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Castro e la Francia

Se aveva giudicato severamente l’uso da parte del Papa di sanzioni spirituali in un conflitto che era tutto temporale e se in un primo tempo aveva guardato non senza favore alla decisione di Odoardo di rispondere ai monitori pontifici con le armi, Richelieu aveva assunto via via un atteggiamento più prudente e, nelle vesti del mediatore, mentre invitava il Papa alla clemenza, suggeriva moderazione a Odoardo.[1] La vicenda di Castro interferiva tra l’altro fastidiosamente, anche per l’incapacità dei rappresentanti diplomatici di Parigi a stabilire una buona intesa con i Barberini,[2] nella complesse manovre che a Roma, facendo perno principalmente sul Cardinale Antonio, a cui era stata affidata, ma contro il volere di Francesco e del Papa, la Protezione di Francia,[3] puntavano sul medio periodo a costruire in Curia un solido partito filofrancese e per l’immediato a ottenere la promozione al cardinalato di Giulio Mazzarino.[4]
Per trattare una tregua, premessa dell’auspicata lega antispagnola e insieme per riprendere sotto controllo d’Estrées che, richiamato in Francia, si era invece trasferito a Parma dove, in odio ai Barberini, incoraggiava le bizzarrie del Duca,[5] era stato inviato in Italia alla fine del 1641 il Lionne, che in un precedente prolungato soggiorno romano aveva avuto modo di farsi apprezzare da Mazzarino e di valutare per quel non molto che valeva lo stesso d’Estrées. Gli sforzi di Lionne e quelli del successore di d’Estrées a Roma, marchese di Fontenay-Mareuil, latore di nuovi progetti di accomodamento, non riuscirono né ad evitare la guerra, né a dirottare contro gli Spagnoli l’irrequietezza del Duca di Parma.[6]
Lionne lasciò deluso Parma per Roma il 10 settembre, alla vigilia dell’entrata nei domini pontifici delle truppe del Farnese, guidate proprio da quel d’Estrées che sarebbe stato suo compito riportare all’ordine. A Roma non poté che confermare l’indisponibilità del Duca alla trattativa. [7] La prosecuzione della mediazione francese fu a questo punto sollecitata dallo stesso Cardinale Barberini, che però non trascurò di rivolgersi contemporaneamente per soccorsi e buoni uffici alla Spagna e all’Impero riuscendo, se non altro, a creare qualche imbarazzo a Vienna al Duca di Modena, che, nella speranza di trarre profitto dalla situazione, era diventato il più animoso alleato del Farnese.[8]
A metà ottobre 1642 ebbero inizio i negoziati di Castelgiorgio con la mediazione del Lionne. Il Granduca di Toscana desiderava arrivare al più presto a un accordo. Fulvio Testi, rappresentante di Francesco d’Este, aveva invece l’incarico di fare il possibile per «gettare a terra il negozio».[9] Il plenipotenziario pontificio, Cardinale Spada, aveva analoghe istruzioni. «La supplico non accordar niente con l’inimico», gli aveva scritto Antonio Barberini il 13 ottobre, «sperando in Dio di dargli qualche stretta».[10]
Il Cardinale Spada era accompagnato dal fratello, Padre Virgilio, oratoriano, che nelle trattative finì per svolgere un ruolo fondamentale. Fu lui infatti a concordare personalmente con il Duca di Parma, che lo aveva convocato ad Acquapendente, le condizioni del deposito di Castro.[11] Nessuno dei due fratelli Spada nascose però il proprio scetticismo circa la possibilità che l’accordo raggiunto ottenesse l’assenso di Roma: una singolare riserva per un plenipotenziario, ma un ottimo espediente per guadagnare tempo, il che, dati i ritardi accumulati nella preparazione della guerra, era quel che sopra tutto occorreva ai papalini.[12] Finalmente il 26 ottobre arrivò da Roma, invece della temuta negativa, la ratifica degli accordi, corredata però di postille tali da stravolgerne la sostanza. Tutti gridarono alla malafede e lamentarono «d’essere stati burlati con prestar troppa fede a parole di preti».[13]
Odoardo Farnese, forse «ad istigazione del conte Testi»,[14] si ritirò in Lombardia con l’intenzione di unire le sue forze a quelle del Duca di Modena e di portarsi sul Ferrarese o sul Bolognese. Quanto alla Lega, non era in grado di fare alcunché, paralizzata com’era dai dissensi interni. Venezia, infatti, che non aveva partecipato ai negoziati di Castelgiorgio, non si sentiva legata a quegli accordi e si nascondeva dietro l’obbiettivo originario della Lega che era il mantenimento della pace d’Italia e non la restituzione di Castro al Duca.[15] Il Granduca, invece, che nelle trattative si era mostrato tanto desideroso di un accordo da suscitare nei Duchi di Modena e di Parma e nello stesso Lionne sospetti di doppio gioco,[16] ora pretendeva proprio quella restituzione. Non curamus de re sed de modo aveva detto Urbano accettando di discutere l’ipotesi del deposito; non curamus de modo dummodo habeamus effectum diceva adesso il Granduca.[17]
A rendere più difficili le relazioni della Santa Sede con la Francia l’esito dei negoziati di Castelgiorgio si sommava alla mancata conferma dell’elezione di Michele Mazzarino, fratello di Giulio, a generale dei Domenicani e all’incidente del vescovo di Lamego con i suoi penosi strascichi, due episodi che parvero all’ambasciatore Fontenay sufficienti a giustificare, senza neppure attendere l’approvazione del governo di Parigi, la sua rumorosa uscita da Roma.[18] Prima di lasciare la città l’ambasciatore era riuscito a scontrarsi anche col Cardinale Antonio che era Coprotettore di Francia, ma non dimenticava di essere prima di tutto nipote e suddito di Papa. Alle indiscrete sollecitazioni del Fontenay perché intervenisse più energicamente presso lo zio a favore di Michele Mazzarino, Antonio aveva risposto con un secco biglietto, il cui testo circolò largamente, a scorno dell’ambasciatore:

