Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

La guerra dei monsignori e il ruolo dei Genovesi

Sin dall’inizio all’ipotesi di un’azione vigorosa contro il Duca di Parma era associata la previsione di un considerevole sforzo finanziario e organizzativo. Si trattava di arruolare e di mantenere un esercito che, se pure si fosse evitata in extremis la guerra, potesse quanto meno intimidire il Duca. Occorreva dunque individuare le fonti dei necessari approvvigionamenti in uomini, armi e denaro in una situazione, per di più, che se non era di vero e proprio isolamento diplomatico non si segnalava certo per la disponibilità delle altri Corti, in Italia e fuori, a collaborare con il Papa. La commissione nominata allo scopo da Urbano nel febbraio del 1642 pensò più a tagliare le spese, sperando di coprire dietro armamenti da parata un reale ridimensionamento degli effettivi, che non a individuare risorse adeguate ad una guerra.
Solo la mossa d’armi di Odoardo nel settembre del 1642 indusse nella politica pontificia una correzione significativa, dalla guerra declamata alla guerra vera, che si manifestò nel dicembre del 1642 con l’attribuzione di un ruolo preminente nella conduzione delle operazioni sul fronte veneto-emiliano al Cardinale Antonio e al Valençay. Ma l’evento stesso che aveva imposto quella correzione la rendeva economicamente più onerosa per lo scetticismo che la fortunata impresa di Odoardo aveva suscitato negli ambienti finanziari circa le sorti ultime dei Barberini. Si può anzi dire che il solo risultato duraturo di quell’effimera vittoria fosse stato per Odoardo di far rincarare per la Camera Apostolica il costo del denaro.
Rispetto alle necessità di una guerra vera la vendita degli uffici, a cui si era fatto ricorso nel dicembre del 1641 in occasione della promozione cardinalizia e che si sarebbe ripetuta su ancor più vasta scala nel 1643, era un espediente di corto respiro.[1] Intaccare il tesoro di Castel Sant’Angelo, come pure si fece, rappresentava per definizione un rimedio estremo e cioè un atto politicamente assai gravoso. Risorse sufficienti a un serio riarmo non potevano trovarsi che nell’accensione di nuovi prestiti e nell’imposizione di nuovi tributi. Ma cercare denari sul mercato, che in buona sostanza voleva dire sulla piazza di Genova, non era facile.
Già all’inizio della crisi di Castro nell’autunno del 1641, si erano lamentate a Genova grosse difficoltà e il Farnese, che vi aveva inviato un suo rappresentante apposta per negoziare un grosso cambio, non ne aveva ricavato, a detta di Ottaviano Raggi, neppure un soldo.[2] Un anno più tardi la situazione non era migliorata. Lo confermava il Tesoriere G. B. Lomellini nel gennaio del 1643 in una relazione diretta ad Antonio Barberini, ma stesa per ordine di Francesco, forse nella speranza di frenare le insistenti richieste di denaro del fratello:

«Per obedir al commandamento del Signor Cardinale devo rappresentare sinceramente a Vostra Eminenza lo stato della Camera e le strettezze grandi che s’incontrano adesso per trovar denari, non lasciando haverli con partiti anche molto svantaggiosi le richieste continue che ne son fatte in Genova da Venetia, Fiorenza e dalla Republica medesima, che per le nuove spese ha bisogno essa ancora di metterne insieme somma considerabile, e la volontà uniforme di tutti quelli che hanno contanti di non volersene privare in questi tempi contentandosi volontieri di perder il frutto credendo in questo modo assicurar meglio il capitale. La spesa fatta dal principio sino a tutto questo mese sarà in circa un millione e novecento mila scudi in circa, de quali più di cento cinquanta mila restano ancora da pagarsi per mandati, tratte et ordini già firmati».[3]

La somma era stata messa insieme traendo dall’erario più di settecentomila scudi e ricorrendo per il resto al credito. In particolare un milione circa era stato ricavato da «diversi partiti de monti», dai quali però «essendone anche stati apontati per altri 500 mila, subito entrato il Duca di Parma nel Patrimonio non fu possibile di haverne pur un giulio».

