvoglia, la guerra ai Barberini finì per trovare in questa sfida una ragione plausibile, che la trasformò a poco a poco da zuffa casereccia in conflitto tra due diversi modi di concepire la comunità italiana, i ruoli rispettivi in essa dei Principi e del Papato, la libertà degli uni e dell’altro, l’indipendenza d’Italia. Di Castro non importava niente a nessuno e fu per tutti un gran sollievo quando, di lì a poco, ma in un contesto politico affatto diverso, la città venne rasa al suolo e il sale sparso sulle sue rovine.[24]




paragrafo successivo * inizio pagina


[1] «È giunto all’improvviso in Caprarola il Sig. Duca di Parma», scriveva il 23 settembre 1639 mons. Ottaviano Raggi al Senato di Genova, «cosa che dà occasione a molti di discorsi, e li più sensati stimano che Sua Altezza si sia voluta allontanar da Parma per levar l’ombre a Spagnoli stante la vicinanza del Re di Francia all’Italia». Entro poco, aggiungeva in un altro dispaccio dello stesso giorno, «si aspetta qua [...] incognito per baciare i piedi a Sua Beatitudine dicendosi che sia con ogni efficace istanza per domandare a Sua Santità cardinale il Sig. Principe Francesco Maria suo fratello». L’incognito dei principi era molto sui generis e non eliminava affatto i problemi di etichetta. L’ingresso del Duca in Roma era stato preceduto da faticosi negoziati, sui quali vedi i dispacci di Giovanni Nani (ASVe, DAS, Roma 115, specialmente il n. 108 del 19 novembre 1639) e quelli di Ottaviano Raggi al Senato genovese (ASG, AS, 1986-1987 specialmente quelli del 12, 19 e 25 novembre 1639). Mons. Ottaviano Raggi (dal 1637 Uditore di Camera e dal 1641 Cardinale) è uno dei personaggi di queste note. Nella duplice veste di prelato eminente e di cittadino genovese, curava a Roma gli interessi della Repubblica. I quasi trecento dispacci da lui inviati a Genova con cadenza settimanale tra il 21 maggio 1638 e il 16 dicembre 1641 (il giorno della sua elevazione alla porpora) si conservano, insieme a materiale di diversa provenienza, in ASG, AS, 1986-1987 (che, limitatamente al materiale prodotto da Ottaviano e in considerazione della sua continuità, cito assieme come se costituissero una sola unità archivistica) e 2352. I dispacci da Roma di Alberto Giunti (che il 10 novembre 1640 sarebbe stato nominato vescovo di Castro) a Odoardo in Caprarola conservati in ASP, CFE, Roma 421 sono purtroppo guasti dall’umidità e in parte illeggibili; cfr. però Calandrini, pp. 973-976 (sul Calandrini: Affò, V 67, VI 815; Jannelli, 87; Lottici-Sitti n. 667; Benassi) e, prima, “Fu stabilito l’affitto...” e “Il Duca di Parma per causa di un certo patto...”. Riguardo ai trattamenti previsti per il Duca pare che si fosse convenuto di accantonare la questione più imbarazzante, quella della precedenza pretesa dal Principe Prefetto, facendo in modo che i due non si incontrassero (ma Odoardo avrebbe preferito che Taddeo lasciasse addirittura la città). Su Taddeo Barberini e la questione delle precedenze vedi Pastor, XIII, p. 263; Beltrani, p. 272; Pisano 1930 e 1931; Pecchiai, Barberini, pp. 171-174, Visceglia in Cérémonial.

[2] ASG, AS, 1986-1987, Ottaviano Raggi al Senato, 12, 19 e 25 novembre 1639. Sugli onori e sui favori resi a Odoardo durante la sua permanenza romana dal Papa e dai cardinali nepoti ritorna più volte Nicoletti, IX, cc. 16 sgg. (sul Nicoletti vedi Pastor, XIII, pp. 1045-1049). Cfr. Calandrini, p. 983.

[3] Non so quale credito si possa dare a quel che Vittorio Siri raccontava al nunzio Vitelli e che Vitelli, nel novembre del 1641, riferiva a Barberino e cioè «che quando il Duca di Parma venne a Roma il pensiero suo fu, oltre l’accomodamento de suoi interessi, di procurare il Cappello per il fratello e di aparentarsi con l’Eccellentissima Casa di Vostra Eminenza con intentione particolarmente così di acquistarsi Sua Santità contro il Duca di Modena suo cognato, all’hora stimato suo nemico, et per vendicarsi delle ingiurie ricevute mentr’era in Francia; ma che havendo conferito con il Gran Duca il pensiero dell’accasamento solamente fu da lui dissuaso et che poi nel ritorno per impegnare il Duca di Modena gli haveva detto che Sua Santità in discorso seco era uscito che la Chiesa haveva maggior ragione sopra Modena e Reggio che non haveva sopra Ferrara e che un giorno li sarebbero stati visti li conti; ma che hora era tornato amorevole di Modena et nemico del Gran Duca, del quale diceva ch’era stato la sua rovina per haverlo disuaso dal parentado, donde gli venivano hora tanti mali et che poi l’haveva abbandonato nel bisogno» (BAV, Barb.lat. 7719, c. 37r). Sempre da Vittorio Siri Vitelli aveva saputo che «Cutre [Coudray] dice che il Duca gli ha raccontato, la cagione de presenti disgusti essere principiata sin dal tempo che prese moglie il Signor Principe Prefetto per causa de trattati di parentado con la sua Casa, a quali lui s’oppose, et ultimamente per le ultime cose di Roma» (BAV, Barb.lat. 7720, 21v, 21 settembre 1641). Su Siri vedi Affò V, pp. 205 sgg. e VII, pp. 797 sgg, Flammermont, specialmente pp. 397-400, Morandi e, sul suo ruolo di informatore, l'appendice Guerre di scrittura.