«Quanto al voler Vostra Eccellenza intendere da me in che modo io sia risoluto di portarmi in questo negozio per avvertirne Sua Maestà», c’era scritto tra l’altro, «dico a Vostra Eccellenza che son risoluto di portarmi da buon servitore et ministro di Sua Beatitudine che è di far giustizia a chi si deve et quando mi sarà comandato da Sua Beatitudine [...] non havendo io in queste materie a render conto di me che a Dio et a Sua Beatitudine et a niuna altra persona del mondo».[19]

L’iniziativa di Fontenay non impressionò la Corte di Roma e fu poco apprezzata a Parigi.[20] Il governo francese presentò al nunzio le debite lagnanze per Castelgiorgio e per il resto, ma a Fontenay fu ordinato di rientrare a Roma sia pure col contentino della nomina di Michele Mazzarino a Maestro di Palazzo.[21] Il Cardinale Mazzarino, che dopo tutto era una creatura di Papa Urbano e del Cardinale Antonio non voleva, particolarmente dopo la morte di Richelieu, guastare i rapporti della Francia con Roma e meno che mai su una questione che, come quella di Michele, se anche non era esclusivamente privata, lo riguardava però di persona.[22]
Il Cardinale Barberini, da parte sua, aveva approfittato del gesto di Fontenay per ristabilire contatti diretti con i Principi della Lega, («i ministri francesi», scrive Della Torre, «non potean tralasciarsi essendo presenti, né adoperarsi essendo scandalizzati» [23]) e aveva affidato all’abate Bagni nuove proposte: il Papa era disposto a entrare nella Lega, a riaccogliere Odoardo nella sua grazia dopo la dovuta umiliazione e a restituire Castro ai Farnese al più tardi alla morte dello stesso Odoardo.[24]
Le proposte furono accolte con scetticismo a Venezia dove si giudicava impossibile l’adesione del Duca di Parma e del governo francese, il primo per cocciutaggine, il secondo perché aveva impegnato il suo prestigio al rispetto delle intese di Castelgiorgio. In Francia, poi, si sospettava che dietro alle nuove proposte dei Barberini ci fossero gli Spagnoli,

«i quali fin da principio di questi moti desideravano di mescolarsi in quegl’intrighi, invitati, come si disse, dal card. Barberino, il quale per mezzo del nuntio di Napoli, ma più particolarmente per mezzo del card. Ottaviano Raggi confidentissimo del Papa e della Casa Barberina (e questi si servì di Cornelio Spinola gentilhuomo genovese negotiante in Napoli accreditatissimo appresso il duca di Medina Nuñez Vice Re) haveva più volte fatto insinuare al medesimo Vice Re il mandare a Roma un ministro doppo la partenza del marchese de los Velez».[25]

In effetti dal novembre del ‘42 il reggente Don Mattia Casanate (il padre di Girolamo) era a Roma con l’incarico ufficioso di trovare una soluzione al conflitto.[26] Ma nessuno a quel punto voleva più davvero la pace, neppure i Barberini, che si preparavano a prendersi una rivincita sul campo.[27] Le manovre, le astuzie, le dilazioni sembravano aver fatto il loro tempo, anche se qualche varco per trattative c’era ancora: il reggente Casanate era sempre a Roma, Bagni restava a Firenze («con gran gelosia de’ Veneziani» [28]) e Barberino con un’ipotesi di lega antifrancese tornava ad agganciare gli Asburgo, che infatti avanzarono anche loro nuove proposte tramite il residente spagnolo a Venezia e il duca Savelli, ambasciatore imperiale a Roma.