«Vedute queste difficoltà», continuava il Tesoriere, «et essendoci ancora qualche assegnamento delle nuove impositioni con licenza havutane da Sua Beatitudine ho procurato di vender monti a 5 per cento essendo gli altri fatti sin hora a 4 1/2, de quali a Pallavicino e Siri [4] credo che restino ancora da venderne buona parte, di aggiongerne di quella sorte che sieno più desiderati, di prender denari in Genova a cambio a 5 per cento l’anno con dar in riguardo tanti luoghi di monti, di vender quelli di 4 1/2 a meno di scudi 100 l’uno contro il solito, e di far diversi partiti per altri tempi assai svantaggiosi, ma sin hora con poca conclusione, poiché se bene vengono qualche proposte, prima di conchiudere trovano tante difficoltà che io non posso prometterne sicurezza alcuna. Ma come ho accennato a Vostra Eminenza, non si sarebbe a questi termini se la uscita del Duca di Parma con le altre circonstanze delli mesi di settembre et ottobre passati non havesse fatto creder lecito di receder dalli partiti prima d’all’hora aggiustati. In questa angustia era sovvenuto che mancando altro assegnamento potrebbe valersi delli argenti de particolari di Roma e pagarne il prezzo con luoghi de monti, ma questo ancora ha le sue difficoltà non solo di gran strepito e poco frutto, ma, quel che più si dubita, di far credere alli forastieri che sono già finiti gl’altri rimedii, oltre che l’esser la spesa d’ogni mese così grande fa parer poco ogni soccorso di 200 o vero 300 mila scudi che per la sudetta o altra parte si possa conseguire».

Il Tesoriere concludeva indicando nel credito che si poteva ancora sperare di trovare in Genova la sola via d’uscita: «Piaccia al Signor Iddio che possano stringersi qualche partiti che si trattano di presente a Genova con molta premura da chi non ha maggior stimolo che di servire a Nostro Signore et alla Santa Sede». Qui Gio Battista Lomellini alludeva agli amici e ai clienti genovesi dei Barberini e ai suoi stessi parenti che si stavano mobilitando e che in effetti riuscirono, a dispetto delle perduranti “strettezze”, a trovare, anche se a condizioni onerose, i denari per la guerra.[5]
Che di denari se ne trovassero ancora non vuol dire che per la Camera Apostolica l’emergenza fosse finita. La guerra inghiottiva somme che Lorenzo Raggi valutava in almeno 300 mila scudi al mese, ma che in verità, per il disordine esistente nella contabilità militare, erano mal calcolabili. La riscossione di vecchi e nuovi tributi (senza il gettito dei quali, scriveva lo stesso Raggi, «è impossibile pagare i monti e da questo disordine nasce poi che perdendosi il credito la Camera non trovi denari») diventava più difficile, le somme faticosamente raccolte erano sempre insufficienti, i pagamenti ai fornitori e il soldo alle truppe sempre in ritardo, il numero effettivo dei soldati sempre inferiore alle paghe distribuite.

«I capitani esclamano et io so», scriveva il 30 maggio 1643 il segretario Gerolamo Bon al Senato di Venezia, «che alcuni di loro c’hanno prelati congiunti, per non guastar a questi la fortuna condescendono alle istanze che gli son fatte di andar giornalmente soccorrendo i propri soldati col denaro delle loro case».[6]