[4] Era la voce raccolta da Ottaviano Raggi fin dal 23 settembre. Quella della promozione di Francesco Maria era questione antica. Ritorna più volte in Testi (per es. 741, 3 giugno 1634, e soprattutto 1231, 30 agosto 1637, dove si parla dell’ostilità di Odoardo per Urbano e della sua intenzione di non sollecitare la grazia che al suo successore) interessato ad analoga pratica per Obizo d’Este. Credo che sia degli ultimi anni Trenta (e forse di Celio Bichi) la nota in BAV, Barb.lat. 7372, cc. 89-90, Se sia bene promuovere al cardinalato il Prencipe Francesco Maria fratello del Signor Duca di Parma: tra gli argomenti a favore c’era l’opportunità per i Barberini, che contavano in Italia «pochi amici potenti», di stringere un’alleanza con una casata prestigiosa come i Farnese e la certezza che Francesco Maria non si sarebbe mai venduto agli Spagnoli e neppure ai Medici, perché, si legge, «se bene il Duca è parente et amico loro, non ha spiriti subalterni ad essi»;  tra gli argomenti in contrario non c’era di serio che la scarsa cultura del Principe, a cui per altro, si osservava, non sarebbe stato impossibile, col tempo, mettere qualche riparo. Anche il banchiere Alessandro Siri ebbe a occuparsi della promozione di Francesco Maria come pegno di alleanza tra Barberini e Farnese. Nel luglio del 1639 fu il Cardinale Bagni a parlarne con lo stesso Pontefice e col Cardinale Francesco che accolsero favorevolmente l’idea. Su suggerimento di Bagni l’agente del Duca, Alfonso Carandini, passò a trattare la questione con mons. Celio Bichi, che era il più stretto collaboratore di Francesco (ASP, CFE, Roma 421, Carandini a Gaufrido, 23 luglio 1639; su Celio Bichi vedi la voce di Piero Craveri in DBI). La pratica era dunque matura quando Odoardo giunse a Caprarola. Odoardo restava tuttavia assai diffidente e, non contentandosi di semplici promesse, pare che avesse chiesto a Urbano VIII di procedere senz’altro alla promozione ed anzi (a detta di Raffaele Della Torre, che ritengo in proposito bene informato e di cui utilizzerò ripetutamente le Historie) aveva subordinato ad essa la prevista visita di cortesia ad Anna Colonna, moglie di Taddeo (Della Torre, Historie, II, pp. 481-483. Su Raffaele Della Torre vedi R. Savelli in DBI; sulle sue Historie Costantini 1992, ma soprattutto Marinelli 1995). Non troppo diversa è la versione fornita da Siri, Mercurio, I, 1644 pp. 473 sgg, 481 sgg. e Calandrini, pp. 984-988: i Cardinali Barberini, Bichi e Bagni avevano dato ampie assicurazioni a Odoardo circa la promozione di Francesco Maria, ma nessuno dei tre aveva voluto impegnare la propria parola su una decisione che in definitiva spettava solo al Papa. Questo era parso sufficiente motivo di rottura a Odoardo che aveva, non senza scandalo, rinunciato alla prevista visita ad Anna e abbandonato precipitosamente Roma. Nicoletti (che si basa su una relazione dello stesso Francesco conservata in BAV, Barb.lat. 4729 cc. 122-136; l’episodio a c. 123v) nega però che della promozione di Francesco Maria si fosse parlato durante la permanenza di Odoardo a Roma, salvo un accenno del tutto informale fatto durante una gita in carrozza dal Cardinal Barberini e lasciato cadere dallo stesso Odoardo, il quale,  insinua Nicoletti, avrebbe forse preferito riservare la nomina al figlio (Nicoletti, IX, cc. 24-25). Secondo la più attendibile Relazione del seguito ecc. (incipit: “Il Duca di Parma per causa d’un certo patto...”) alla conversazione in carrozza avrebbe partecipato Antonio e non Francesco Barberini e il Duca, all’accenno fatto da Antonio al cardinalato di Francesco Maria, avrebbe risposto, non senza brutalità: «Mio fratello non ha più che 20 anni et attende a studiare, si che né a lui né a me deve importar molto che Papa Urbano lo facci oggi Cardinale o un altro Papa di qua a 6 mesi perché a dirla qui fra noi, come Vostra Eminenza sa, si declina né può viver lungamente».

[5] Per le insistenze francesi (tramite il Cardinale Bichi e Giulio Mazzarino) vedi i dispacci dell’ambasciatore veneto a Roma, Giovanni Nani, padre di Battista, del novembre 1639 (ASVe, DAS, Roma 115, disp. 101-105) e naturalmente, dal maggio del 1640, quelli di Angelo Contarini inviato a Roma appositamente per negoziare la lega con il Pontefice (ASVe, DAS, Roma 116); cfr. la relazione Nani del luglio 1640 in Barozzi Berchet, Roma e il racconto di Nani, VIII, pp. 637-644. Sull’andamento delle trattative sono di notevole interesse le note che Vittorio Siri, che teneva i contatti tra il nunzio e l’ambasciatore di Francia a Venezia, faceva pervenire al Duca di Parma (ASP, CFE, Venezia 517, 4, 11, 19 e 25 agosto 1640, parzialmente pubblicate in Ronchini); ma vedi la ricostruzione in Siri, Memorie, VIII, pp. 880 sgg. Siri aveva partecipato dalla parte del Papa e della Francia alle polemiche suscitate dal progetto di lega (su cui vedi Morandi, p. 101) prima con Il politico soldato monferrino, a cui era stato opposto dagli avversari L’istorico politico indifferente, e poi con le Osservazioni sopra l’istorico politico indifferente e con Lo scudo e l’asta del soldato monferrino impugnati alla difesa del suo sistema politico contro l’istorico politico indifferente, scritto e stampato (a Venezia, ma con la data di Cifalù: Parenti, Pezzana) in pochi giorni nel gennaio del 1641.