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[1] Nicoletti, IX, cc. 65-66 (Richelieu entusiasta della decisione del Duca di fortificare Castro) e 92-93 (Richelieu, su suggerimento di Mazzarino, si propone come mediatore). «Je vois [...] avec beaucoup de déplaisir», scriveva Richelieu a Mazzarino nel febbraio 1642, «la puissance spirituelle de l’Eglise employée pour rendre la temporelle des Papes plus puissante et plus effective»: Valfrey, p. 40. Vedi i cifrati dei nunzi Scotti e Grimaldi da Parigi ASV, Segr. Stato, Francia 90, 1641-1642 (specialmente cc. 46v-49v 8 ottobre, 78r-80v 8 novembre, 116 29 novembre 1641). I dispacci dalla Francia al Farnese tra il 1637 e il 1641 in ASP, CFE, Francia 24 sono guasti per l’umidità e pressoché illeggibili. Di grande interesse, come sempre, i dispacci degli ambasciatori veneti, in questo caso Girolamo Giustinian. Giustinian confermava il desiderio di Richelieu che tra Roma e Parma si arrivasse a un ragionevole accomodamento. A questo fine aveva richiamato d’Estrées e tentato, con le buone e con le cattive di farlo rientrare in Francia o almeno di farlo uscire da Parma, «conoscendosi in questo soggietto inclinatione al torbido e predominio della vanità […], sapendosi che ha troppa buona mano per seminar origine de scandali e animo pronto per fomentarli» (ASVe, DAS, Francia 97, cc. 78v, 249v, 9 luglio, 13 ottobre). Ma di fronte al rigore di Urbano contro un alleato della Francia, era emersa l’ipotesi di una lega dei Principi che, armi alla mano, imponesse al Papa una soluzione negoziata: «Il punto principale e più necessario per componer gli affari d’Italia», aveva detto il Re all’ambasciatore, «esser l’intimidire il Papa e i Barberini perché da quella parte nasceva la durezza. […] Dal Duca di Parma potersi sperar maggior bene che dalla parte del Papa, perché il Duca era buon italiano e buon francese». Anche il Cardinale Bichi, di ritorno dall’Italia, dove tra la partenza di d’Estrées da Roma e l’arrivo di Fontenay (che si era mosso lentissimamente impiegando nel viaggio più o meno sei mesi) aveva tenuto il filo dei negoziati, riteneva «più facile a piegar il Duca al componimento che il Papa» (Ibidem, cc. 480r, 482r, 23 febbraio 1642; cfr. i resoconti dei colloqui di Giustinian con Richelieu e Mazzarino del 31 dicembre 1641 e del 7 e 14 gennaio 1642, cc. 405-406, 422-424, 435). La richiesta di ammorbidire il suo atteggiamento era stata più volte avanzata al Pontefice dal governo francese tramite il nunzio, il quale però aveva avuto buon gioco, nel novembre del ’41, nel replicare che in questo caso «non si trattava di materie ecclesiastiche, né da Prencipe a Prencipe, ma da un sovrano a un suddito», che «il Re Christianissimo haveva mostrato il methodo a Prencipi di domar l’ostinatione e la renitenza de sudditi» e insomma che «Sua Santità non faceva che seguitar gli impronti del suo essempio». «Alla qual risposta», continuava Giustinian, «questi ministri, interessati nella lode di Sua Maestà, si mostrorno destituti di alcuna repplica». Era un’argomentazione cara ai Barberini, ma non atta a tranquillizzare il governo francese e tanto meno i potentati italiani. Come ebbe a dire il Re a Giustinian, «il Papa voleva far prova col Duca di Parma e poi praticarla o lui o i suoi successori in avvenire con gli altri Prencipi se gli riusciva». Giustinian aveva risposto che la Repubblica cercava l’accordo, ma «con le vie soavi della mediatione». «Sin ad hora», aggiungeva, non si era trattato «che di terre e d’entrate di Casa Farnese, che è negocio particolare essendo fondato in materia de Monti». Se il Papa si fosse ostinato nella linea del rigore, Venezia avrebbe forse rivisto il suo atteggiamento, ma per il momento non le era stata data «occasion evidente di rotture» (Ibidem, cc. 293r, 409r-v, 12 novembre e 31 dicembre 1641).

[2] Sull’avversione di d’Estrées per i Barberini, la sua assoluta «mancanza di riguardi», il suo pessimo carattere vedi Pastor, XIII, pp. 531-534, 541-544 e Blet 1965, specialmente pp. 20-21, dove si ricorda quel che Mazzarino ebbe a scrivere di lui a Chavigny: «Si j’avais a me vanter de quelque chose, ce serait d’avoir vécu trois ans après du Sr. Maréchal sans rompre avec lui, car j’estime impossible de pouvoir traiter des affaires avec lui pendant un mois et de garder de bonne relations». Prima ancora della sua nomina d’Estrées era stato dichiarato da Roma “persona non grata” (Leman 1936, Blet 1964). Sullo scontro tra d’Estrées e i Barberini vedi BAV, Vat.lat. 7851, cc. 443 sgg, Alli candidi e non appassionati lettori (incipit: “Alle morte parole...”). Il conflitto fra Antonio Barberini e d’Estrées intorbidò le trattative per la lega sollecitata dalla Francia tra Venezia e il Papa (i due si accusavano a vicenda di sabotarne la conclusione: ASVe, DAS, Roma 116, luglio 1640, cc. 145, 160, 190) e intralciò l’azione di Antonio per la promozione di Mazzarino. Chavigny aveva invitato Antonio ad essere comprensivo e gli aveva promesso che il nuovo ambasciatore, marchese di Fontenay-Mareuil sarebbe stato più amabile: BAV, Barb.lat. 8003 c. 62, 25 maggio 1641. In realtà anche Fontenay si scontrò presto con Antonio. Sul richiamo di d’Estrées: Valfrey, pp. XVI-XVII, 21-22. La Giusta statera (p. 18, ma più ampiamente in BUG, ms. E.V.29, c.28r) suggerisce un'altra, più privata spiegazione dell'odio d'Estrées per Antonio e i Barberini: la figliola del Marchese sarebbe stata ingravidata dal Cardinale Antonio e il padre, uscendo precipitosamente da Roma, l’avrebbe condotta a Caprarola dove l'avrebbe uccisa. Poi, per vendicarsi dei Barberini, si sarebbe portato a Parma per istigare Odoardo alla guerra e, senza curarsi degli ordini del suo governo, avrebbe partecipato come comandante della cavalleria alla spedizione contro lo Stato Ecclesiastico.

