Ritorno in armi: 3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

Attendendo Arnauld

Nel concistoro di gennaio si era espresso a favore dei Barberini un gruppetto di cardinali: Rocci, Rondinini, Rapaccioli, Lugo, Colonna e Valençay.[1] Non era molto, ma era segno che in Curia e nello stesso collegio cardinalizio i Barberini conservavano degli amici. Gio Girolamo Lomellini, Governatore di Roma, e Lorenzo Raggi, Tesoriere, erano tra questi ed entrambi ebbero ad affrontare per questo loro legame qualche traversia. Gio Girolamo Lomellini fu messo sotto inchiesta con altri «per haver amministrato sotto li Barberini denaro».[2] A Lorenzo Raggi, secondo La giusta stadera de’ Porporati, Innocenzo X «haveva fatto intender che dovesse rinunciare la Thesoreria, ma poi ad intercessione di diversi sogetti non si passò più oltre».[3] Qualche fastidio lo ebbe, tuttavia, dopo la fuga di Antonio da Roma in cui la famiglia Raggi, aveva svolto un ruolo fondamentale.[4] Fedelissimo del cardinale Francesco era rimasto il suo vecchio collaboratore, Celio Bichi, uditore di Rota, che tra le altre cose si occupò, assieme al fratello, il cardinale Alessandro, dell’intricata faccenda di Montelibretti.[5]
Amici non pubblicamente schierati, ma non per questo inattivi, erano anche, oltre quelli nominati, diversi cardinali, come ad esempio Cesare Fachinetti, di cui Nicoletti, sempre attento alla fedeltà delle creature, notava «fra l’altre degne qualità [...] una gratitudine incomparabile» per la Casa di Urbano [6] o come Angelo Giori, antico maestro dei fratelli Barberini e a loro sempre legatissimo, che intrattenne con Francesco dopo la fuga da Roma un’intensa corrispondenza trasmettendogli, tra l’altro, le note di un informatore che aveva infiltrato nel seguito di un pezzo grosso della famiglia pontificia, forse il principe Ludovisi o il cardinale Camillo.[7] G.B. Altieri, più vicino ad Antonio che a Francesco, indirizzò a Innocenzo un memoriale in cui, menzionando diversi precedenti, gli rammentava quanto fosse conveniente a un Papa perdonare i propri avversari e riconciliarsi con loro.[8] Ai cardinali amici dei Barberini bisognerebbe aggiungere Bernardino Spada, ma il personaggio, autorevole consigliere di Papa Innocenzo, non era tipo da sacrificare all’amicizia il benché minimo interesse personale.[9] Fuori dagli ambienti di Curia, poi, e cioè in posizioni che potevano rivelarsi utilmente defilate, i Barberini potevano giovarsi dell’opera di autorevoli agenti, come quel Paolo Maccarani, corrispondente e uomo di fiducia di Mazzarino, che condusse i negoziati decisivi per la loro riconciliazione con Papa Innocenzo e che alla morte volle lasciare suo erede il cardinale Antonio, del cui entourage aveva probabilmente a suo tempo fatto parte.[10]
Infine i Barberini potevano contare sulla riconoscenza più o meno aperta di non poche tra quelle loro creature che le circostanze avevano indotto ad aggregarsi al partito di Spagna e a schierarsi col nuovo gruppo di potere a Palazzo. Gio Stefano Donghi, per esempio, era «di genio assai spagnolo e ne fa[ceva] aperta professione»,[11] il che non gli impediva di restare legato ai Barberini [12] e di mandare più volte segnali al governo francese «de vouloir s’attacher a cette Couronne». [13] Anche l’altro genovese, Vincenzo Costaguta, legato al partito spagnolo (e alla stessa famiglia del Papa per essere cognato di Maria Maidalchini), non smise per questo di professare, almeno in privato, riconoscenza e devozione ai Barberini.[14]
Certo, quando i Barberini avevano alzato sui loro palazzi le insegne del Re di Francia, il governo francese si sarebbe aspettato un pronunciamento più ampio: si sarebbe aspettato cioè che, assieme a loro, alzassero le insegne di Francia i cardinali amici. Ma si trattava di una scelta che molti di questi non potevano permettersi. Francesco ne era consapevole e aveva avvertito i Francesi «che non [poteva] in ciò disponere totalmente di essi». E anche per il futuro si era genericamente impegnato a fare «quel più che sarà possibile», ma sempre in subordine ad un rafforzamento dell’influenza francese in Italia. [15]
A metà marzo, era giunto a Roma Henri Arnauld abate di Saint Nicolas, fratello maggiore di Antoine.[16] Aveva preso alloggio nel palazzo del cardinale d’Este sul quale dal febbraio precedente le insegne di Francia avevano sostituito quelle imperiali. Era passato poi in quello di Antonio Barberini, guardato da trecento uomini al comando di Francesco Grimaldi. Anche i cardinali della fazione di Francia, Grimaldi, Valençay e Maculano, nell’imminenza dell’azione su Orbetello vi si trasferirono, «con che particolarmente vengono a salvare da ogni essecutione il detto Palazzo con tutti li ricchi mobili che in esso si ritrovano».[17]
Dell’arrivo di Arnauld si parlava da mesi e a più riprese il governo di Venezia, nella speranza che la missione potesse significare un’apertura di pace, aveva suggerito al Pontefice, ma inutilmente, di sospendere ogni iniziativa contro i Barberini in attesa di sapere che cosa l’abate avesse da proporre. In realtà Arnauld, che era in Italia dal dicembre del ‘45 e che prima di portarsi a Roma aveva visitato le corti di Parma, Modena e Firenze, veniva più che a proporre accordi di pace, a preparare, di concerto con il cardinale Grimaldi, le previste azioni di guerra.[18]
Convinto senza grosse difficoltà il Granduca, con grande irritazione degli Spagnoli e del Papa, a tenersi rigorosamente neutrale nell’imminente campagna [19] e ottenuto il passo dalla Repubblica di Genova (che lo aveva concesso non senza qualche apprensione circa le effettive intenzioni della Francia), sul finire di aprile la gran macchina della spedizione contro Orbetello, affidata alla direzione del principe Tomaso, si era finalmente messa in moto.[20] Gli ambasciatori veneziani, Alvise Contarini e Pietro Foscarini, tornarono allora ad offrire al Papa i propri uffici cercando di convincerlo «che era bene nelle presenti congiunture di fare opera di tenere sodisfatta la Francia e non permettersi che per privati interessi si tenesse lontana dal bene così grande che poteva cavarsene per il publico tanto contro il Turco quanto per una pace universale»,[21] ma Innocenzo ancora una volta declinò l’offerta, sostenendo tra l’altro che accettare una mediazione sarebbe equivalso a riconoscersi colpevole.[22] Fu solo quando i Francesi, impadronitisi di Talamone e Santo Stefano, strinsero d’assedio Orbetello, minacciando da presso lo stesso territorio pontificio, che il Papa si decise ad affidare agli ambasciatori veneziani, per il tramite dei cardinali Spada e Capponi, suoi intimi, la ricerca di un accordo.[23]
«Tutta questa settimana habbiamo (si può dire senza intermissione) travagliato sopra il negotio de Signori Barberini», scrivevano al loro governo il 19 di maggio gli ambasciatori veneziani. Alla fine il Papa aveva fatto mostra di accettare tutte le loro proposte, che in sostanza ripetevano le misure già suggerite nei mesi precedenti: una congrua dilazione dei termini per la presentazione dei conti e la liberazione dalle multe relative, la sospensione dei sequestri delle proprietà e delle rendite dei Barberini, l’esclusione dal procedimento civile dei giudici sospetti di preconcetta avversione per i Barberini, l’affidamento delle cariche di cui erano titolari i Barberini a persone di loro fiducia.[24]