[6] La progettata lega, come sempre, era per la libertà d’Italia, ma questa volta aveva un deciso significato antispagnolo: «Due rispetti devono considerarsi in Spagnoli», aveva detto Urbano a Contarini, «il potere et la volontà; questa è pessima, non è dubio; quello non così grande quanto vien milantato». Riferendosi ai recenti rovesci degli Spagnoli in Piemonte, se ne era attribuito almeno in parte il merito: «Per la mortificatione de’ Spagnoli nel tentativo sotto Casale pregai nelli miei sacrifici il Signor Dio et da Dio medesimo posso dire d’haver havuta la precognitione di questo lor male». Gli altri Barberini coloravano diversamente il progetto. Se Sant’Onofrio si atteneva alla linea ufficiale della neutralità della Chiesa e dell’indipendenza dell’Italia («non doversi l’Italia lasciar soggiogare dalla potenza francese né dalla spagnola»), l’altro Antonio era notoriamente di parte francese: «Signor Ambasciatore», aveva detto a Contarini, «facciamo di gratia questa lega e quanto prima, perché non v’è altra teriaca contro il veleno de’ Spagnoli». E aveva aggiunto: «Il Cardinale mio fratello ha li stessi fini, ma è un poco troppo sottile et questo sarà il maggior ostacolo» (ASVe, DAS, Roma 115, cc.13-14, 33). Ai negoziati per la lega accenna più volte nei dispacci al Senato di Genova Ottaviano Raggi, per es. nel novembre del ‘39 e poi nel marzo e nell’aprile del ‘40 (ASG, AS, 1986-1987); il 14 luglio 1640 dava conto dell’irritazione spagnola e dello scontro verbale che l’ambasciatore di Spagna aveva avuto col Papa a questo proposito (ivi, 2352). Il progetto, come è noto, abortì. Nel maggio del 1642 Urbano, «a proposito della difesa d’Italia», ebbe a dire all’ambasciatore di Genova, Agostino Centurione, che i Veneziani si erano mostrati «troppo propietarii» e che «essendosi mottivato di lega, harebbero voluto che il Papa havesse speso et armato a beneficio loro senza essi discomodarsi né far niente» (ASG, AS, 2353, 1° giugno 1642). In effetti Venezia prima di impegnarsi in una alleanza voleva che il Papa armasse, laddove il Papa prima di armare voleva esser garantito da un’alleanza formale con Venezia (Nani, VIII, p. 640; Barozzi Berchet, Roma, p. 21). Il che non significa che Urbano non si preparasse alla guerra: al contrario, è da questo momento, credo, che cominciò nello Stato Pontificio il reperimento delle risorse finanziarie poi utilizzate nella guerra di Castro, sia mediante la riduzione dei Monti delle Cancellerie, di S. Bonaventura e della Fede e del Monte Novennale, sia mediante la progettata imposizione di nuove tasse, contro le quali, scriveva Contarini, tutti «altamente reclamano et quelli in particolare che, havendo la maggior parte delle sostanze loro sopra li monti predetti, hanno perciò rissentito notabilissimo pregiudicio» (ASVe, DAS, Roma 115, cc.54r. Brunelli, pp. 38-39, parla per la prima metà del Seicento e in particolare per gli anni di Urbano VIII di «crescente attenzione […] verso le materie militari» e di «costante propensione all’armamento dello Stato». Cfr. Da Mosto, pp. 210-211). Esitazioni e riserve venivano semmai da Venezia, come riconosceva nella sua relazione Giovanni Nani, che alle profferte di Urbano espresse «in termini chiari» aveva ritenuto, «secondando la pubblica soddisfatione», di dover rispondere «con offitii generali, che si crederono all’hora più conferenti» (Barozzi Berchet, Roma, p. 16). Quando poi si giunse a discutere dei limiti e dei contenuti effettivi dell’alleanza le trattative si arenarono su una questione per la verità di non poco conto: «com’intendevano i Venetiani che nel caso della difesa si comprendesse tutto il temporale Dominio che possedeva la Chiesa, così da ministri del Pontefice si pretese d’abbracciare i feudi che rilevano dalla stessa». Venezia, in sostanza, protestava di non voler essere coinvolta in beghe che potessero riguardare i feudi della Chiesa, come il Regno di Napoli o i Ducati di Parma e Piacenza. Roma, invece, voleva che i suoi stati mediati fossero compresi nella garanzia, perché «altrimenti», si legge in un memoriale di Celio Bichi dell’estate del ‘40, «restarebbe il Papa senza assistenza per la diffesa del suo possesso nelli stati mediati e feudali e potendosi dar caso che mentre egli solo facesse per detta causa la guerra al feudatario, questo o suoi adherenti invadessero li stati immediati della Santa Sede, de’ quali parimenti la Republica non havesse promessa in tal caso la diffesa, verrebbe il Papa ad esser pregiudicato ne gl’uni et altri stati, senza ricever alcun aiuto dal confederato». Un caso, per la verità, molto simile a quello che si sarebbe verificato con la guerra di Castro. «Non si deve pertanto differire», continuava Bichi, «ponendo questa ingenua espressione di quello che non si ricusa effettivamente di diffendere et con una pronta conclusione mostrare che non manca l’antico spirito italiano» (ASVe, DAS, Roma 116, cc. 316-320, Ragioni portate da mons. Bichi in nome del Sig. card. Barberino sopra il capitolo de’ feudi). Ma dopo Casale, con l’allontanarsi della minaccia spagnola, a cui la Lega avrebbe dovuto far fronte, Venezia era sempre meno interessata a concludere e, a detta di  Siri, Memorie, VIII, pp. 881-882, il Papa lo era ancor meno: a dispetto di quel che poteva restare dell’antico spirito italiano, le trattative proseguirono tra i due governi solo (è sempre Vittorio Siri ad affermarlo) «per ciurmare li Francesi e dar loro herba trastulla». Che la reticenza veneziana nei confronti del Papa fosse giustificata sarebbe stato confermato, secondo Nani, dal successivo comportamento dei Barberini: «il tempo comprovò poco appresso che più tosto mirassero ad impegnare la Republica d’essere a parte o almeno di non sturbare i risentimenti che meditavano fin dall’hora contra il Duca di Parma» (Nani, VIII, 644; sulla storia di Battista Nani vedi Benzoni-Zanato, pp. 443-459 e 891-892).  Ma che i Barberini meditassero già, nel 1640, chissà quali azioni contro Parma non sembra affatto credibile. Il che non toglie che a Venezia la politica pontificia fosse giudicata poco affidabile proprio perché condizionata dai privati e variabili interessi di Casa Barberini. A proposito dei quali il Cardinale Barberini ebbe a dire «accorgersi bene che la Serenissima Republica non ne vuol far altro [della Lega], ché ne ha dubitato sin da principio, ma in ogni modo sarà sempre certo il mondo che se bene la Casa Barberina è minacciata et ogni Prencipe la vuol inghiottire, non però col fine della preservatione d’essa s’è procurata mai questa lega, ma coll’oggetto puro del bene di Christianità» (ASVe, DAS, Roma 116, c. 117, 30 giugno 1640). È interessante in questa dichiarazione osservare come, ben prima che la questione di Castro precipitasse in guerra aperta, la Casa Barberini avvertisse sul collo il fiato dei Principi.

[7] Delle preoccupazioni spagnole per la presenza di Odoardo a Roma Giovanni Nani aveva scritto al suo governo sin dal 24 settembre 1639 (ASVe, DAS, Roma 115, c. 3). Ottaviano Raggi ne parlava ancora il 7 gennaio 1640: Odoardo, scriveva, si tratteneva a Roma «non senza gran gelosia de’ Spagnuoli per il negotiare che giornalmente fa l’Altezza Sua con Sua Beatitudine».