[3] Antonio come è noto non riuscì mai a superare l’opposizione di Francesco e di Urbano all’esercizio effettivo di tale funzione («gode li utili se ben da S.S. mai li è stato permesso esercitar la fontione»: Giovanni Nani in Barozzi  Berchet, Roma, p. 33). Sulla vicenda vedi Arnauld, I, pp. XXXVII-XLIV; Nicoletti, V, cc. 14-19; Pastor, XIII, p. 531; Le Vassor, VIII, I, pp. 7 sgg; Poncet 1998, pp. 477-479 (e, su Antonio, sempre Poncet, 1996); ASV, Fondo Bolognetti, 115 (3), Lettera «concernente la protettione di Francia per il cardimale Antonio Barberini», 18 settembre 1633;  ASV, Fondo Confalonieri, 1, c. 162, Ragguaglio di quanto è seguito intorno alla comprotettoria di Francia al Card. Antonio Barberini insino al 28 aprile 1634; BAV, Ott.lat. 2435, cc. 574-580, Discorso intorno alla comprotettione di Francia data al Sig. card. Antonio Barberino con il racconto di quanto è seguito intorno a questa materia infino alli X di maggio 1634 (incipit: “Una delle ragioni per le quali par conveniente...”); BAV, Barb.lat. 3206 (Monumenta Ughelli), cc. 365-366, copia della lettera del Cardinale de la Valette a Francesco, luglio 1634; BEM, Camp. App. II 1846 (g.N.8.4-2), Ragguaglio di quanto è seguito intorno la comprotettione di Francia data al Sig. Cardinale Antonio Barberino l’anno 1634 (incipit: Quando si trattò gl’anni passati...”); BAV, Barb.lat. 8803, Lettere di Chavigny ad Antonio Barberini (nell’ottobre del 1636 si accenna al pagamento della pensione di Antonio: «l’argent on est tout prest il y a desja long temps»; nel luglio del 1637 si parla della coprotezione del Cardinale Bichi). Sull’opposizione del Cardinale Barberini vedi le lettere di Celio Bichi allo stesso in BAV, Barb.lat. 8940, cc. 58-59 (3 gennaio 1637, Celio Bichi riferisce di un colloquio del Cardinale Bagni con d’Estrées), 94-98 (7, 16 e 21 ottobre 1637, sul modo di contrastare le manovre dei Francesi senza irritare troppo Antonio), 100 (26 ottobre 1637: d’Estrées è convinto che Antonio stia trattando anche con gli Spagnoli, e forse per istigazione del card. Capponi (che, scrive Bichi, è probabile che «v’habbia voluto cacciar dentro il suo naso torto») cerca di indurre Antonio a gesti o dichiarazioni compromettenti «in modo che non possa più con suo honore ritirarsene»). Frequenti gli accenni alla vicenda (e al crescente malanimo tra Francesco e Antonio Barberini) in Testi, per es. 782, 785 («Il Cardinal Antonio applica daddovero a far fazione da sé»), 817 ecc. Paolo Fieschi il 26 novembre 1637 si rallegrava prematuramente con Antonio: «riconosce la Francia nella Protetione di Vostra Eminenza l’argomento della sua buona fortuna, como per aponto gliene augurai il principio all’hora quando se ne promosse il pensiero. Et io che per obligo di gratitudine sono doppiamente tenuto all’una et all’altro...» (BAV, Barb.lat. 10038, c. 47).

[4] BAV, Barb.lat. 8003, lettere di Chavigny ad Antonio in cui si parla ripetutamente della promozione di Mazzarino (vedi nota seguente). L’ambasciatore veneto a Roma, Giovanni Nani, accenna più volte alla «inclinatione particolare del Cardinale Antonio verso la buona fortuna di Mazzarini» (ASVe, DAS, Roma 115, n. 81, 1° ottobre 1639), ma anche alla scarsa benevolenza di Francesco nei suoi confronti: «vive Mazzarini con perplessità et titubazione grandissima d’animo, conoscendo le sue fortune et le sue speranze poste sopra la bilancia d’una incerta contingenza et per questo rispetto intendo che anco il Cardinale Antonio fortemente s’appassiona disgustandosi che il fratello, anco per altro poco amorevole a Mazzarini, abborischi tanto l’essaltazione d’una creatura di lui, né prende animo di scoprire al Papa liberamente tutti i suoi sensi, per non esser tassato di troppo partiale alla Francia», ma anche per evitare «di venire ad aperta rottura con Barberino col quale stima partito dannoso a se stesso et alla Casa far prorompere apertamente i privati disgusti» (ASVe, DAS, Roma 115, n. 84, 8 ottobre 1639; cfr. la relazione al Senato del luglio 1640 in Barozzi Berchet, Roma, p. 33). Già anni prima Fulvio Testi aveva notato che «essendo Mazzerino l’anima d’Antonio» doveva per ciò stesso fare i conti con l’ostilità di Francesco (Testi, 847, 29 luglio 1634 e passim). A proposito della promozione Nicoletti, VIII, in un foglietto incollato sulla c. 590, ha annotato: «Mi disse il Signor Cardinale Barberino che gli Spagnuoli furono causa che Mazzarino fosse fatto cardinale perché per voler essi il cardinalato per l’Abbate Peretti fu nella promotione incluso Mazzarino, quale per altro havevano per nemicissimo della Corona et egli tante volte erasi doluto che da Spagnuoli venisse perseguitato a morte». Sulla promozione di Mazzarino vedi Blet 1964 e 1965 (pp. 11-43). Sulle insistenti pressioni a favore di Peretti («irreconciliabile per antichi e nuovi disgusti con la Casa e la persona sua [del Cardinal Barberino]»: Barozzi Berchet, Roma, p. 33) da parte della Spagna e dell’Impero vedi tra l’altro le lettere di Celio Bichi a Francesco Barberini in BAV, Barb.lat. 8940, cc. 60 sgg. e la corrispondenza di Ottaviano Raggi con il Senato di Genova. L’arroganza con cui la Spagna aveva trattato a Roma anche questa questione fu largamente sfruttata dalla propaganda francese (vedi per esempio “A noi altri vassalli…”). In fatto di arroganza, per la verità, la Francia non era da meno.