«Sua Santità», riferivano gli ambasciatori, «ci ascoltò con faccia illare e mostrò grande sodisfatione del nostro modo di trattare dicendo che gli havevimo fatto un gran piacere non solo a riconoscere la sua ottima volontà, ma anco a riassumer per appunto li proprii concetti e le sue espressioni».[25]

Anche se il cardinale Capponi giurava sulla buona fede di Innocenzo e gli ambasciatori veneziani mostravano di crederci, c’era poco da fidarsi.[26] Quelli che a Roma stavano negoziando per conto della Francia e dei Barberini - e cioè i cardinali d’Este e Grimaldi, l’abate di Saint Nicolas e il segretario dell’ambasciata Etienne Gueffier, che avevano costituito una sorta di direttorio [27] - decisero di non fidarsi affatto e pretesero impegni precisi. Innocenzo, messo alla strette, confermò i loro sospetti, riconoscendo di non aver mai inteso impegnarsi alla concessione di tutte le grazie richieste, ma solo di qualcuna, e a suo arbitrio. Ne sarebbe andata di mezzo, diceva, la sua reputazione, il che (e qui intonava la solita solfa) «non credo che [...] sia concetto della Regina né del Regio Consiglio, ma di particolari fautori de Barberini che con loro hanno li suoi interessi».[28]
Innocenzo però, ormai, non era né fermo nelle sue risoluzioni né tranquillo circa le intenzioni di Mazzarino. Il fatto che dopo oltre due mesi dal suo arrivo Arnauld non avesse ancora chiesto udienza lo teneva in ansia: non sapeva che cosa potesse significare un atteggiamento del genere che, in ogni caso, gli recava danno, se non altro perché gli faceva mancare di fronte al mondo persino l’apparenza - che era, per il momento, tutto quello che gli stava a cuore - di una qualche comunicazione con la Francia.[29]
A questo punto i negoziatori francesi, nonostante le prime delusioni, decisero di fare un gesto distensivo e Arnauld chiese ed ottenne per il 7 giugno la sua prima udienza. Nell’udienza Arnauld elencò al Papa, che fingeva di ignorarle, le ragioni del contendere: «le pretensioni in Catalogna et in Portogallo», ossia, da parte del Papa, il rifiuto di prendere atto della separazione di quelle regioni dalla Spagna, «la prigionia di Bopuy», ossia l’asilo accordato a uno dei principali complici del duca di Beaufort, e infine, ma soprattutto, «il negotio de Barberini».[30] Il Papa concesse in quel primo incontro poche soddisfazioni al suo interlocutore, trascurando addirittura di confermare quel tanto di buona volontà nei confronti dei Barberini che aveva manifestato con gli ambasciatori di Venezia. Ma il ghiaccio era rotto.