[8] Vedi ad es. in ASVe, DAS, Roma 115, disp. 103 del 12 novembre e 110 del 26 novembre 1639.

[9] Della Torre, Historie, II, p. 481. All’ambasciatore veneto, Giovanni Nani, lo stesso residente del Farnese a Roma, Alfonso Carandini, aveva assicurato che il Duca era venuto «per gli affari suoi domestici e per incontrar li suoi conti con li Siri mercanti, che presero in affitto gli stati suoi di Castro». Una conferma in tal senso era giunta al Nani da Firenze dove si diceva che con i Siri vi fosse un «certo equivoco di 50.000 scudi»: ASVe, DAS, Roma, 115, disp. 78 del 24 settembre 1639. Da tempo i Siri avevano espresso agli agenti del Duca la loro insoddisfazione e sollecitato una revisione o piuttosto una più equa interpretazione del contratto che li legava al Farnese. «Si è usata fin qui dal Signor Giunta et da me con li Signori Siri ogni possibile destrezza et dolcezza non reputandosi servitio di S.A. venire a rottura et tanto si farà anco nell’avvenire secondo che S.A. comanda. Dio faccia che basti, poi che non si può venire con essi loro ad aggiustamento alcuno stando essi sopra i generali et dove occorre alcun caso particolare et si dice loro quello che pare porti la convenienza et il giusto conforme alli capitoli, non se ne può havere risposta»: ASP, CFE, Roma 421, Carandini a Gaufrido, 29 giugno 1639. Ma cfr. ivi i dispacci di Carandini del 2 e soprattutto del 26 luglio: i Siri lamentavano a loro volta l’atteggiamento elusivo del Duca, e cioè il silenzio opposto alle loro istanze, la renitenza dei ministri del Duca ai loro ordini, l’inosservanza dei capitoli dell’affitto e la mancata consegna «de’ corpi et effetti» del ducato di Castro; i Siri chiedevano soprattutto «che si faccia stampare l’instrumento dell’affitto et si mandi loro una patente che non habbia da servire per apparenza, ma dia loro auttorità solita concedersi in simili negotii».

[10] Vittorino Siri (che, per quanto ne so e a dispetto dell’ipotesi a suo tempo formulata da Affò, V, p. 205, non aveva nulla a che fare con gli omonimi banchieri) riassumeva così la questione nel Mercurio: i Siri «per essere avviliti di prezzo nella dovitiosa messe i grani, in cui consistono le rendite principali di quello Stato insistevano per lo diffalco d’alcune decine di migliaia di scudi. Renitente a questa loro sodisfattione il Duca, vacillavano quelli nello sborso dell’affitto e nella perseveranza di quella locatione, coprendo questo cangio col manto dell’inosservanza dal canto del Duca di Parma di molti capitoli spettanti alle consegne». Il Duca a Caprarola, continua Siri, poté risolvere ogni cosa e «superò anche con la sua presenza la difficoltà che vi frapponeva l’un de’ fratelli di stimarsi prosciolto dall’osservanza del primo istromento, con fare riobbligare amendue con nuova scrittura; in concambio della cui sodisfattione fu posto a conto certa somma di denaro dovuta a’ Siri dal Duca» (Siri, Mercurio, I, 1644, p. 481). Vittorio Siri è ripreso quasi alla lettera da Calandrini, pp. 966-969 (ed entrambi ripropongono, arricchendola di particolari, la versione dei fatti offerta da “Fu stabilito l’affitto...”). In verità, nulla per il momento fu veramente risolto e le parti, con l’arbitrato di mons. Pirovano, Decano della Camera, giunsero solo nel febbraio del 1640 a un “concerto” (vedi il testo in ASP, CFE, Roma 422) che a sua volta divenne subito materia di contestazione (cfr. ivi i dispacci di Alberto Giunti del 22 febbraio, del 14 e 28 marzo 1640).

[11] I vecchi monti Farnese erano il Monte del Piano della Badia, eretto nel 1600 con un capitale di 200.000 scudi al tasso del 5% e il Monte Farnese, eretto nel 1605, con un capitale di 715.000 scudi al tasso del 5,5 per cento. Cfr. Nicoletti, IX, cc. 15v, 19v e, per la versione dei Farnese, Siri, Mercurio, I, 1644, pp. 490 sgg. e, più ampiamente, Calandrini, pp. 1133-1141; vedi anche Rinalducci, 55-73. L’operazione importava per il Farnese, a detta dell’ambasciatore Nani, un risparmio di duecento mila scudi (ASVe, DAS, Roma 115, disp. 110 del 26 novembre 1639); Nani (VIII, p. 678) parla di «non isprezzabile somma». L’autorizzazione dell’operazione fu la condizione posta da Odoardo per il suo ingresso a Roma, a cui sembra che recalcitrasse, nonostante le sollecitazioni del Cardinale Bagni, sostenitore di un’intesa tra le due Case, proprio per non impegnarsi troppo con i Barberini. Alla fine però, «accertato che i Barbarini l’havrebbero compiaciuto di tutto ciò che bramare poteva, disse che havrebbe ricevuto a favore, per caparra di ciò, la redutione dei Monti Farnesi, qual negotio prendendo sopra di sé il Cardinale Barbarino, gli inviò per ara della sua volontà la supplica segnata dalla prontezza di Sua Beatitudine molto amplamente» (Calandrini, pp. 974-976). Alla riduzione avevano fatto opposizione diversi montisti, tra cui i monaci Cassinesi, di cui era protettore il Cardinale Barberini, che pertanto fu sospettato di essere l’ispiratore della mossa. I montisti si autoconvocarono in assemblea ai Santi Apostoli, ma la riunione, con il pretesto di non esser stata debitamente autorizzata, fu vietata d’autorità all’ultimo momento dal Cardinale Antonio nella sua qualità di Camerlengo. Subito dopo si cominciò a preparare a Palazzo l’appartamento destinato a ospitare Odoardo. Perché il Papa potesse concedere a Odoardo la grazia della riduzione, non mancava che il parere di due teologi. Uno dei due non era tipo da dar problemi; l’altro, il gesuita Torquato de Cupis, fu convinto a dare parere favorevole da un intervento personale di mons. Bichi (ASP, CFE, Roma 421, Alberto Giunti a Odoardo, 5 e 10 ottobre 1639). Il de Cupis, per altro, doveva essere intimo di Antonio, se, come sosteneva Odoardo, aveva potuto riferire al Carandini «per parte di Sua Eminenza, che Sua Altezza gli dicesse pur francamente male di suo fratello, che gli farebbe piacere» (“Il Duca di Parma per causa d’un certo patto...”, c. 341r). È quasi inutile aggiungere che la riduzione dei monti Farnese non era davvero operazione da poco. Come avrebbe scritto Gigli, pp. 195-196, con essa «si aprì la strada a far il medesimo di tutti gli altri luoghi de monti che si havevano in Roma con la Camera Apostolica, onde in gran parte furno detti Monti ridutti et in gran parte estratti con gran guadagno della Camera et con grandissimo danno et lamenti d’infinite persone e luoghi pii, li quali persero le loro entrate et anche molto del capitale». Gigli fa qui riferimento, immagino, alla riduzione dei Monti delle Cancellerie, di S. Bonaventura e della Fede e del Monte Novennale.