L’osservazione del Bon aiuta a capire alcuni caratteri dell’affannosa, disordinata e imponente insieme, mobilitazione papalina del 1643 [7] e le ragioni della massiccia partecipazione in essa dei Genovesi. Non tutti gli uomini di Curia erano uomini dei Barberini e tra gli uomini dei Barberini non tutti erano così fedeli e disinteressati come, sino alla morte di Urbano, si sforzarono di apparire. Ma i molti gesti di solidarietà verso i Barberini provenienti dalle parti più diverse attestavano un attaccamento all’autorità e al decoro della Santa Sede, che in quelle circostanze coincidevano, piacesse o no, con la causa dei Barberini, ben più esteso dei circoli, pur vasti, della clientela pontificia. È come se il grande agitarsi dei monsignori in Roma tra la creazione cardinalizia del dicembre 1641 e quella del luglio 1643 si fosse rapidamente propagato nel mondo che stava loro alle spalle, tra quelli che ne avevano sostenuto e finanziato la professione.
Il fatto è che la guerra aveva prodotto un’accelerazione improvvisa delle carriere prelatizie esaltandone il ruolo all’interno di strategie di avanzamento sociale familiari o di consorteria e suggerendo di sfruttare, anche a costo di impegnativi investimenti in uomini e denaro, la buona occasione che si presentava. Per tradizione i pontefici pagavano anche con promozioni o promesse i servizi di cui avevano bisogno e Urbano VIII, pressato dall’emergenza, era più che mai disposto a ottenere soldi e soldati in cambio di uffici e cioè in cambio di un potere che quasi sempre si ritrasformava rapidamente in soldi.
Da tempo le famiglie genovesi avevano cercato (e trovato) in Roma e nelle professioni curiali un sereno compenso ai declinanti affari e alle contrastate carriere di Spagna. Se in Genova i Barberini non incontrarono grosse difficoltà nel trovare i finanziamenti di cui avevano bisogno fu anche perché la piazza era diventata, per così dire, un pezzo di Curia, un suo territorio esterno, più o meno come lo era o lo era stata per la Corte di Spagna.
A proposito di un prestito di 500 mila scudi che si stava negoziando in Genova nella primavera del ‘43 per iniziativa e con la supervisione di Lorenzo Raggi, Girolamo Bon rilevava le reticenze degli investitori, comprensibili, data la confusa situazione politica e militare, ad accettare in garanzia i luoghi di monte offerti dalla Camera Apostolica e prevedeva l’esito negativo dell’affare: «Hanno ricusato l’assegnamento», scriveva, «e detto che abbraccieranno il partito quando sia loro cautelato da idonee sicurtà di persone particolari, che difficilmente si troveranno».[8] E invece si trovarono: che i negoziatori dall’una e dall’altra parte, e cioè, per dirla alla grossa, creditori e debitori, mutuanti e mutuatari, appartenessero alla stessa famiglia, alla stessa consorteria o alla stessa ragione di commercio facilitava le cose.[9]
Così, in un quadro dispendioso ma non incoerente, tutto finiva per tenersi: le improvvisate misure della finanza di guerra (vendita di uffici, erezione di monti a tassi sempre più elevati, prelievi dal tesoro di Castel Sant’Angelo e perfino sperperi e frodi preventivamente perdonati o condonati [10]) e la ricostituzione intorno ai Barberini e alla Chiesa, mediante un massiccio reclutamento di collaboratori e clienti, di una qualificata area di consenso, erosa, nell’estenuato finale di un pontificato troppo lungo, dall’attacco concentrico dei Principi.
Il successo dell’operazione era affidato a strutture familiari o faziose, come quelle attivate in Genova (ma non solo in Genova, naturalmente), che erano capaci di mobilitare cospicue risorse umane oltre che finanziarie e di tradurre in efficienza e potere qualsiasi personale vocazione si producesse al loro interno. In quelle strutture tutti i talenti erano utili perché tutti prima o poi spendibili in qualche modo. Per competere con successo a Roma l’ideale era un’equilibrata combinazione nella stessa formazione di prelati, banchieri e soldati. E magari di santi e letterati, giacché il denaro non era tutto, l’acquisto di un ufficio in Curia non era solo un buon affare e la Roma da conquistare era prima di tutto una città santa e letterata.[11]
Quanto alla guerra, tra le tante abilità richieste, il ruolo minore toccava, forse, proprio ai soldati, che infatti, almeno in questa di Castro, non fecero quasi mai bella figura ed anzi, quando, di rado, accadeva di dover menar le mani per davvero, lasciavano volentieri che se ne occupassero i preti.