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[1] Pastor, XIV, I, pp. 44. Rallegrandosi per il suo arrivo in Francia e cercando di confortarlo per i disagi dell’esilio, de Lugo scriveva nel marzo del 1646 a Francesco: «Vostra Eminenza porta seco sempre se medesimo che è il maggior tesoro che può portare e con esso e con leggere li libri francesi nuovi passarà il tempo. E voglio che sappia che con occasione del libro dell’Arnaldo ho imparato il leggere francese talmente che a sufficienza lo intendo, come spero che faremo un giorno la prova quando Idio vorrà» (BAV, Barb.lat. 8727, c. 346r; qui a cc. 349 sgg. diverse lettere ad Antonio, del quale, nell’estate del 1649, sollecitava il rientro in Roma).

[2] ASVe, DAS, Roma 123, c. 113r. Gualdo Priorato, 1659, scrive in proprosito: «benché si procurasse [dai nemici dei Barberini] di sbattere anche monsignor Lomellino, egli solo tra quelle borrasche seppe così aggiustatamente destreggiare, che delusi li suoi malevoli, si mantenne sempre intrepido e costante nel suo posto». In verità non fu il solo a destreggiarsi abilmente: basti pensare a Lorenzo Raggi, che, nel 1647, chiusa la contesa, sarebbe stato promosso cardinale e avrebbe ceduto la carica di Tesoriere Generale proprio al Lomellini. Comunicando la sua nomina a Francesco Barberini Raggi scriveva il 7 ottobre del 1647: «Prevedo che la mia promozione al cardinalato sia in Vostra Eminenza per cagionare singolari compiacimenti». E il 18 novembre: «Vostra Eminenza mi deve considerare suo poiché dalla sua generosa benignità ha ricevuto li primi fondamenti la mia fortuna» (BAV, Barb.lat., 8750, cc. 107 sgg.). G. B. Raggi, fratello di Lorenzo, scriveva nella stessa occasione a Francesco: «Vostra Eminenza può congratularsi come di opera sua» (BAV, Barb.lat., 10039, c. 80). Nel 1651 Lorenzo Raggi avrebbe sostituito Federico Sforza nella carica di procamerlengo su designazione di Antonio Barberini: «Suggerendomi io dicessi dove pens[erei] che si debba appoggiar l’esercitio del Camerlengato in caso di mutatone, ciò potendosi, io sarei ben concorso più volentieri nel Sig. card. Raggi che in altra persona nel quale quanto io confidi a V.S. è ben noto...» (BAV, Barb.lat., 8807, c. 23, Antonio Barberini a Gio Antonio Costa, 31 agosto 1651). Nel 1655, su suggerimento del Papa, Raggi sarebbe stato sostituito da Rapaccioli (BAV, Barb.lat., 8746, c. 254r, Rapaccioli a Francesco Barberini, 21 aprile 1655).

[4] T.Raggi, c. 70v.

[5] Francesco gli aveva scritto da Cannes dopo la fuga e Celio si era messo a sua disposizione. Restò sempre in corrispondenza con Francesco (BAV, Barb.lat. 8941, cc. 97-101 e 8680, cc. 145, 163-167, 175).

[6] Nicoletti, VIII, c. 744v.

[7] In BAV, Ott.lat. 3267, p. II, cc. 384-403 diverse lettere di Giori a Francesco del periodo luglio-agosto 1646 e settembre-novembre 1649. Oltre cento quelle in BAV, Barb.lat. 8725, in gran parte degli anni 1645-1656. L’informatore dava notizie allarmanti (e forse allarmistiche) sulle intenzioni del Pontefice e dei suoi collaboratori: «Signori», scriveva in un biglietto ricevuto da Giori il 9 febbraio del 1646, «si guardino perché si farà alla peggio. Fu spedito corriero a Genovesi acciò non dassero lo sbarco, se ben poi è venuta nova che passano più oltre. La lega tra Spagnoli è già stabilita e tra capitoli vi è la ruina degl’amici, quali saranno anche insidiati, benché stian fuori, nella vita, però è necessario avisarli che stiano cauti particularmente nel mangiare» (ivi, c. 62r). Il 17 maggio 1648, dopo la morte di Taddeo, Giori pregò il principe suo figlio di consegnare a Francesco le lettere che aveva scritto al padre: «il perché lo dirò a bocca a Vostra Eccellenza» (ivi, c. 65r). Voci di curiali progetti di avvelenamento (ai danni però di Mazzarino) arrivavano, nello stesso mese di febbraio, anche a Giannettino Giustiniani per il tramite di «un gentilhuomo mio parente che prattica in casa Panfilia» (AAE, CP, Gênes 5, cc. 28r-31r, Genova, 18 febbraio 1646).

[8] Una copia del memoriale in BAV, Arch. Barb., Indice IV, 223. In BAV, Barb.lat. 8676 ci sono 55 lettere di Altieri ai Barberini tra il 1643 e il 1654.