[5] Sul ruolo del maresciallo d’Estrées quale consigliere di Odoardo vedi quanto riferiva a Roma da Venezia il nunzio Vitelli (BAV, Barb.lat. 7722, cc. 47, 22 marzo, 74 e 77, 5 aprile 1642: «Il suo consiglio intendo che è il peggiore che sia appresso il Duca, fondato sulla mala intentione di lui, massime che non ve n’è altro. Dicono che nella Corte il Segretario Gaufrido secondo consigliero sia in concetto di miglior Gramatico che Politico»). Siri, Mercurio, II, 1647, pp. 236-237 nega che d’Estrées fosse l’ispiratore delle bizzarrie di Odoardo e gli attribuisce anzi una funzione moderatrice sul Duca: il tutto ha però l’aria di una difesa d’ufficio. Nella Corte di Parigi, come scriveva a Venezia Girolamo Giustinian, «tutta la colpa [dell’affare di Castro] vien addossata a [..] d’Etré» (ASVe, DAS, Francia 97, 283v, 5 novembre 1641). Chavigny, che pure era stato suo protettore, non esitò a riconoscere con il nunzio Grimaldi «il malgoverno del Duca, attribuendo al Marescial d’Etré buona parte de suoi imprudenti consigli» (ASV, Segr. Stato, Francia 91, Cifre del nunzio Grimaldi, c. 26, 20 aprile 1642). Nel novembre del 1641 il Re aveva scritto al Duca di Parma per esortarlo a trovare un compromesso con il Pontefice «non riguardando a quello che gli potesse esser rappresentato in contrario dal Marescial d’Etré». «Espressione che», commentava Giustinian, «dovrebbe distruggere ogni fondamento di credito al detto Marescial appresso il Duca». Richelieu, riferiva sempre Giustinian nel marzo del ‘42, era «esasperato» per l’atteggiamento di d’Estrées, e ne meditava la rovina. Da questa, pare, lo salvarono «principalmente […] gli ufficii del Cardinal Mazarini, tutto che tenuto dal Marescial d’Etré per capital nemico». Era uno dei modi che Mazzarino usava per disarmare i suoi nemici. Quando Mazzarino prese il posto di Richelieu d’Estrées ebbe un momento di «mauvaise humeur». «Il croyait», spiega Bonnefon, «que le Cardinal lui gardait rancune de quelques froissements et aussi de son coup de tête [a Parma]; mais il n’en était rien e l’un des premiers soins de Mazarin fut au contraire de servir et d’obliger le maréchal», forse per i suoi legami con i Vendôme (Estrées, p. XV sgg). Qualcosa di simile avvenne con Odoardo Farnese, con la differenza che questi, come si vedrà, continuò fino alla fine a respingere le profferte di amicizia di Mazzarino. A detta di Giustinian «i maggiori discorsi c’habbi havuto monsiù di Leona a Parma sono stati sopra l’emulationi e inimicitie private tra il Cardinal Mazarini e il Marescial d’Etré, dal quale il Duca medesimo è stato impresso che Mazarini le sia nemico e contrario in questa Corte, il che è tanto lontano dalla verità che non v’è alcuno che presti maggior aiuto al Duca che Mazarini». Si è visto, riferiva l’ambasciatore in dicembre, «haver Etré, per l’inimicitia che tiene con Mazzarini, fatti uffici appresso del Duca di molto pregiuditio a Mazzarini, ond’è parso che il detto Duca, invece di tenerselo benevolo in queste congionture, sapendo ch’è istrumento potentissimo e confidentissimo del Signor Cardinale, si sia anzi mostrato verso di lui poco ben inclinato e rinnovata la memoria d’alcuni passati disgusti». Odoardo rischiava così di dirottare su Roma le simpatie dei due più potenti uomini di Francia. Ma Richelieu nella sostanza non mutò atteggiamento sull’affare di Castro e neppure la promozione di Mazzarino lo indusse a schierarsi con i Barberini; quanto a Mazzarino, ormai cardinale, «si mostra ben disposto a gli affari del Duca non ostante le poco buone dimostrationi del Duca verso la sua persona e l’esser stato promosso ultimamente dal Papa». Morto Richelieu, l’affare di Castro si mescolò inevitabilmente, ma, per la balordaggine di Odoardo, in modo assai stravagante, con gli intrighi per la sua successione. Odoardo era esasperato per la crescente autorità di Mazzarino, aveva interrotto ogni comunicazione con lui, faceva di tutto per screditarlo a Corte, parteggiava apertamente per i suoi avversari. Questi però, Beauvais in testa, nel conflitto in Italia erano propensi a schierarsi piuttosto con Papa Urbano che con Odoardo. Secondo la testimonianza di Girolamo Giustinian, Mazzarino fu il solo «quel che sostenne nel principio della Reggenza le parti della Lega contr’il rimanente tutto del Consiglio ch’aderiva a Beovès, come quello che all’hora spuntav’in gratia e ch’era interessato con Roma e per così dir inchiodato ne i vantaggi del Papa per passion del Capello a cui aspirava». Il che non impedì a Odoardo, quando finalmente si fu in vista della pace, per lui tanto favorevole, di fare un ennesimo sgarbo a Mazzarino, coinvolgendovi il riluttante d’Estrées, che ormai aveva cambiato atteggiamento nei confronti del ministro: «Scrive il duca alla Regina, al Signor Duca d’Orleans, ma non già al card. Mazarini», riferiva Giustinian il 19 aprile, «persistendo nelle durezze di non voler seco corrispondere anzi mostrando diffidenza e avversione. Il Marescial, non vedute lettere del Cardinal Mazarini, è restato dubbioso se debba presentar le lettere alla Regina et al Signor duca d’Orleans et esseguir gl’incarichi ingiuntigli dal Duca, dubitando d’incontrar nel disgusto di Mazarini, quasi adherendo e cohoperando alle dimostrationi della poca stima che fa quel principe del cardinale». Il Duca di Parma, confermava Giustinian il 26 di quel mese, nelle sue lettere fa il superbo, «come se trattasse da Re a Re del pari, il che qui non piace e indicia qualche cosa d’occulto». Non mancavano infatti segni di un riavvicinamento di Odoardo alla Spagna, ma già «il professarsi nemico d’un primo ministro che regge con potente mano la machina d’un governo e che possede tutti i carratti della confidenza è un voler staccarsi da quell’unione». Era opinione comune in Francia che Odoardo «habbi nuovi torbidi in testa e chimere di sconvolger l’Italia, che quel Prencipe non sappi riposar che nell’inquietudine» (ASVe, DAS, Francia 97, 413r, 422v, 31 dicembre 1641 e 7 gennaio 1642; Francia 98, cc. 12-13, 8 marzo 1642, Francia 101, cc. 95r-v, 107v, 108v-109r, 19 e 26 aprile 1644). Cfr. in ASP, CFE, Francia 24 i dispacci di Ranuccio Monguidi del 1° maggio e di Leonardo de Villeré del 18 maggio 1643: a quest’ultimo Mazzarino aveva con la consueta placidità dichiarato, in risposta alle scortesie di Odoardo, che il Duca facesse pure «qualunque dichiarazione contro di lui, egli non cessaria mai di servirla e di procurar con tutti gli effetti [...?] di rientrare nella sua buona grazia». «La potenza di Mazarino», scriveva a Odoardo Leonardo de Villeré il 22 luglio 1643, «si a[ttri]buisce alla somma bontà della Regina et alla debolezza del vescovo di [...Beauvais] il quale mentre ha potuto non ha voluto [...?] et ora che lo brama non può cacciar [...Mazzarino?] dalla Corte avendoli dato tempo di acquis[ta]re merito e credito apresso la Regina. Io li diedi a tempo i più arditi e più salutari consegli per lui, come sa il Signor Monguidi, ma suo danno egli non li seppe pigliare».