[12] Della Torre, Historie, II, pp. 482-484; Lettera scritta, pp. 1-4. Cfr. Nicoletti, IX, c 15.

[13] Questa dichiarazione, «simile a quella che il Duca Ranuccio suo padre fece a Clemente Ottavo […] forse fu la principal cagione per la quale il Papa desiderò la venuta del Duca di Parma»: Nicoletti, IX, cc. 23-24. La versione del colloquio con il Papa data da Odoardo è in “Fu stabilito l’affitto...”, BUB, ms. 1069 (1706) c. 62 e in Calandrini, pp. 995-1001: a detta di Odoardo, Urbano «non sapeva cosa alcuna di ciò che era passato col Duca et i nepoti» e «se ne accorò di maniera che non poté contenere le lagrime». Una testimoninza ricca di particolari anche minuti in “Il Duca di Parma per causa d’un certo patto...” cc. 341v-344v.

[14] ASVe, DAS, Roma 115, c. 351, 28 gennaio 1640. Vedi le risposte di Barberino alle accuse del Duca nel disp. 144 del 25 febbraio, c. 408r.

[15] ASVe, DAS, Roma 115, disp. 135, 28 gennaio 1640, c. 354r.

[16] ASVe, DAS, Roma 115, cc. 204v-205r, 26 novembre 1639. Vale la pena di sottolineare come l’elogio di Odoardo fatto da Francesco rispondesse perfettamente a quell’idea dell’indipendenza dell’Italia a cui sempre più chiaramente si ispirava la politica di Urbano. Alle lodi di Francesco corrispondono quelle che lo stesso Pontefice espresse a diversi personaggi e per esempio al generale della Compagnia di Gesù, Vitelleschi. «Le testimonianze che attestò al mondo questo Pontefice delle doti di Odoardo», commentava Ippolito Calandrini (p. 983) con qualche arditezza teologica, «sono eterne, perché ogni parola de’ suoi pari non ha per fine il tempo, ma il Cielo».

[17] L’allocuzione rivolta da Odoardo ai Signori del Reggimento nell’ottobre del 1641 era tutta centrata sull’esistenza di «alcuni disgusti tra i frattelli Barberini et io» e sull’affetto che viceversa lo legava al Papa (Calandrini, pp. 1039-1041). Tra le iniziative prese da Odoardo per sottolineare il carattere personale del conflitto con Francesco ci fu il singolare divieto ai suoi agenti di trattare in qualsiasi forma e per qualsiasi ragione con lui. Poiché Francesco era la massima autorità in Curia il divieto impediva innanzi tutto che gli affari del Duca vi fossero negoziati, il che forse era proprio l’effetto voluto da Odoardo  nella speranza di celare ancora per un po’ dietro la maschera dell’intrattabilità la reale impossibilità in cui si trovava di pagare i debiti e di rispondere in giudizio (che era quello che sosteneva col governo di Venezia il nunzio Vitelli: «per sfuggire di essere chiamato haveva il duca rivocate le procure a tutti li suoi ministri»; BAV, Barb.lat. 7722, c19r, disp. Vitelli, 8 marzo 1642). Il divieto condusse, tra l’altro, al clamoroso licenziamento del Carandini, colpevole di aver incontrato in chiesa, probabilmente per caso, il Cardinale Barberini (vedi tra l’altro ASP, CFE, Roma 422, Gaufrido [a Giunti?], 27 luglio 1640 e la scrittura “Poiché devo servire...”, cc. 27r-28v, che sulla vicenda si sofferma alquanto. Per la versione del card. Barberini: ASM, CA, Roma 246, 27 novembre 1641). Carandini passò poi al servizio di Francesco e Calandrini (pp. 986, 1001-1002) insinua che fosse stato guadagnato alla causa dei Barberini ancor prima del licenziamento. Il Carandini non mancò però più tardi di ristabilire buoni rapporti con la Corte di Parma (vedi per es. ASP, CFE, Roma 424, fasc. 1646, specialmente la lettera di Carandini a Gaufrido, 4 aprile 1646), il che fa pensare che si fosse voluta ripetere in questa occasione la sceneggiata del 1635, quando Carandini aveva finto di opporsi all’alleanza del Duca con la Francia. Sul Carandini cfr. DBI (T. Ascari). Tra gli autori e i divulgatori della versione del conflitto come causato dall'avversione di Barberino per il Duca di Parma va annoverato Francesco Mantovani, agente di Modena a Roma: vedi in proposito i suoi dispacci in ASM (Borri ne riporta diversi estratti, per es. pp. 29-30: «non conviene mescolare l’autorità di Sua Beatitudine né la pubblica in quella rissa che tocca solamente Barberino...»). Mantovani ebbe un ruolo non secondario nel montare e alimentare la campagna contro Roma. Il Cardinale Cornaro  (BAV, Barb.lat. 7776) scriveva il 4 luglio 1643 che di lui giungevano a Venezia «avvisi pessimi e tanto nocivi e seditiosi che non possono essere peggiori». Il 18 dello stesso mese si compiaceva dell’arresto «dell’amico». «Sono però venuti questa settimana», aggiungeva, «li suoi fogli al solito infami». In effetti l'arresto non avvenne che il 21 luglio. Cfr Governo di Roma di mons. Vitelli, ASV, Fondo Bolognetti 85, cc. 9v-10r): «Era stato poco prima [dell'arrivo del nuovo Governatore], cioè alli XXI luglio carcerato Francesco Mantovano aggente del sig. Card. d’Estese [sic] per scritture malediche et avvisi che egli soleva scrivere fuori di Roma in pregiuditio della fama di Sua Beatitudine e con effetto gliene furono trovati li registri di maniera che poteva con giustitia venirsi contro di lui alla essecutione delle pene comminate nelle Bolle Pontificie e bandi del Governo, ma hebbe per bene mons. Governatore [G.B.Spada] già che era al fine di sì brigoso officio di lasciare al successore questo negotio, senza più insanguinarsi le mani e fu bene perché», nel corso dei negoziati di pace, e su richiesta di Bichi, «fu rilassato coll’esilio da tutto lo Stato Ecclesiastico». Scarcerato ed espulso lo fu solo, però, nell’aprile del 1644, a guerra finita, (vedi la comunicazione del Governatore Lomellini in Barb.lat. 8936, c. 16a, 5 aprile 1644). A Roma rientrò dopo la morte di Urbano, ma anche con il successore, Innocenzo X, ebbe dei guai. Nel settembre del 1648 Gigli annotava nei suoi diari l'arresto del «l’agente di Modena perché nelli avvisi che si scrivono e si mandano in volta haveva scritto che li ministri dell’Annona havevano fatto congregatione avanti alla Papessa...». Non era che una battuta maligna, ma, a parte la suscettibilità di Donna Olimpia, occorre ricordare che il padrone di Mantovani, il Cardinale d'Este, era nel frattempo passato all'opposizione, ossia al partito di Francia e dei Barberini, al servizio dei quali lo stesso Mantovani ebbe a compilare il Discorso sopra le cose dei Barberini, di cui tornerò a parlare.