[9] A detta di tutti (e per esempio di Alvise Contarini in Barozzi Berchet, Roma, p. 72) Spada era, con Panciroli e Capponi, uno dei pochi consiglieri ascoltati da Innocenzo X e, personalmente, «di genio francese e partiale della Casa Barberina». Che si fosse però impegnato per davvero a favore dei Barberini è assai dubbio. Anche a lui il cardinale Barberini aveva indirizzato dopo la fuga una delle sue lettere giustificatorie a cui replicarono gli avversari (non però lo Spada) con la già citata Risposta finta del Sig. card. Spada alla lettera scrittagli dal Sig. card. Barberini in occorrenza della sua partenza per la Francia (incipit: “La carta di V.E. con la quale ha pensato colorando...”); vedile entrambe in BAV, Vat.lat. 13513. La corrispondenza dello Spada con i Barberini dopo il febbraio 1646 in ASV, Fondo Spada, 22, cc. 54-68, 143-159. Su Bernardino Spada vedi ora Karsten 2001 e 2002.

[10] Nell'aprile del 1654 Giannettino Giustiniani dava notizia a Mazzarino della morte di Paolo Maccarani aggiungendo una singolare annotazione su Antonio Barberini, di cui negli ultimi anni Maccarani aveva curato gli interessi a Roma: «Il buon signor Paolo Maccarani, servitore di Vostra Eminenza, mio signore et amico, se n’è passato al cielo et ha lasciato herede per 5mila scudi d’entrata il signor cardinale Antonio, il quale va rettirando tutte le heredità de gentilhuomini romani che muoiono senza successione. Questa però mi scrivono che sij stata in confidenza, havendo il signor Paolo lasciato un figlio naturale» (AAE, CP, Gênes 9, cc. 208r-210r, Giannettino Giustiniani a Mazzarino, 29 aprile 1654). Un altro gentiluomo morto senza eredi che lasciò i suoi beni ad Antonio è Mario Frangipani (Gigli, pp. 428-429). Sulla morte di Maccarani, però, Giannettino si sbagliava: Filippo Crucitti nella recente voce dedicata a Maccarani (sotto il nome del nonno Antonio e di seguito alla biografia di quest'ultimo) in DBI, 66 (2006), pp. 190-191, lo dice morto nel 1667, ben tredici anni più tardi. Maccarani è ricordato in Ameyden-Bertini, II, pp. 23-24. Sui Maccarani vedi i due importanti studi di Elisabetta Mori, Mori 1994 e 1996. Paolo Maccarani e Mario Frangipani erano uniti da stretta amicizia ed entrambi godevano da sempre della stima e della confidenza di Antonio Barberini e di Giulio Mazzarino. In proposito vedi anche Dethan 1981 e soprattutto 1968.

[11] Nel conclave, come si è visto, aveva «abbandon[ato] Barberino e segui[tato] la fattione di Spagna, qual ne tiene qualche stima vivendo tutta la sua casa sotto la protettione sua»: Giusta Statera, p. 238.

[12] Vedine la corrispondenza in BAV, Barb.lat. 8712, cc. 44-114: «mi reputo più favorito di poter impiegare tutto il mio essere con la vita nelle occorrenze più travagliose della Sua Casa o della persona di Vostra Eminenza che di tante altre gratie ch’Ella mi ha fatto», scriveva ad esempio al cardinale Francesco nel giugno del 1646 (quando per altro le sorti dei Barberini, legate all’assedio di Orbetello, sembravano volgere al meglio). Donghi si doleva di non poter agire apertamente in loro favore, «forzato», come avrebbe detto anni dopo a Rapaccioli, «dalle domestiche pressure a professarsi tanto partiale di altri quanto basti, per esentarsi dal danno altrimenti minacciato, più che per ritrarne beneficii» (BAV, Barb. lat. 8746, cc. 98-99, 18 giugno 1651; cfr. ivi cc. 102-103, 28 giugno 1651). Nei primi mesi del 1649 Antonio aveva mandato per mezzo di Gio Antonio Costa una lettera di ringraziamento al card. Donghi (BAV, Barb. lat. 8806, c. 32) per non so quali favori. Scrivendo a Francesco Barberini nell’agosto del 1650 Donghi accennava alla sua confidenza con l’abate Costa «nella cui amicitia io mi slanciai solamente per haver prima inteso e poi riconosciuto in lui zelo, spirito e passione estrema nel servitio e fortuna della Casa tutta di V.E». Certo Donghi doveva essersi prodigato per Antonio se questi nell’agosto del 1651 in una lettera allo stesso Costa esprimeva senza reticenze la propria gratitudine nei suoi confronti: «pregherò Dio», scriveva, «che mi renda capace di poter sodisfare a qualche parte dell’infinito debito che ho con Sua Eminenza» (BAV, Barb. lat. 8807, c. 20).

[13] Si sapeva a Parigi che dopo il conclave «il a parlé à son arrivée à Gênes avec grand avantage en notre faveur de tout ce qui s’etoit passé», il che però, in quei giorni, poteva significare semplicemente che aveva parlato male del cardinale Antonio (che è quanto in effetti risulta dalla testimonianza, citata a suo luogo, di Giannettino Giustiniani): Arnauld, I, p. 79.

[14] Una trentina di lettere di Vincenzo Costaguta a Francesco Barberini dal 1643 al 1654 in BAV, Barb.lat., 8705.

[15] ASVe, DAS, Roma 123, cc. 20-21, Alvise Contarini, 21 ottobre 1645.