[6] Valfrey, pp. 56, 109 e Chéruel, I, pp. 211-243 a cui si rifà Carignani, pp. 701-702. Sulla missione in Italia: Valfrey, pp. XV-XVII, 21-23. Nicoletti, IX, cc. 129r., 184v-187v. A Parigi si era pensato prima che a Lionne allo stesso Mazzarino, (che però non poté muoversi dalla Francia per il cattivo stato di salute di Richelieu e per i torbidi in Corte) e, prima ancora, a mons. Paolo Fieschi. Nato nel 1579 in una famiglia di grandi tradizioni ma di non larghissimo patrimonio, Paolo Fieschi era, come il più giovane fratello Ugo, un autorevole esponente del partito francese a Genova. Inviato straordinario della Repubblica a Parigi nel 1619 aveva conservato uno stabile legame con quel governo da cui riceveva una pensione. Nel 1639 si era trasferito a Parigi, dove per incarico del Cardinal Barberini aveva trattato con Richelieu diverse questioni che interessavano la Santa Sede (tra cui quella del congresso di Colonia) in sostituzione del Nunzio Scotti, a cui, «in tempo delle turbolenze con Roma», ossia in coincidenza dei dissapori nati a Roma tra d’Estrées e Barberini, si negavano le udienze. Accolto «con molta benignità» a Corte, nel 1640 aveva ottenuto il vescovato di Toul, a lungo disputato tra il candidato papale, abate di Bourlemont, e quello regio, abate di Saint Nicolas. Al possesso della diocesi, tuttavia si opposero una serie di oscure difficoltà. Paolo Fieschi era portato ad imputare il declino della sua fortuna in Francia agli incarichi affidatigli da Francesco Barberini (BAV, Barb.lat. 7962, cc. 19-91, Lettere di Paolo Fieschi a Francesco Barberini, in particolare, a cc. 81-82, la lunga lettera da Narbona del 6 aprile 1642). È molto probabile però che quel declino fosse invece da collegarsi a un maldestro tentativo di scavalcare Mazzarino nella corsa alla porpora. L’episodio veniva ricordato a Mazzarino, il 3 maggio del 1658, dal genovese Giannettino Giustiniani, uno dei suoi agenti in Italia: «dal ‘40 [...] all’hora che Vostra Eminenza, non per anco cardinale, fu rispedita in Piemonte per confermarvi i Prìncipi di Savoia nell’aggiustamento da lei accordato, [...] una lettera procacciata dal signor abbate Paolo Fieschi dalla secreteria del Re alla santa memoria di Urbano Ottavo, contenente che quando la Santità Sua l’havesse creato cardinale la maestà del Re non solo l’haverebbe veduto volontieri, ma ne gli haverebbe conservata obligatione, suscitò negli animi de parenti et amici di Vostra Eminenza qualche timore che detta lettera pottesse pregiudicare alla sua nomina per li susurri che ne uscirono dalli gabinetti e pontificio e del Cardinale Barberini». Giannettino rivendicava il merito di aver sventato la manovra, perché, trovandosi a Parigi ed essendo stato avvertito da Michele Mazzarino, ne aveva tempestivamente informato Richelieu: «il quale gradì infinitamente l’uffitio lodando il mio zelo per l’interesse dell’amico, mi parlò della finezza del signor Fieschi aggiongendomi che gli haveva ingannati e che non era mai stata intentione né del Re né sua di pregiudicare alla nomina di Vostra Eminenza, ch’egli non ci lasciava mai i suoi amici, ch’haverebbe subito spedito a Roma (come fece l’istesso giorno) e che assicurassi li parenti di Vostra Eminenza di stare di buon animo, e che lo scrivessi a Lei stessa ancora, come feci, conservandone le sue lettere di ringraziamento» (AAE, CP, Gênes 10, cc. 140-143; cfr. cc. 378-379. Su Giannettino Giustiniani vedi Marinelli 2000). A raccomandare Paolo Fieschi a Roma era stato Chavigny, che dovette affrettarsi a rimangiarsi i buoni uffici interposti: BAV, Barb.lat. 8003, cc. 41-42, Chavigny al Cardinale Antonio, 4 gennaio 1640. Paolo Fieschi morì nel 1643 e Giannettino Giustiniani tentò di ereditarne in Genova ruolo e benefici: «Doppo la morte di monsignor vescovo di Toull, non ha la Francia in questa nostra città servitore più antico né più divoto e consentami Vostra Eminenza che dica né tampoco più utile di me perchè è troppo noto a tutto il mondo. Ve n’ha bene chi ha de favori più efficaci». (AAE, CP, Gênes 4, cc.7-9, 14 gennaio 1944). Lettere di Paolo Fieschi al governo francese in BNP, mss. fr. 4075, 1621-1639 e AAE, CP, Gênes 1-3, 1624-1643. Ma sulla documentazione parigina vedi le indicazioni di Repetti, pp. 200-202. L’Hermite, Ligurie ricorda Ugo Fieschi ma non fa parola di Paolo.