paragrafo precedente * paragrafo successivo * inizio pagina


[1] La promozione del 13 luglio ‘43 fu ancor più scopertamente condizionata dai bisogni della Camera e dall’emergenza bellica di quanto non lo fosse stata quella del dicembre del ‘41. Per trovare i denari necessari alla guerra, scriveva Raffaele Della Torre, Urbano VIII «oltre l’imposizione di varie gravezze allo Stato Ecclesiastico, fatto haveva promozione numerosissima di cardinali per la quale ne raccolse non pochi dalla vendita degli uffizii vacanti. Una promozione», aggiungeva Della Torre, «non mai per aventura accaduta in altro tempo» e che Francesco Barberini aveva voluto numerosa anche perché in tempi di pontificato cadente i nuovi cardinali «gli accrescessero riputazione ne’ tempi presenti e forze nel conclave venturo» (Della Torre Historie, II, p. 836). Alcuni aspetti di questa promozione furono però criticati dallo stesso Francesco. Urbano, scriveva Francesco a Taddeo nel gennaio del ‘43, quando evidentemente era già a conoscenza dei nomi dei prescelti, aveva trascurato di promuovere, come era consuetudine, uditori di Rota, il che avrebbe suscitato malumori. (BAV, Barb.lat. 8816, c. 36). Gio Giacomo Panciroli, che aveva ricoperto quell’ufficio, non contava perché doveva la nomina alla nunziatura di Spagna. Pietro Ottoboni, il futuro Alessandro VIII, all’indomani della promozione confermava nelle sue annotazioni i timori di Francesco (BAV, Ott.lat. 1073, Memorie d’Alessandro VIII di suo proprio carattere, incipit: “Ego Petrus Otthobonus…”, c. XI). Perplessità esprimeva Francesco anche a proposito dei promossi: «a mons. Costaguta», scriveva ad esempio, «non pensai mai fusse per riuscir d’havere tal degnità, ma ben sì che potesse haver qualche cosa». Le benemerenze di Vincenzo Costaguta si riducevano in sostanza a un prestito senza interessi (ma da restituirsi «ad ogni suo piacere») di 33 mila scudi d’oro (quasi 50 mila di moneta) accordato alla Camera Apostolica nell’ottobre del ‘42 dal padre di Vincenzo, Prospero (ASR, CPr 162, Chirografi 1641-1645, 31, 15 ottobre 1642 per il prestito e 121, 30 aprile 1644 per la restituzione. Una vita del Cardinale Costaguta in BNR, FS, 405, 33; cfr. ivi, FVE, 487, 70; sue lettere in BAV, Barb.lat. 8705 [1643-1654] e, quale vice legato di Ferrara, 9040 [1643]. Sui Costaguta: Nicora, p. 295 e Pessa-Montagni). Tra i promossi c’era Gio Stefano Donghi, che nel 1638 aveva rilevato il chiericato di mons. Mattei e che nel dicembre 1642, come residente, aveva affiancato il Cardinale Antonio nelle legazioni. Gio Stefano era insomma uno dei principali collaboratori dei Barberini, come confermò poi la sua nomina a plenipotenziario nei negoziati di pace. Suo fratello Antonio compare più volte nella corrispondenza dei Barberini e nelle carte camerali degli anni della guerra come fornitore di armi e munizioni all’esercito pontificio (diversi pagamenti a suo favore tra il 1642 il 1644 in ASR, CPr 162, Depositeria generale, 1912-1916. Sulle ascrizioni dei Dongo alla nobiltà di Genova vedi Nicora, pp. 288-289, 293). Un altro grande protagonista della guerra, il francese Valençay, ottenne la porpora, in premio dei suoi servizi, nel dicembre del ‘43, in una sorta di appendice alla promozione di luglio, assieme allo spagnolo de Lugo. Nonostante l’ostentato equilibrio della nomina, Francia e Spagna non c’entravano affatto, essendo entrambi, prima d’ogni altra cosa (e il primo assai più del secondo) barberiniani di ferro. «Nel concistoro di lunedì», si legge in un avviso di Roma del 19 dicembre, «il Papa dichiarò cardinali il Balì di Valensé et il Padre Giovanni de Lugo sivigliano; il secondo venne in conseguenza del primo, perché facendosi un francese non parve bene in queste congionture di lasciar indietro la natione spagnuola e la sorte cadde sopra il sudetto Padre di cui come di soggetto letteratissimo son stati soliti di valersi a Palazzo. La sudetta promotione è stata opera del Cardinale Antonio» (ASG, AS, 2354). L’ultima affermazione era vera soprattutto per Valençay di cui Nicoletti (IX, cc. 252-253) ricorda lo speciale giuramento prestato nel gennaio 1644. Quanto a de Lugo, pur di parte spagnola, non smentì mai la sua fedeltà ai Barberini: «questa scrittura», scriveva a Taddeo  il 30 dicembre, ringraziandolo come capo della Casa della nomina, «voglio che sia un perpetuo testimonio contro di me se mancassi mai nella gratitudine et ossequio dovuto a tante gratie» (BAV, Barb.lat. 8727, c. 338). Sulla promozione vedi Nicoletti, IX, cc. 682 e 690 sgg. La nomina più contestata fu quella di Valençay, che seguiva quella, già abbastanza discussa, del suo amico Maculano. La scrittura che comincia “Gli avvenimenti strani e non pensati...”, cc. 57r e 61r ricordava che Maculano era stato onorato della porpora certo «non come teologo insigne, di cui il Sacro Collegio havea tanto bisogno, ma come ingegniero et intendente di fortificationi, mestiero proportionato all’imminente guerra di Parma» e giudicava Valençay «huomo puramente politico, ma politico alla francese, pieno d’impetuosa ambitione, di male arti e di temerità più tosto che di matura prudenza». A Roma pare che di Valençay si dicesse tra l’altro, sia pure a mo’ di battuta, «che Luigi Matthei doveva essere cardinale havendo fatta l’impresa di Castro con tanta sua gloria e non Valenzé per causa del quale si fe’ la perdita del Bondeno e della Stellata» (“Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 288r). A Madrid, ricorda Nicoletti, «i cavalieri di Malta spagnuoli che si trovavano in quella Corte ne mormorarono dicendo che Valenzé era un bizzarro soldato, ma che appena sapeva scrivere il suo nome. Ma Panziroli chiuse loro la bocca col rispondere che Lugo sapea theologia per sé e per il suo collega» (Nicoletti, IX, c. 682). In Francia la nomina di Valençay, che, considerato un personaggio «turbulent e brouillon» era stato allontanato dalla Corte, fu poco apprezzata (Coville, p. 7). Con Malatesta Albani, che nel giugno del 1644 si trovava a Parigi per trattare il passaggio dei Barberini al partito di Francia, Mazzarino aveva fatto mostra di rammaricarsi per la nomina a cardinale dello spagnolo de Lugo, «vidi però», riferiva l’Albani, «che più gli dispiaceva l’elettione di Valanzé» (BAV, Barb.lat. 8000, c.17r). «Era ben dovere che il sangue proprio e de’ nemici sparso da Vostra Eminenza in servitio della Santa Sede valesse a imporporarle l’habito»: così il Cardinale Spada, sempre in vena di argutezze, si congratulava con il Valencay della promozione (ASV, Fondo Spada 24, c. 139, 16 dicembre 1643).