[16] Su Arnauld vedi Cochin (in particolare sulla sua missione a Roma le pp. 66-95). Arnauld sarebbe stato riconosciuto dai Barberini come il restauratore della loro fortuna: «non seulement ils firent fraper sa médaille et tirer son portrait dont ils remplirent toutes leurs maisons, mais ils lui érigerent aussi une statue dans leur Palais de Rome» (Arnauld, I, 1748, p. XX).

[17] ASVe, DAS, Roma 123, c. 331, 28 aprile 1646. Cochin, p. 78. Il cardinale Grimaldi, scriveva Saint Nicolas a Mazzarino, «c’est une personne admirable et capable de toutes choses. Le Signor Francesco son frere a la charge de tout sous lui et aide autant bien qu’il se puisse. C’est tout-à-fait un homme de service»: Arnauld, II, pp. 112 sgg., 30 aprile 1646. Nel giugno Grimaldi fece «battere alcuni forieri e soldati del Papa per essersi accostati troppo vicini al Palazzo» (ASVe, DAS, Roma 124, c. 18v).

[18] Lo avvertiva di Francia il Nunzio Bagni: ASV, Segr. Stato, Francia 94, Cifre del Nunzio Bagni, c. 45, 9 febbraio 1646. Nani, IX, p. 78 su Arnauld: «huomo scaltro e capace di seminar più disgusti che conciliare amicitia». Sulle spedizioni francesi nei Presidi cfr. Ademollo, Orbetello, Demaria, pp. 243-247; Lacour-Gayet, pp. 147-154; Coville, pp. 127-140; Malgeri, pp. 44 sgg.; Tornetta, 1942, II, pp. 95 sgg.; Petrocchi 1980. Cfr. Carignani, pp. 704 sgg. Sulle trattative con i Principi Cochin, pp. 70-74.  

[19] Il 20 marzo 1646 Giannettino Giustiniani avvertiva Mazzarino che il Granduca, che «tutto giorno dà patenti per leve di soldatesca», aveva inviato «di questi giorni» Alessandro Del Borro «a riconoscere e scandagliare li fondi di Lavenza, sussurrandosi che sij per farci qualche piccolo forte, impaurito grandemente dell’armamento di Provenza. Mio fratello però», continuava, «prattichissimo delle coste et delli sbarchi, si ride d’ogni sua diligenza, et dice che da Piombino al Monte Argentaro per lo tratto di sopra cinquanta miglia, non si può prohibire a niuna piccola armata né il scendere in terra, né il fortificarsi, con sicurezza poi anche (attacata cioè, e presa terra ferma) d’impadronirsi con facilità dell’isola dell’Elba, et perchè si mormora che l’armata di Provenza possa havere qualche pensiero in suddette parti, che sarebbe l’unico freno a Spagnoli, al Papa et al Granduca, affacilitando anche le cose nel Milanese, stima mio fratello necessario prendere prima porto in terra ferma, et Vostra Eminenza non si rida che adduchi l’autorità di mio fratello, perchè senza passione, da vero e fedelissimo suo servo, non conosco niuno più capace di lui, e come conosce che l’impresa non puole havere difficoltà, così stima necessarissimo doversi principiare da terra ferma, e quindi sbarcare qualche cavalleria, essendo quel paese, per l’abbondanza de foraggi et di biade, capace da sostenerne delle migliara de cavalli, come Porto Santo Steffano d’alloggiare ogni grande armata navale. Chieggo però humilissimamente perdono a Vostra Eminenza di tutto questo discorso, nel quale mi ha fatto trascorrere la contingenza delle voci che corrono, sapendo per altro non dover io entrare a parlare di ciò che non sono richiesto» (AAE, CP, Gênes 5, cc. 46-48). Di chiedere la neutralità del Granduca era stato incaricato l’abate Bentivoglio, fratello del nunzio a Firenze: «Le negoziazioni dell’abbate mio fratello», scriveva a Roma il nunzio, «sono state di assicurare il Gran Duca che l’armata navale francese non ha intenzione di attaccare né lui né altri Principi d’Italia e di voler all’incontro essere assicurato da Sua Altezza che sia per contenersi in una ben esatta e puntuale neutralità per tutto quello che detta armata potesse tentare» (ASV, Segr. Stato, Firenze 26, c. 41, 11 maggio 1646). Della missione dell’abate Bentivoglio a Firenze c’è in BAV, Arch. Barb., Indice IV, 223 una Copia d’una relatione mandata dal Gran Duca al suo ambasciatore residente in Roma a firma dello stesso segretario Gondi e destinata, per sua informazione, al Papa: fa parte di un fascicolo di carte provenienti da Paolo Maccarani e delle quali parlerò più avanti. Sulla missione dell’abate Bentivoglio vedi Siri, Mercurio, VII, 1667, I, pp. 121 sgg., 146 sgg., 244 sgg. e Della Torre, Historie, II, pp. 1295 sgg. Bentivoglio aveva ottenuto facilmente l’assicurazione della neutralità toscana (l’11 maggio il Granduca ne dava notizia alla Repubblica di Genova: ASG, AS, 2796), ma sembra che il suo principale obbiettivo fosse di indurre il Granduca a intervenire ufficialmente a Roma in favore dei Barberini e che su questo punto avesse incontrato un netto rifiuto. La richiesta francese, secondo il governo di Firenze, era volta «a mostrare a Sua Beatitudine, per diminuirle l’animo, che ogni Principe et fino Sua Altezza sarebbe contraria a i concetti di Sua Santità» e insieme «a smaccare l’Altezza Sua con farle a suo malgrado far quelle cose nelle quali haveva sempre protestato di non volere esplicitamente concorrere». Contro la dichiarazione di neutralità del Gran Duca vedi la scrittura “Non è privilegio dovuto...”. È facile immaginare come la spedizione francese desse materia ai nemici dei Barberini per un’altra violenta campagna contro di loro, in nome questa volta della pace e della libertà d’Italia, messe a repentaglio per i loro privati interessi. Vedi in BAV, Chig. O.I.7 due scritture di questo tenore, la Parenesi o sia Risvegliamento alli Principi d'Italia per le presenti guerre del Turco e del Francese (cc.119-179, incipit: “Agli anni passati fu scritta…”) e lo Scrutinio di tre Nazioni oltramontane. L’Italia afflitta per la fumentata venuta de’ Francesi, datato Roma li 18 maggio 1646 (cc. 180-241, incipit: Fra i cricchi e girelle...). In entrambe le scritture ricorre il concetto che, a differenza dei Francesi, gli Spagnoli non potevano essere considerati stranieri in Italia («Paolo 5° quando si parlava d’armi forastiere soleva dire che sotto questo vocabolo non erano compresi li Spagnoli come Principi d’Italia al pari degli altri. Santissima massima per la quiete d’Italia e senza ragione con invettiva grande da Urbano 8° biasimata in discorso con Luca Giustiniani…»: c. 124r).