[18] Della Torre, Historie, II, p. 484. Capriata, Historia, 1663, p. 2: «Uscirono di questi tempi varii scritti, publicati poscia alle stampe a questa materia pertinenti, tra quali fu uno d’incerto autore il quale prendendo a difendere le parti del Cardinale sforzavasi di segnare la vera cagione dello sdegno [del Duca] procedere da altri conti che dalla mancanza de gl’onorevoli trattenimenti: tra quali che [il Duca] tenesse col Pontefice pratiche di Leghe e di Confederationi contro il Regno di Napoli, che doveva essere dal Re di Francia assalito». Ameyden registrava nel maggio del ‘42 una risposta «assai buona» al Manifesto di Odoardo «in particolare sopra l’asserita nemicizia tra lui e Barberini dicendole che la colpa viene dal Duca» perché pur essendosi impegnato dopo il recupero di Piacenza a mantenersi neutrale, «non di meno fosse venuto a Roma per persuadere il Papa la lega con Francesi della quale egli pretendeva essere il capitano» (Ameyden, Diario, BCR 1831, c. 168v). Su questi e altri scritti vedi Ranghiasci e Moroni alla voce Castro e, in appendice, Guerre di scrittura. Sulle vicende del Capriata e della sua Historia vedi Neri 1875, 1876. Della progettata impresa contro il Regno di Napoli, che da anni ormai veniva periodicamente riproposta al Pontefice (vedi per es. Leman Urbain, pp. 509-511), si parlò in diverse occasioni (Nicoletti, IX, cc. 7-9, 28 sgg, 37-38) ed anche, nel settembre del 1642, mentre il Farnese stava avanzando nei domini pontifici, tra il card. Spada e Lionne (Valfrey, pp. 62 sgg.); cfr. Giandemaria,p. 12. Sull’Ameyden, che citerò più volte, vedi Ademollo, Gigli; Diari; Macinato; Questione; Ciampi, pp. 261-262; Pastor, XIII, pp. 1041-1044 e soprattutto Bastiaanse (in particolare, per il suo atteggiamento verso i Barberini negli ultimi anni del pontificato di Urbano, le pp. 151-156) su cui J. Bignami Odier, A proposito di un libro sull’Ameyden, in “Rivista di Storia della Chiesa”, 1969, a. XXIII, pp. 467-472.

[19] “Guerra Urbana” era chiamata la prima guerra di Castro dal filospagnolo Ameyden, Diario  (BAV, Barb.lat. 4819, c. 47r, 1650), che però non chiamava Panfilia la seconda. «Si tocca con mano», scriveva il 31 agosto 1641 Francesco Mantovani, «che questa è la guerra delle passioni private di Barberino. [...] Qua dunque sono infinite le mormorazioni e non possono rappresentarsi le esclamazioni che si fanno contro Barberino il quale per i suoi capricci vuol mettere in conquasso lo Stato Ecclesiastico e tutta Italia» (Borri, pp. 29-30). Nani (VIII, p. 678) non poteva che seguire la versione ufficiale che voleva Urbano inabilitato a governare e “i nipoti”, in primo luogo Francesco, padroni dello Stato Ecclesiastico («horamai Urbano sotto il peso de gli anni infiacchito di vigore e d’autorità...»). Così facendo, però, mostrava di ignorare quanto aveva scritto nel 1640 suo padre, Giovanni Nani, di Urbano: «Se mai è stato assoluto l’arbitrio del Papa, lo è ne’ tempi presenti, escluso ogni altro dalla partecipatione dei negotii, che tutti fanno capo al Pontefice per risolverli, al nipote per dirigerli et a qualche ministro per eseguirli». E a proposito di Francesco: «riservando a sé solo il posto più vicino alle orecchie di Sua Santità obliga gli altri a star ritirati et al solo parere di lui sottoponere le proprie opinioni [...]. Non si serve però né anco di quest’autorità, che gode solo, con quella libertà che per avventura complirebbe al ben pubblico et al suo proprio interesse, ma non osando respirare contro le risolutioni e li sensi del Papa, prende molte volte l’habito della costanza medesima di Sua Santità, essendosi in tal modo sottoposto al disgusto delle corone e d’altri Principi». E più avanti: «Alcun vorrebbe che se ne servisse con la libertà medesima con che la gode, che moderasse qualche dura risolutione, che risecasse le occasioni de’ disgusti [...]. A me pare d’haverlo conosciuto di buone intentioni, che capisce il servitio comune, che professa indipendenza dai Prencipi stranieri e particolar inclinatione a questa Repubblica [...]. Nel resto si scusa d’esser semplice ministro, di non poter né dover indurre il Papa contro la sua volontà, in molte cose haver poca autorità, in alcune non poter niente operare» (Barozzi Berchet, Roma, pp. 25 e 34). Alla testimonianza di Giovanni Nani si può affiancare quella di Raffaele Della Torre che nelle Historie ha tracciato un critico ma anche, da politico e uomo di Repubblica, ammirato ritratto del Cardinale Barberini. «Era Francesco per eccellenza chiamato il Cardinal Barberino e con adulazione della Corte Romana (non molto tempo addietro introdotta) il Cardinal Patrone». Colto, di buoni costumi, di una munificenza regale (che però non bastava a guadagnargli le simpatie della Corte), si era sempre dimostrato nelle sue funzioni «indefesso al negozio, incorrotto, inflessibile e zelante sopra ogni altra cosa terrena della dignità della Sede Apostolica e della riputazione di Papa Urbano suo zio». Di qui, secondo Della Torre avevano origine, assieme ai pregi, i difetti di Barberino: «Con questo zelo», scriveva, «giocava quasi del pari la gelosia che altro fuori di sé in cosa quantunque minima non si introducesse al maneggio de i publici affari», tanto che ne aveva sempre tenuti lontani il padre, lo zio Antonio cardinale, l’altro e più importante zio cardinale, Lorenzo Magalotti, confinato a Ferrara, i fratelli. «A questa gelosia ne accompagnava un’altra, di non esser veduto reggersi con il consiglio o autorità d’alcuno de suoi, per lo che, trascurati i consigli altrui, vacillava bene e spesso ne’ propri». Un difetto grave questa indecisione, secondo Della Torre, che combinandosi «con il lenocinio accostumato nella Corte Romana» gli suscitava contro il risentimento o il disprezzo di chi non riusciva ad ottenere da lui né le grazie desiderate né la certezza di non potervi aspirare (Della Torre, Historie, II, pp. 479-481). Sui limiti dell’autorità esercitata da Francesco come cardinal “padrone” cfr. la voce di Alberto Merola in DBI, a cui rimando per la bibliografia precedente; sul ruolo del Cardinal Nepote vedi Menniti Ippolito 1998,1999.