[7] Pastor, XIII, p. 888 accusa la Francia di aver «incoraggiato» il Farnese nell’impresa che i suoi stessi alleati, Venezia e il Granduca, gli sconsigliavano e cercarono sino all’ultimo di scongiurare. Che la diplomazia francese lavorasse su più ipotesi, compresa quella di una guerra generale in Italia, è fuori di dubbio; che si dedicasse a fomentare le mattane di Odoardo è invece una tesi polemica, frutto forse della sindrome da accerchiamento che si era impadronita della Curia romana all’indomani della mossa del Duca: vedi a questo proposito Morone, passim (che però nella ribellione di Odoardo al Papa vedeva soprattutto lo zampino del Viceré di Napoli). Nani, VIII, p. 701: «ma veramente, oltre all’esborso di qualche poco danaro a sconto di sue pensioni, altro la Francia non contribuì a favore del Duca che offitii...».

[8] Nicoletti, IX, cc. 310 sgg. Francesco I si disperava per il credito che alla Corte di Vienna si dava alle ragioni dei Barberini: «E vaglia il vero è cosa da far perdere l’intelletto il vedere che dopo tante sperienze cotesti ministri si lascino ingannare, e chiari della pessima intenzione de’ Barberini si lusinghino di nuovo con una vana speranza di poter guadagnarli [...]. Egli è tempo d’aprir gli occhi, di far coraggio sulla necessità e di provar i mezzi rigorosi già che i piacevoli non han giovato. Siamo sul fine del pontificato. Poco si può perdere. Molto si può guadagnare»: Testi, 1578, 19 settembre 1642.

[9] Testi, 1587 sgg. Visto lo stato dell’Italia e visti i successi di Odoardo, il Duca si era deciso a «tentar ancor egli la sua fortuna» abbandonando repentinamente la politica di pace tenacemente perseguita con la missione romana del marchese Montecuccoli. Quanto al convegno di Castelgiorgio, Francesco I era convinto, non a torto, «che i fini de’ Barberini siano di tirar in lungo con apparenze artificiose. Stante ciò», scriveva al suo rappresentante a Firenze, Vincenzo Donnellini, il 14 ottobre, «saressimo di parere, per rompere i loro disegni tempestivamente, di prevenirli con la nostra uscita in campagna, portandoci col nostro esercito su lo Stato Ecclesiastico risolutamente». Per farlo, però, gli occorrevano almeno seimila fanti, mentre di suoi non ne aveva che quattromila. Bisognava pertanto chiedere al Granduca l’autorizzazione ad usare i reparti toscani mandati a Modena nell’agosto a sbarrare il passo ai papalini. Al Granduca si doveva far credere che l’obbiettivo della progettata campagna fosse limitato: «Non si pretende d’occupar Ferrara», gli si doveva dire, «ma di far solamente qualche motivo onde nell’aggiustamento debbia di necessità trattarsi anche degl’interessi della sua Casa per rihavere se non il tutto qualche parte almeno dell’usurpato da Preti». Bisognava poi assicurarlo che di ogni eventuale acquisto territoriale sarebbe sempre stato lui, d’intesa con la Repubblica di Venezia, «l’arbitro principale». In realtà Francesco I pensava proprio e in tempi brevi («in punto che la luna non rende lume alcuno» ossia per la prossima luna nuova) di impadronirsi di Ferrara «con una furiosa scalata nottetempo». L’impresa, come è noto, abortì (per la delazione, si sospettò, di un modenese che poi riparò a Roma dove ancora diversi anni dopo era «perseguitatissimo dal marchese Francesco Montecuccoli»: ASV, Segr.Stato, Venezia 72, c. 126, nunzio Cesi, 17 marzo 1646), ma a trattenere Francesco dall’uscire in campagna furono soprattutto le reticenze degli alleati. Parlando col marchese Guicciardini aveva dovuto convincersi che il Granduca «inclina poco alla nostra mossa e molto meno a concederci della sua gente». Quanto a Venezia, «bisogna con questa benedetta Republica andar temporeggiando e pigliare a poco a poco quel che si può, già che non s’ottiene quel che si dovrebbe» (ASM, CA, Firenze 64; tra il materiale relativo ai negoziati di Castelgiorgio vedi il dispaccio ducale a Vincenzo Donnellini, 14 ottobre 1642; la minuta dell’istruzione a Fulvio Testi dell’ ottobre 1642; la minuta ducale a Fulvio Testi del 14 ottobre 1642). Cfr. Nani, VIII, pp. 711-712. Il manifesto delle rivendicazioni del Duca e la risposta del Contelori in Ristretto. Cfr. Siri, III, 1652, pp. 105 sgg. e 122 sgg. Sugli obbiettivi del Duca di Modena: Simeoni, pp. 23-36, 44-45.