[20] Si erano occupati di ottenere il passo dalla Repubblica di Genova il nuovo incaricato d’affari Du Mesnil, che a Genova aveva sostituito il residente Amontot e Giannettino Giustiniani. (Tre lettere da Genova di Du Mesnil a Saint Nicolas tra il 20 e il 29 aprile 1646 in Arnauld, II, pp. 56-57, 97, 110). A Genova c’era stato qualche timore che la spedizione potesse davvero essere diretta, come suggerivano gli Spagnoli, contro Savona. In realtà Mazzarino aveva pensato in un primo momento, su suggerimento del card. Richelieu, di impadronirsi della Spezia, ma solo se gli fosse riuscito di fare l’impresa senza irritare la Repubblica, il che appariva francamente poco probabile: vedi Mazzarino (Chéruel), II, p. 250 (CI, Mazzarino al Card. Grimaldi, 29 ottobre 1645). Le autorità genovesi, scriveva Giannettino Giustiniani a Mazzarino il 16 aprile, «m’hanno fatto ripigliare da personaggio grande sotto pretesto di zelo et d’affetto, ammonendomi di pensare a casi proprij, perchè quando ciò seguisse non si potrebbe riparare alla disgratia che mi succederebbe da un’impetuoso tumulto [...]. Le risposi che il provedere le piazze, quando si ha la guerra vicina, è prudenza, ma che di temere sopra de possibili et non sopra de probabili, era manifesta scioccheria, che la Francia non haveva mai sostenuto la giustitia come nel presente governo, che haveva occasione di proteggerci et non d’opprimerci, [...] et che per le instanze del signor principe Tomasso (perché tutto addossano alla mala volontà che quel principe possa havere contro la nostra Republica) quel Conseglio non si move ad imprese contro ragione in pregiuditio de loro amici» (AAE, CP, Gênes 5, cc. 64 sgg.). Le lettere per la concessione del passo ivi, cc. 68 sgg. Giannettino Giustiniani e Tobia Pallavicino incontrarono il principe Tomaso a Vado (BNP, Clair, 405, cc. 307-312: Du Mesnil al conte di Brienne, 18 aprile 1646. AAE, CP, Gênes 5, cc. 74-77, Giannettino Giustiniani a Mazzarino, 23 aprile 1646. Arnauld, II, pp. 56-57, Du Mesnil a Saint Nicolas, 20 aprile 1646). Tobia Pallavicino, su esplicita richiesta del cardinale Barberini, servì nell’armata francese con il grado di sergente generale di battaglia; autore del Forte Pallavicino («la [cui] cinconvallatione è così bene et avantagiosamente fortifficata che con 4000 fanti e 400 cavalli si può diffenderla contro 30000»: BAV, Barb. lat., 8013, c. 4r, Bidaud a Francesco, Roma 11 luglio 1646), si segnalò come uno dei migliori ufficiali al seguito del principe Tomaso (lettere di Tobia Pallavicino a Francesco Barberini da Genova del marzo 1646, in attesa di servire nella spedizione, in BAV, Arch.Barb., Indice IV, 221, 20 e 31 marzo e Barb.lat., 10039, c. 31, 26 marzo).

[21] BAV, Barb.lat., 8723, c. 83r, Girolamo Grimaldi a Francesco Barberini, 14 maggio 1646.

[22] ASVe, DAS, Roma 123, cc. 338r-340v, 28 aprile 1646. In verità, scriveva Grimaldi il 14 maggio, «dopo che il Papa ha inteso che il Granduca si è agiustato e capitolato neutralità con Francesi ha mutato forma di parlare, si è pentito di haver esclusa la mezzanità degl’ambasciatori veneti» (BAV, Barb.lat., 8723, c. 83r, 14 maggio 1646).