[2] BAV, Barb.lat. 8942, c. 26r, Ottaviano Raggi a Francesco Barberini, 2 novembre 1641. Anche in altre lettere di quei mesi Ottaviano riferiva a Francesco di difficoltà finanziarie sulla piazza di Genova attribuibili principalmente alla generale instabilità politica dell’Europa e specialmente a quella seguita in Italia all’occupazione di Castro. Alla proposta di un interessante impiego di denaro a Bologna all’interesse del 5%, formulata nell’autunno del 1641 dal Cardinale Legato Stefano Durazzo ai suoi familiari in Genova, questi opponevano appunto considerazioni del genere: «ci retira [...] il principio delle guerre [...] l’aumento de debiti che anderà facendo [...] e gli inviluppi ove è di presente avvolto il mondo» (ADG, Lettere in partenza, 162, c. 137, 15 novembre 1641). Anche a Venezia «il trovar denari [...] era cosa difficile» (cfr. in ASP, CFE, Venezia 517, fasc. 1635-1641, i dispacci del conte Ferdinando Scotti del periodo ottobre-dicembre 1641, in particolare quello del 14 dicembre).

[3] BAV, Barb.lat. 8938, cc. 71-72, 14 gennaio 1643.

[4] Dei Siri ho parlato. Stefano Pallavicini, zecchiere pontificio, era uno dei grandi protagonisti della finanza romana («lo conosco per persona molto interessata», scriveva di lui a Francesco Barberini Ottaviano Raggi: BAV, Barb.lat. 8750, c. 15, 20 gennaio 1637). Lazzaro suo fratello, futuro cardinale, era diventato chierico della Camera nel luglio 1643, in occasione della promozione cardinalizia, insieme ad altri due genovesi, Lorenzo Imperiale e Giacomo Franzone. Fece parte della commissione presieduta dal Cardinale Federico Sforza per la revisione dei conti dei Barberini. La prestigiosa carriera dei due fratelli fu coronata dal matrimonio di Maria Camilla figlia di Stefano con G. B. Rospigliosi, nipote di Clemente IX. Nella conclusione dell’affare, di cui fu mediatore autorevole il marchese Giulio Spinola, ebbe gran parte anche Francesco Barberini. Il primo, annunciando al secondo il 14 ottobre 1669 l’esito felice dello «spinoso» negoziato, scriveva: «il Signor Stefano che riconosce Vostra Eminenza per suo padrone primario verrà in Roma e con l’autorità che dovrà avere sempre sopra di lui potrà l’Eminenza Vostra incaminar quelle cose che saranno di maggior profitto della casa Rospigliosi nella quale se vi sarà prole, come non metto dubio, han da entrare tutti i beni del Signor Stefano che ritroveranno in effetto maggiori della fama» (BAV, Barb.lat. 10039, c.240; cfr. a cc. 9-11 due biglietti di ringraziamento di Stefano Pallavicino allo stesso del 12 e del 14 ottobre). Costantini 1987, pp. 194 e 203, note 25 e 28.

