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Micanzio e la resistenza all’usurpazione

Nell’intervenire in guerra a fianco del Duca di Parma il governo veneziano e i suoi alleati non potevano non prevedere che le censure già comminate contro quello sarebbero state estese anche a loro. In modo del tutto esplicito la minaccia di tale estensione era stata formulata nella seconda scomunica di Odoardo, quella del 23 giugno del ’43, provocata dalla sua entrata in armi nello Stato Ecclesiastico nel settembre del 1642. Sulle prospettive determinate da questa minaccia il governo aveva voluto il parere di Micanzio.
Ho già detto che Micanzio era uno dei pochi che nella guerra di Castro non ce l’avesse con i Barberini, ma con la Corte di Roma. Così, ad esempio, mentre quasi tutti gli altri, a cominciare da Odoardo, attaccavano i nipoti stando bene attenti a non coinvolgere, almeno pubblicamente, la persona di Urbano – e per far questo dovevano aggrapparsi alle più improbabili ipotesi circa la sua capacità di intendere e di volere: che fosse tenuto all’oscuro di tutto, che fosse vittima di chissà quali macchinazioni o più semplicemente che fosse rimbambito – Micanzio mirava direttamente al Papa senza neppure menzionare chi gli stava intorno. Vero è che i suoi consulti non erano destinati al pubblico, ma al governo e che pertanto erano poco o nulla condizionati dalle ragioni della propaganda (nel che forse consiste la differenza più vera, nel comune intento di sostenere le ragioni della Repubblica, tra il secco modo di argomentare di Micanzio e quello, faticoso e spesso imbarazzato, di Birago).
Quanto alla specifica materia del contendere, ossia alla questione di Castro e dei Monti Farnese, che era all’origine della guerra, Micanzio mostrava di curarsene poco o nulla, accettando a scatola chiusa e in modo un po’ strumentale le affermazioni del Duca. Fondamentale era invece per lui la questione dell’uso, da parte di Roma, delle armi spirituali in un conflitto che, senza ombra di dubbio, era tutto temporale. E più importante ancora era la necessità di affermare nella pienezza della sua estensione, contro le “usurpazioni” e gli “abusi” ecclesiastici, il principio di sovranità, non fondato su altro, in ultima analisi, che sulla forza.

«Il Pontefice pone per fondamento di tutta questa fabrica la causa de montisti, delle tratte e delle fortificationi di Castro, onde se in quella fu proceduto de facto con nullità et ingiustitia, come li difensori del Signor Duca tengono e quelli che sanno tutto il principio e progresso di questo negotio dimostrano, precipita tutto questo mostruoso edificio in rispetto del Signor Duca. Ma quanto agl’altri Principi hanno le loro ragioni più alte e più fondate et il fare miscuglio di cielo e terra, di spirituale e temporale è abuso di potestà, che non può pregiudicare a Principi soprani, la cui giurisdittione non ha altro superiore che la Divina, come il ius belli è superiore ad ogni legge humana».[1]

«Questa clausola» – quella, cioè, che prevedeva come legittimo motivo di scomunica l’aver preso le armi contro il Papa e la Chiesa – «stando nelle dottrine legali, non comprende li Principi» sicché, scriveva Micanzio, in termini di coscienza gli alleati del Farnese non avevano di che preoccuparsi. Ma, aggiungeva, riprendendo un argomento ricorrente nei suoi consulti e centrale nella sua contestazione del potere pontificio, «essendo il medesimo», e cioè il Papa, «che si fa giudice e parte e pretendendo che a lui aspetti far le dichiarationi che li piace, non si può indovinare se si contenerà nei termini della ragione». Era necessario, pertanto, «venendo l’occasione, usare li rimedii che tutti li Principi sono stati soliti di adoperare» in questi casi e cioè, in definitiva, la forza.[2]
Il Papa, naturalmente, non si contenne affatto: già il 26 giugno, tre giorni dopo la seconda scomunica di Odoardo, aveva ordinato l’istruzione nella Camera Apostolica di un processo a carico dei Principi della Lega “per haver hostilmente assaltato il Stato della Chiesa” e il 12 agosto venne pubblicato il relativo monitorio. Micanzio fu nuovamente chiamato a esprimere il suo parere.

«La Corte romana e li Pontefici […] si ha assonta senza fondamento di legge divina un’auttorità di procedere contro li Principi independenti e soprani come fossero loro sudditi, il che si vede in questo Breve che comanda che contro li Principi collegati proceda l’Auditore della Camera non solo colle pene spirituali et ecclesiastiche come sono la comminatione dell’interdetto, ma a pene corporali etiandio capitalissime, a privatione di qualunque dignità e confiscatione di tutti i beni. Usurpatione manifestissima perché se procede come Pontefice non ha giuriditione sopra il temporale, se come Principe molto meno poiché tanto sono soprani gl’altri Principi, per non dir qualche cosa di più, quanto il Pontefice delli stati che possiede […]. Li Principi potenti come Spagna o Francia contra ingiusti fulmini hanno usato il necessario remedio delle appellationi, ma la Serenissima Republica nelle occorrenze ha preso un’altra strada, approbata da tutti, che è la ressistenza con la forza».[3]

Sino a Gregorio VII – ricordava, a conferma della tesi dell’usurpazione, Micanzio – «erano passati quasi mille e cent’anni che li Pontefici non havevano pretesa questa potestà, sotto pretesa di spirituale, d’invadere il temporale de Principi col privarli di titoli, dignità e meno confiscatione de beni». Ma anche in seguito «li Pontefici non sono venuti a queste rissolutioni se non quando colle trattationi, colle ribellioni e con le congiuntioni con altri Principi hanno creduto di poter far il colpo, che però rarissime volte gli è successo se non con molto deboli». Era dunque da sperare che il Papa, questa volta, conscio della debolezza delle sue forze, non si sarebbe spinto con i Principi della Lega oltre le solite minacce. Ma «se capitasse questa fulminatione», concludeva, «all’hora sarebbe tempo di considerare il modo della giusta oppositione e difesa».[4] Ancora una volta, la ressistenza con la forza




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[1] ASVe, CI 47, 4 luglio 1643 (Barzazi, n. 748), foglio legato alla c. 49.

[2] ASVe, CI 47, 4 luglio 1643 (Barzazi n. 748), cc. 48v-49r.

[3] ASVe, CI 47, 28 agosto 1643 (Barzazi n. 756): per una inversione di carte, il brano inizia a c. 75v e termina a c. 74r. Micanzio ricordava tra l’altro che Paolo III aveva, sì, istruito il processo contro Enrico VIII, ma poi si era contentato «di questa minaccia» ed aveva «per 4 anni continui» tenuto la sentenza «come sospesa». E alla fine «non così tosto la fulminò che fu pentito d’haver rotta la prudente patienza e venuto all’atto della fulminazione, che cagionò poi la total alienatione di quel Re e di tutto il Regno dall’obedienza papale» (c. 75v).

[4] ASVe, CI 47, 28 agosto 1643 (Barzazi n. 756), c. 74v. «Credo che farebbe nausea ad ogni non appassionato», scriveva tra l’altro, «il considerare le clausole colle quali il Pontefice nel suo breve accusa o calunnia li Principi collegati […]. Ma queste sono già fatte cose solite e non apportano più maraviglia: in così acerbe invettive sono degenerate quelle humili rimostranze che con li Principi usavano li Pontefici santi, ciò cagionando la prosperità temporale, nemica sempre ne Ministri di Christo al Regno divino. Ma questo», concludeva, «è argomento d’altro tempo» (ivi; il brano citato inizia a c. 74v e prosegue a c. 76r).


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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