[20] Lo osservava, tra gli altri, Gigli, p. 231: «Et è da notare che questi quattro Potentati si sono collegati insieme et dicono che loro non fanno guerra contro la Chiesa ma contro li Barberini et è manifesto quanto  il Demonio l’inganna, perciò che loro primieramente vanno contro Papa Urbano […] et non travagliano  le città o castelli di Casa Barberina, ma le città di Santa Chiesa, anzi alli Barberini loro nemici fanno essi servitio e non danno, perché durante la guerra li Barberini hanno grosse provisioni come Capitani dell’essercito ecclesiastico et in vece di ricever danno, raddoppiano il peculio». La guerra ai preti era naturalmente molto popolare anche fuori d’Italia: «Monsieur le duc d’Anghien a dit que tous les Princes avoient obligation a V.A. pour avoir esté le premier qui s’est opposé aux violences des prestes et qui les a reduits à la raison par la force»: ASP, CFE, Francia 26, Villeré al Duca di Parma, 9 agosto 1644.

[21] Tra i primi ad accogliere in un’opera prestigiosa le tesi della propaganda antibarberiniana fu il redattore dell’appendice allo Spondano (II, 1003): «Aliquot annis ante obitum, iam aetate 76 annorum gravis [Urbano] commisit se et pontificium regimen nepotibus Francisco et Antonio Barberinis S.R.E. cardinalibus qui bellum in Italia excitarunt non praevidentes exitus, nec mala in sua capita tandem refundenda». Si era ancora a ridosso degli avvenimenti e sotto l’influenza di recenti polemiche: Francesco Barberini se ne lamentò con la Regina, chiedendo la punizione del responsabile (BAV, Barb. lat. 9895, c. 13, Roma 10 gennaio 1650). Un secolo più tardi, però, negli Annali, Muratori tornava ad attribuire la responsabilità della guerra all’«ansietà di sempre più in alto salire» dei Barberini: «Amoreggiavano i Barberini quello stato [Castro] e proposero di comperarlo o di prendere per moglie una figlia del duca Odoardo che lo portasse in dote [...]. Fu dissuaso a lui quel parentado, il che produsse non poche amarezze fra lui e i Barberini, i quali gli attraversarono ogni negozio e contrastarono anche gli onori dovuti alla sua dignità [...]. Non si può dire in che discredito restassero i nipoti del papa e quanta odiosità del pubblico si concitassero contro per questa briga da lor voluta che costò tanti danni [...] e fece consumar tanta copia d’oro tratta da Castello Sant’Angelo per soddisfare a i capricci di chi si abusava dell’autorità concessagli dal quasi decrepito zio. Ed è costante che il povero papa giacente in letto restava in troppe maniere ingannato da i nipoti e desiderò sempre la pace [...] laddove i nipoti altro non ambivano che guerra...» (Muratori, Annali, 1641, p. 444; 1644, pp. 466-467); il che è l’esatto contrario del vero. Secondo Galluzzi Urbano era «un vecchio barbogio mal guidato dalli ambiziosi nipoti» (p. 9, ma altri e anche più sommari giudizi a pp. 13, 18, 46). La mediocre compilazione del Carabelli, fondata principalmente su Annibali, su Muratori, Annali e su Siri, Mercurio, testimonianza, tra le tante, della singolare longevità dell’antica controversia, riprende la tesi tradizionale delle trame barberiniane ai danni del Farnese, ma nella sostanza difende l’operato di Urbano, della cui severità, scrive, Odoardo «per vero dire non avea tali e tanto forti ragioni da dolersene sì altamente e molto meno da imbizzarrirne, tanto più che alla fin fine avea a rispondere a’ creditori» (pp. 147-148). Che è, mi pare, conclusione di buon senso, premessa a una considerazione meno distratta di una vicenda da sempre sottovalutata. Come è noto Muratori ironizza ripetutamente negli Annali su questa «quasi comica guerra», che «nulla conteneva di grande, nulla di glorioso ne’ consigli, nella condotta e nelle azioni militari...» (Muratori, Annali, 1643, p. 462; 1644, p. 465). Assai più attento, pur nella consueta ripresa dei temi antibarberiniani, si dimostra nelle Antichità estensi, dove, tra l’altro, non manca di apprezzare le capacità di comando e il coraggio personale del Cardinale Antonio (Muratori, Antichità, pp. 544-552). Botta liquida la guerra di Castro come «matta discordia» e analoghe valutazioni ritornano in tempi più recenti, per es. in Luzzatto («la famosa quanto ridicola guerra»: pp. 11-12), Drei e Nasalli Rocca e poi ancora, per limitarci ai collaboratori di una stessa opera, la Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso, in Diaz, pp. 377-379, che parla di «guerricciola», di «avidità di papa Urbano VIII e dei suoi terribili nipoti», di «inutilità di questa piccola guerra», ecc., in Caracciolo, p. 439, che vede all’origine del conflitto «precise [?] rivalità di interessi che l’ambiente dei Barberini, fortemente impregnato di nepotismo e di appetiti di ingrandimento, maturava contro i più fortunati eredi di Paolo III», in Tocci, pp. 268-270, che riprende il tema dei Barberini «grandi avversari dei Farnese e delle loro fortune romane». Marini non parla affatto della vicenda. Cozzi 1992 pp. 117-118 la ricorda di sfuggita. A me è capitato di ignorare del tutto la crisi di Castro che pure, a parte gli effetti sul sistema italiano in generale, ha rappresentato un momento importante per la finanza genovese e (se non altro come occasione mancata) per quella Repubblica di Genova di cui stavo scrivendo la storia (Costantini 1978). Non molto meglio sono andate le cose (sempre, si capisce, limitatamente alla guerra di Castro e alla politica italiana di Urbano) con gli agguerritissimi studiosi tedeschi. Secondo Merz (Merz, p. 84: la traduzione italiana è del 1996, ma l’ed. tedesca è del 1992) all’origine del conflitto ci sarebbe il rifiuto del Farnese «d’inchinarsi alle esigenze dell’etichetta romana» (!) e soprattutto la volontà del Papa «di realizzare armi in pugno il sogno di un ducato dei Barberini a Parma». Di questo sogno non ho mai trovato traccia e, specialmente in chiusura di pontificato, un simile progetto appare del tutto improbabile anche solo come sogno. Völkel 1992 (p. 330) come oggetto delle voglie di Urbano parla, più prudentemente, di Castro e non di Parma, ma aggiunge che le accuse ai Barberini, così ridimensionate, «non erano del tutto prive di fondamento». Quale fosse questo fondamento non so e forse sarebbe ora, dopo tre secoli e mezzo, che chi lo sa lo dica. In gioco non ci sono le virtù o i vizi del clan dei Barberini, di cui credo che ci si possa e ci si debba infischiare, ma il senso di una politica che non mi pare lecito liquidare con qualche pasquinata. Di recente Georg Lutz nel biografare Urbano VIII ha dedicato alla guerra di Castro la dovuta attenzione (Lutz 2000, pp. 312-313, 321), senza però abbandonare la tesi tradizionale dell’«inutile» guerra provocata dai Barberini «per futili motivi» (Lutz 1998, p. 437). Eppure la stessa rappresentazione che Lutz fa della «disattenzione» romana, in questi anni, per le cose della Germania parrebbe suggerire soluzioni diverse. Per esempio, se quell’“inutile” guerra in Italia fosse servita soltanto a risparmiare alla sede apostolica un’altra crociata in Germania, questa sì davvero inutile, non dovremmo vedervi una manifestazione di singolare accortezza politica? I milioni spesi da Urbano non per assicurare Castro ai nipoti, ma per difendere lo Stato Ecclesiastico e il suo ruolo nel sistema degli Stati italiani, a cui in definitiva si affidava quel po’ di autonomia che l’Italia nel suo insieme poteva ancora vantare nei confronti delle grandi potenze, non sarebbero stati certo meglio impiegati se fossero serviti a finanziare qualche nuovo stupido massacro di protestanti in Germania (Costantini 1990). Ma - che altro dire? - la tesi tradizionale che, ripigliando la propaganda di guerra dei Principi della Lega, vuole a tutti i costi attribuire la responsabilità dell'“inutile” conflitto alle “mire dei Barberini” (su Castro, su Parma, sulla Toscana e chi più ne ha, più ne metta) sembra non tollerare né smentite, né correzioni: vedila ripetuta ancora di recente nel bel libro di Carla Sodini, L'Ercole tirreno, pp. 86 sgg.