[23] In una udienza concessagli verso la fine di aprile il Papa espresse al cardinale Spada le sue preoccupazioni per le richieste di passo presentate dalla Francia a Genova e al Granduca e dal Duca di Modena alla repubblica di Lucca. Lo Spada - a quanto egli stesso ebbe a riferire al cardinale d’Este - aveva cercato di rassicurarlo esprimendo la convinzione che l’armata francese non fosse diretta contro lo Stato ecclesiastico, ma insieme lo aveva invitato a «facilitar le soddisfazioni della Francia». Il suggerimento dello Spada, aveva replicato il Papa, «era un gran calice per lui da bere, confessando d’essersi ingannato» quando aveva giudicato impossibile che in Francia «si fosse per intraprendere simile risoluzione in tempo della minorità del Re e del governo d’un cardinale il quale essendo forestiere non poteva persuadersi c’havesse tanta autorità che si facesse risolvere la Francia a simile impresa». Spada aveva osservato a sua volta «che non li parerà così amaro il calice, et quanto alla minorità, ch’il governo incaminato da Francesi era stato così prudente e le massime così ferme che si vide subito che le speranze fondate sopra la variazione di quelli riusciriano infruttose, come era succeduto a Spagnuoli, c’havriano potuto ottenere in altri tempi quegli accordi ch’adesso con maggiore loro svantaggio non havriano campo di promettersi» (ASM, CP, 230, Rinaldo d’Este a Francesco I, 11 maggio 1646). Il Papa aveva poi chiesto un parere scritto a quattro cardinali, tra cui di nuovo lo Spada, che aveva ribadito la necessità di un accordo con la Francia: ASVe, DAS, Roma 123, c. 358, 12 maggio 1646. Sembra anzi che in quella occasione il cardinale Spada avesse composto due scritture («una che prima fu veduta da Vostra Eminenza et era di mia mano e poi un’altra di mano aliena il giorno appresso la congregatione tenuta inanzi Sua Santità a S.Pietro che Vostra Eminenza per la podagra non poté intervenirvi») che consegnò a Panciroli per il Papa e che più tardi, nel decembre del 1647, tentò di recuperare, non so a quale scopo e con quale esito. Nel chiederne a Panciroli la restituzione, Spada ricostruiva gli avvenimenti di quei giorni con una precisione che suggerisce l’ausilio di un diario. «Havendo con partecipatione et oracolo antecedente di Nostro Signore persuaso all’abbate di San Nicolò di andare a i suoi piedi, avvisai immediatamente Sua Santità del discorso seguito e l’istesso dì l’abbate fe’ far motto e gli fu promessa l’audienza fra 2 giorni, che fu la prima. Il viglietto parmi fosse di 3 facciate. Giunto il corriero che portò la presa di Mardich e l’avviso che l’armata tornava per la 3a volta, Nostro Signore mi fe’ gratia di parlarmi de’ Signori Barberini et oltre quello che riverentemente gli dissi in voce un giovedì mattina, mandai a i suoi piedi la mattina seguente un viglietto nel quale fra l’altre cose parlai della stanza d’Avignone con un inserto di alcune note cavate dal Guicciardino e da altri tutto di mia mano e parmi fosse la vigilia de la c[ongreg]atione che dopoi il doppo pranzo l’abbate di San Nicolò avvisato dal Signor Paolo Maccarani andò all’audienza benché intrecciando il particolare di Boquis [sic per Beaupuis] non concludesse niente» (ASV, Fondo Spada, 24, cc. 203r-204v, Spada a Panciroli, 11 dicembre 1647). A detta di Francesco Mantovani, che però sembra piuttosto prevenuto nei suoi confronti, il cardinale Spada, pur «conosce[ndo] molto bene che li Barberini non sono stati serviti da lui et che possono dolersi della sua persona» cercava convincerli di aver fatto il possibile per loro perché, «havendo la mira al Pontificato, vorrebbe assicurarsi che fossero per favorirlo a suo tempo». Nel gennaio 1647, in un lungo colloquio con Agapito Colorsi, che Mantovani riferiva con ricchezza di particolari al Duca di Modena, «per muoverlo maggiormente a prestar fede a quanto li diceva, li diede una scrittura che affermò di haver presentata ad Innocentio la qual contiene molte raggioni per le quali Sua Santità doveva rimettere nella sua grazia Francesco et li fratelli»; pare che Agapito Colorsi accogliesse con qualche scetticismo le affermazioni di Spada. Sempre secondo Mantovani, allo Spada sarebbe riuscito di scalzare il cardinale Capponi dalla confidenza del Papa approfittando di non so quale indiscrezione che quello si sarebbe lasciato sfuggire nel corso dei negoziati con gli agenti francesi (vedi i dispacci di Francesco Mantovani del gennaio e febbraio 1647 in ASM, CA, Roma 244).