[5] Le “strettezze” dei tempi sono ricordate anche nella dedica di Capriata, Historia 1649 a Carlo Emanuele Durazzo, generoso sovvenzionatore della Camera Apostolica. Schiaffino registrava nel novembre del ‘43 l’imbarco, in una sola spedizione, sulle galee della Repubblica di 800.000 scudi «e più» investiti da «particolari genovesi [...] ne’ nuovi redditi di Roma [...] per suplire a bisogni della guerra»: Schiaffino, 1642 n.77, 1643 n.50. È singolare che Lorenzo Raggi, scrivendone a Taddeo Barberini, parlasse di quegli 800 mila scudi come di qualche poco oro: «Attendo le galee da Genova [...] e fra due giorni spero che giungeranno. Con esse viene qualche poco oro che ho procacciato da Genova» (BAV, Barb.lat.8939, c. 59, 28 novembre 1643). I nuovi monti, osserva Nicoletti (IX, c. 685r), «per il lucro destarono molti negotianti a comperarli, come si suol fare, e particolarmente genovesi allettati dall’avidità e dalle larghezze e dalla puntualità de Camerali». Per le condizioni offerte ai partitanti, in prevalenza genovesi o operanti in Genova, vedi ASR, CPr 162, Chirografi 1641-1645. Basta un’occhiata ai contratti per la vendita dei luoghi di monte per farsi un’idea dell’ampiezza delle reti fiduciarie, di natura prevalentemente parentale o amicale, che avevano consentito di reclutare in Genova grandi e piccoli (e talvolta piccolissimi) sottoscrittori e di rastrellare ingenti capitali. Per gli anni 1642-1644 vedi ad es. ASR, NC, Rufino Plebano, nn. 1542-1547. Quanto alle difficoltà finanziarie e alla crescita dei tassi di interesse dei luoghi di monte provocate dalla guerra, anche peggiore di quella del Papa era la situazione degli avversari: il Granduca di Toscana, dopo aver fatto ricorso nel 1642 al “balzello”, un’imposta straordinaria che nel 1643 fruttò 108 mila scudi e nel 1644 110 mila, il 2 giugno 1643 eresse un nuovo monte vacabile di 350.000 scudi all’interesse del 9% («i moti d’arme a i nostri stati convicini a immense opere ci costringono...»): Diaz, pp. 383-388. Cfr. Sodini, pp. 90-92.