[22] Trovo queste tesi espresse con notevole chiarezza nello scritto che comincia: “È più chiaro della luce del sole…”, di cui faccio cenno nell’appendice Guerre di scrittura.

[23] De Castro, p. 216 (Turchi non è, per quello che qui interessa, di grande utilità). Cfr. Siri, Mercurio, II, 1647, p. 1345. Vedi anche B.Spada (BAV, Barb.lat. 4649, c. 32r): con la rovina dei Barberini, scriveva Spada nella sua storia del Conclave del 1644, i Principi intendevano fare «attenti per l’avvenire i Nepoti de Papi dal non prender mai più contro persone più potenti arme e pensieri di guerra». Cfr “Niuna cosa è più importante…”: il Granduca, vi si legge, ha voluto mortificare i Barberini «accioche fossi in esempio de gl’altri nepoti di Papa viventi...» (BAV, Barb.lat. 4681, c. 257r; lo ripete a c. 264r).

[24] Sulla guerra di Castro vedi oltre le opere generali (tra cui Drei, pp. 206-213) e il già citato Borri, Grottanelli e Demaria. Sulla distruzione di Castro Rinalducci, pp. 1013 sgg; Demaria pp. 250 sgg; Ciampi pp. 66 sgg; BAB, A. 358. c. 90 sgg, Relazione dello spiano di Castro e cagione della sudetta caduta successa nel Pontificato di Papa Innocenzo X Panfili. Che la ragione della guerra fatta al Papa non fosse Castro, scriveva Alberto Morone al Nunzio in Spagna, mons. Panciroli, nel maggio 1643, «da tutti è dato per indubitato»; la verità era che «ciascheduno de Collegati pretende una parte dello Stato della Chiesa» (Morone, c.20v). Se la guerra segnò in Europa un netto declino del già traballante prestigio del Papato, in Italia mise fine una volta per tutte ai ricorrenti progetti di leghe e confederazioni (sui quali vedi, oltre Morandi cit., Di Tocco, Panella  ecc.), attraverso i quali si era tentato di definire il sistema italiano come area di collaborazione spiccatamente nazionale e di almeno relativa autonomia rispetto alle due maggiori Corone. Col senno di poi gli storici hanno forse valutato con eccessivo scetticismo quei tentativi. Al tempo Fontenay (II, p. 309) non li giudicava affatto campati per aria ed anzi rilevava come, proprio negli anni della guerra di Castro, per le molte difficoltà degli Asburgo da un lato e della Francia dall’altro, la possibilità per i principi italiani, se solo fossero stati uniti, di «recouvrer leur liberté et chasser les estrangers d’Italie» fosse stata a portata di mano; ma, aggiungeva, «cest article est une chose qu’on a plus de subjet de desirer qu’on n’a raison de l’attendre, tant ils sont aveugles pour leur propre bien».


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


*

HOME

*

quaderni.net

 
amministratore
Claudio Costantini
*
tecnico di gestione
Roberto Boca
*
consulenti
Oscar Itzcovich
Caterina Pozzo

*
quaderni.net@quaderni.net