[24] Un’ampia relazione delle trattative in ASVe, DAS, Roma 123, cc. 363r-372v, disp. 33 del 19 maggio 1646. Altre versioni del colloquio, fornite però dal Papa, in BAV, Arch. Barb., Indice IV, 223, Con gl’Ambasciatori di Venetia, incipit: “Sempre ho hauto pensiero di dover fare qualche gratia...” e Nota de concetti et ragioni da portare in Francia per insinuare alla Regina e suo Conseglio, incipit: “Che gl’Ambasciatori di Venetia...” (vedi più avanti la nota dedicata alle carte Maccarani contenute in questo codice). Nella prima di queste due scritture si legge tra l’altro: «Habbiamo detto alli sodetti Signori Ambasciatori in una audienza straordinaria il dì 17 maggio dopo molti discorsi, che facendo i Barberini tutte le sodette humiliationi et altri sodisfationi dovute alla nostra dignità, haveriamo sentito molto volentieri l’offitii che s’interponessero dalla Maestà del Re». Tra le condizioni poste da Innocenzo c’era che «quando se li perdonassi se devono essi renuntiare a detta protettione [del Re di Francia] overo il Re liberarli con ritenerli per suoi amorevoli». A quali umiliazioni pensasse Innocenzo è detto nella seconda scrittura «Li detti Ambasciatori di Venetia a requisitione di Francia hanno domandato qualche gratia per i Barberini con due presuposti più volte replicati et assicurati a Sua Santità, cioè che li Barberini verriano per detto effetto a Roma a costituirsi carcerati in Castel S.Angelo et che restava libero a Sua Santità di farli rendere li conti dei denari spesi nella guerra e di stare a giustitia come li paresse, senza che la Corona di Francia vi si interponesse più oltre che d’intercedere per essi per qualche gratia». Della reclusione dei Barberini in Castel S.Angelo non si fa parola nei resoconti di Foscarini e Contarini.

[25] ASVe, DAS, Roma 123, c. 368r. «E poiché così si trova buono», continua la relazione degli ambasciatori, «si contentava di promettere che, quando li Barberini si humiliino come sudditi e come ecclesiastici e che venghino li ministri della Francia a pregar per loro, di gratificarli nel predetto negotio». Secondo il cardinale Grimaldi, però, «questa parola generica di far gratia a Barberini per intercessione della Francia poteva intendersi sopra un capo solo [laddove] era necessario che Sua Santità annullasse tutto quello che in questo proposito s’era sin’hora fatto e ritornasse le cose in pristino» (ivi, c. 369).

[26] «I trattati introdotti e publicati», scriveva in quei giorni il cardinale Rapaccioli a Francesco Barberini, «rallegrano la Corte e consolano i servitori di Vostra Eminenza e della sua Casa, ma non ancor tutti si fidano et io non so tra quali mi sia... così tra dua non so da qual parte più sperare la conclusione, né chi sia per vincere di quelle due cose che combattono l’animo del Papa, il quale né vorria cedere, né vorria spendere. Certo è che chi ha qui saputo tanto ben servire alla Francia nell’altre cose, non lascia di servirla ottimamente in pro di Vostra Eminenza col Papa, il quale, come ho detto, parlamenta co’ Francesi e negotia, per mio credere, co’ Spagnuoli, esclamando (non so perché sel faccia) nel vedere i Venetiani et i Fiorentini ridotti a procurare i trionfi di Vostra Eminenza, che in sostanza può più sperare di veder cedere il Papa in ciò che vogliono i Francesi che collegato co’ Spagnuoli, i quali non sanno credere che Innocenzo X sia mai per far quel che può, come questi crede che essi non sappiano più fare quel che potrebbero» (BAV, Barb. lat., 8746, c. 10r, 20 maggio 1646). Della doppiezza di Innocenzo tornava a scrivere il cardinale Grimaldi a Francesco Barberini il 4 giugno 1646: «Qui stiamo nel forte de negotiati col Papa per le sodisfationi dovute alla Francia e particolarmente nella reintegratione totale di Vostra Eminenza e fratelli e nel medemo tempo non si parla che d’armare, di soccorrer e di confederarsi contro i Francesi» (BAV, Barb.lat., 8723, c. 89). Al nunzio Bagni, a proposito della disponibilità a trattare manifestata dal Papa nella questione dei Barberini, fu detto molto esplicitamente che ormai in Francia «si aspettava di veder gl’effetti perché delle buone parole non si faceva più conto alcuno» (ASV, Segr. Stato, Francia 24, Cifre del Nunzio Bagni, 22 giugno 1646).

[27] Secondo una nota circa Quello si dice haver scritto in Francia li cardinali Grimaldo, Este et abbate di S. Nicolas in proposito della resa di Orbetello che esprimeva il punto di vista di Palazzo, Grimaldi era la vera anima del gruppo: Le Gueffier, vi si legge, «fa tutto quello che Grimaldi gli dice o accenna»; Saint Nicolas, almeno sulla questione di Orbetello, «ha mostrato d’essere imbevuto assai de concetti di Grima[ldi]». Solo il cardinale d’Este, per ovvie ragioni di prestigio, conservava almeno formalmente qualche autonomia.

[28] ASVe, DAS, Roma 123, c. 372.

[29] Tornetta, 1642, II, p. 120.

[30] ASVe, DAS, Roma 124, c. 6v, 9 giugno 1646. Saint Nicolas fece capire al cardinale Panfili «che se si fosse fatto di più per i Barberini le altre cose si sarebbero trattate» (ivi, c. 16v, 16 giugno 1646). Sulle circostanze di quella prima udienza vedi la citata lettera di Bernardino Spada a Panciroli dell’11 dicembre 1647 in ASV, Fondo Spada, 24, cc. 203r-204v.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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