[6] ASVe, DAS, Roma, 120, cc. 155v-156r. Sembrava che nessuno fosse in grado di dire esattamente quanti erano gli uomini in servizio sotto le insegne pontificie. A questo proposito vale la pena di riportare con una certa larghezza il dispaccio del Bon del 30 maggio 1643 (ma informazioni di analogo tenore ricorrono in altri dispacci dello stesso mese, ivi, cc. 131, 133, 141). «Il Gambacorta», scriveva Bon, «disse a giorni passati all’Eminentissimo Bragadino che il Pontefice gli havea conferito di havere 30 mila fanti e 6 mila cavalli. Mons. Raggi Cherico di Camera, che cura di provedere il denaro per le paghe, disse a me domenica che questo numero veramente si pagava, ma che per le fraudi se ne poteva battere il terzo. Il Gambacorta pure, non allontanandosi da questo segno, disse all’Eminentissimo Bragadino che havendone voluto far qualche diligenza gli havea trovati in numero di 23 mila tra cavalleria, infanteria, militia e genti di leva. [Ma] le genti di leva scemano estremamente per le fraudi come ho predetto e quelle di militia per le fughe». Delle nuove levate non si conoscevano i risultati e, constatava Girolamo Bon, «non trovo alcuno che abbia accertata cognitione della quantità di quest’armi che sparse in tanti luoghi, contaminate da tante fraudi e confuse da queste nuove levate non lasciano che se ne possa formare alcun fondato giudizio». Anche la qualità della gente, soldati e ufficiali, appariva scadente. «La spesa, secondo il detto di mons. Raggi, ascende a 300 mila scudi al mese e si professa che il Pontefice ne habbia il fondo sicuro per tutto il mese di ottobre. Ad ogni modo tanto l’infanteria che la cavalleria è creditrice di tre paghe». Sul disordine contabile e le difficoltà della Camera vedi per esempio la lettera di Francesco a Taddeo Barberini del 28 marzo del 1643, BAV, Barb. lat. 8816, cc. 76-77 e l’altra, già citata, del 24 gennaio 1643. Anton Francesco Farsetti, che dal febbraio del ‘43 era, insieme a Prospero Pavia, Depositario Generale e Tesoriere segreto, il 12 gennaio del ‘44 doveva lamentare un’aggressione ad opera di alcuni soldati malcontenti: BAV, Barb. lat. 8942, c. 49. Altre violenze, questa volta di mercanti creditori della Camera, erano denunciate più o meno nello stesso torno di tempo dal Tesoriere Lorenzo Raggi (BAV, Barb. lat. 8939, c. 73). Nella corrispondenza di Lorenzo Raggi si trovano frequenti accenni alla scarsa attendibilità delle scritture dei computisti dell’esercito e alle inefficienze nell’amministrazione finanziaria. Nelle lettere di Rapaccioli a Francesco Barberini (BAV, Barb. lat. 8746) c’è però una notevole serie di osservazioni in difesa della gestione contabile della guerra. Sui costi complessivi della guerra circolarono naturalmente diverse stime (quella fatta circolare dal governo di Innocenzo X e generalmente accettata, ma che ritengo eccessiva, faceva ammontare le spese a più dodici milioni di scudi: vedi per es. la relazione al Senato di Venezia degli ambasciatori straordinari a Roma nel 1645 in Barozzi Berchet, Roma, p. 53). In BUB, ms. 880 (1321) III, cc. 130-131 c’è un calcolo delle Spese fatte in Roma per la guerra contro la Lega da 22 settembre 1642 per tutto luglio 1644 che non deve essere troppo lontano dalla realtà e che consente, se non altro, alcuni confronti indicativi. Per acquisti di armi e munizioni ne erano stati spesi in Roma 313.796 e a Genova 241.381. Tra le diverse piazze dello Stato Ecclesiastico «per denari mandati per quelle soldatesche» in testa alla graduatoria c’era Bologna con 1.824.630 scudi, seguita da Ferrara con 683.933, da Viterbo con 603.240 e da Perugia con 586.445: tutte le altre figurano con cifre molto inferiori. Le spese in totale ammontavano a 6.105.624 scudi (cifra accettata da Da Mosto, p. 480, che la trova in BAV, Ott. lat. 2435, cc. 256-257; una copia in BAV, Ott. lat. 2434, cc. 571-572). Nella copia in BUB, ms. 1069 (1706), cc. 166v-167v, uno dei due codici conservati in questa biblioteca che ritengo di Vittorio Siri; l’altro è il 1058 (1692), si legge: «Oltre di questi danari vi sono mo le spese particolari fatte da tutte le communità delle città e luoghi dello Stato Ecclesiastico ogn’una da per se per servitio proprio loro e della soldatesca per essere di frontiera o per causa di alloggi, passaggi et altro, oltre anco il danno patito per i rubbamenti fatti sì dall’inimico come dalli soldati amici, che per essere difficili da notare e sapere si lascia giudicare al lettore». In un calcolo allegato a “Non ha il discorso humano…”, una scrittura ispirata dai Barberini, che sicuramente erano ben documentati (cito dalla copia in ASM, SC, Roma 91), la spesa totale viene fatta ascendere a 7.500.587. Quanto alle entrate, il calcolo indica in 1.031.717 scudi la somma prelevata da Castel Sant’Angelo e in 6.297.893 il ricavato della vendita di luoghi di monte (e non 6.821.525 «come calcula la Camera supponendo che siano venduti tutti a ragione di scudi 100 per luogo») per un totale di 7.329.610 («e perciò resta il conto in avanzo la spesa in scudi 170976.83, che possano esser denari proprii di detti Signori Barberini, non essendo prodotte altre partite dalla Camera contro di loro»).

[7] Lo sforzo compiuto dal governo pontificio tra il 1643 e il 1644 è considerato da Brunelli (pp. 45, 54 n. 80, 55, n. 85) «il termine delle ambizioni militari dello Stato Pontificio», nel senso che tali ambizioni furono drasticamente ridimensionate dai successori di Urbano.

[8] ASVe, DAS, Roma, 120, cc. 155v-156r, disp. cit. del 30 maggio 1643.

[9] I massimi responsabili della Camera Apostolica erano parenti stretti o stretti sodali di quanti, tra il ‘42 e il ‘44, erano chiamati a raccogliere capitali in Genova per conto della stessa Camera. È il caso del Tesoriere Lomellino e dopo di lui e, più di lui, di Lorenzo Raggi. G.B. Lomellini era diventato Tesoriere nel dicembre del 1641 in occasione della nota promozione cardinalizia. Ammalatosi nel febbraio del ‘43 le sue funzioni furono assunte da mons. Rapaccioli che poi, nel marzo, alla morte del Lomellini, ne ereditò la carica. Chiamato però ad altri incarichi (era legato presso l’esercito) Rapaccioli lasciò le funzioni di Tesoriere ai mons. Raggi e Rondinini. Come protesoriere Lorenzo Raggi era stato specialmente deputato da Urbano VIII «per le vendite de’ monti e pagamenti per servitio della [...] Camera». Divenne Tesoriere nel luglio 1643, quando Rapaccioli fu promosso cardinale (ASR, CPr 162, Chirografi 1641-1645, 41-42, 48); quando, nel 1647, a sua volta fu fatto cardinale venne sostituito da un altro Lomellini, Gio Girolamo (cardinale nel 1652 e biografato in Gualdo Priorato 1659 e in BCB, m.r. V.2.5, raccolta di quindici biografie di membri della famiglia Lomellini).

[10] Una bella serie di chirografi liberatori a favore del maestro di campo Giovan Battista Raggi e di suo fratello Lorenzo, Tesoriere della Chiesa, in BCB, m.r. V.3. 17, cc. 97r, 105r-108r (si tratta di una raccolta di biografie di personaggi della famiglia Raggi); vedili anche in ASR, CPr 162, Chirografi, 60, 122, 125, ecc. Cito a caso: «vogliamo et ordiniamo che non siate mai per alcun tempo obligato a dar giustificazione de sodetti ordini dativi in voce, né render conto de pagamenti o tratte compite o rimesse fatte come sopra ancorché ascendino a qualsivoglia somma considerabilissima». «Dal tenore de’ sodetti chirografi», commentava il compilatore della raccolta della BCB, «chiaramente si comprende la confidenza che haveva Papa Urbano nella persona di Monsignore». Pare che oltre quelli riprodotti Lorenzo conservasse «quasi 50 altri» chirografi dello stesso genere. Vedi infine Capriata, Notizie che ripropone la dedica di Capriata Historia,1638 a Ottaviano Raggi e dove, a c. 24, si parla dei chirografi di Urbano che assolvono Lorenzo da ogni rendimento di conto. Questo ms. della BCR, affine a quello della BCB (si tratta sempre di una raccolta di note biografiche relative alla famiglia Raggi), è interessante soprattutto per alcuni insospettabili spunti antibarberiniani che affiorano qua e là nella biografia di Lorenzo.

[11] Sulle fortune (e sfortune) familiari legate alle carriere prelatizie siamo sempre meglio informati grazie a una bella serie di studi che si arricchisce continuamente di nuovi titoli. Ricordo innanzi tutto (in ordine di tempo) i lavori di Reinhard (1974, 1979 e 1991) e (per assonanza) di Reinhardt (1984, 1990, 1992) e poi (in ordine alfabetico) quelli di Ago 1990, Fosi, Menniti Ippolito (1993 e 1996), Visceglia (1995 e 1996), Völkel  (1987, 1990, 1993) senza dimenticare i molti benemeriti collaboratori del DBI, un’impresa che in questi decenni, più e meglio delle tante coeve chiacchiere metodologiche, ha contribuito ai progressi - esiste ancora questa parola? - della storiografia italiana. Quanto a Genova, Costantini 1991 non è che un appunto e Costantini 1996 una frettolosa anticipazione di una progettata appendice al presente lavoro: un buon punto di partenza è Montacutelli.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


*

HOME

*

quaderni.net

 
amministratore
Claudio Costantini
*
tecnico di gestione
Roberto Boca
*
consulenti
Oscar Itzcovich
Caterina Pozzo

*
quaderni.net@quaderni.net