[10] ASV, Fondo Spada 8, c. 163. Sulle trattative di Castelgiorgio vedi soprattutto V.Spada, XXI, 13-33.

[11] V.Spada, XXI, 25-29. Da Acquapendente Odoardo informava il conte Scotti, suo rappresentante a Venezia, della conclusione degli accordi il 17 ottobre 1642: ASP, CFE, Venezia 517, fasc. agosto-dicembre 1642. Sul ruolo di Virgilio Spada vedi anche Siri, Mercurio, II, 1647, pp. 1365-1366, Nani, VIII, p. 708 e Aringhi, pp. 62-66 (che non dice nulla però circa l’effettiva paternità dell’accordo).

[12] Della Torre, Historie, II, pp. 687 sgg. Cfr. “Trovandosi il principe Matthias...” e V.Spada, XXI, 22-24 («i calici che si sarebbero bevuti ne i primi otto giorni», scrive Virgilio a proposito della disponibilità dei papalini al negoziato, «si recusavano nel fine»).

[13] Della Torre, Historie, II, p. 694 (ma sugli «artificii de’ preti» vedi anche p. 689). I Barberini, scrive ancora Raffaele Della Torre, p. 700, per rispondere alle accuse della Lega «danno alle stampe un manifesto sotto nome del Cardinale Spada, nel quale però o per imprudenza o stretti dall’evidenza di qualche argomento aspergevano di colpe non leggiere il Signore di Lionne con obligarlo ad una risposta assai strincata e prudente». Siri, Mercurio, II, 1647, pp. 1557 sgg. pubblica il manifesto Spada e il contromanifesto Lionne. Vedi Valfrey, p. 80 sgg. Non mancavano però, aggiunge Della Torre «quelli i quali, senza confondere la causa de i disconcerti col disconcerto medesimo non lasciavano senza diffesa i modi tenuti dal Cardinale Barberino»: Della Torre, Historie, II, pp. 700-702. Vale la pena di osservare, però, che il Cardinale Spada riteneva davvero «servitio della Santa Sede la restitutione di Castro» e che, secondo la testimonianza del Padre Virgilio, il Cardinale Antonio, tenuto sempre al corrente dello sviluppo delle trattative, era d’accordo con lui: il dissenso era dunque nato a Roma, in Francesco o, come ritengo più probabile, nello stesso Urbano (V.Spada, XXI, 25; sulle difficolta opposte da Roma all’accordo ivi, 29-33).

[14] Della Torre, Historie, II, pp. 696-699. Francesco I d’Este era ansioso di intraprendere un’azione nel Bolognese o nel Ferrarese per rinverdire le vecchie aspirazioni della Casa con l’acquisto di qualche buon pegno territoriale, ma anche e forse soprattuto per allontanare dal suo stato le truppe che vi stanziavano con i consueti rovinosi effetti: Simeoni, pp. 43-44. L’irritazione di Francesco I verso i Veneziani, «che pieni di mille rispetti e studiando troppo ne’ libri della loro somma saviezza, nulla facevano di rilevante per la causa comune e nulla permettevano di fare a lui, che intanto languiva senza azione alcuna sotto il peso delle sue e delle straniere milizie» è ricordata più volte da Muratori, Antichità, pp. 548-549, 552.

[15] Della Torre, Historie, II, p. 695. Sulle divergenze di vedute tra alleati circa gli scopi della lega vedi tra le molte scritture a questa dedicate il Discorso intorno i fini della lega de’ Principi d’Italia contro i Barberini steso nell’anno 1642 in risposta alla Repubblica di Venezia, in De Castro, pp. 216-220. L’irritazione dei Veneziani per la conclusione degli accordi di Castelgiorgio era stata subito percepita dal conte Scotti, al di là della soddisfazione ufficialmente espressagli dal governo: «Restano questi Signori molto disgustati che sia stato terminato il tutto senza esser ponto stata nominata la Republica», aveva scritto al Duca, «e che il deposito si faria in Modena mentre la Republica non ha voluto acetarlo senza presienza de Colegati, quali intanto habiano agiustati tra essi qualche loro particolare interesse con il Papa [...] et sospetandosi che vi siano altri capitoli secreti et altri particolari che tengo saria [inopportuno?] il scriverli» (ASP, CFE, Venezia 517, 25 ottobre 1642). La Repubblica, scrive Nani (VIII, p. 707), «più a piacimento degli altri che per concetto che riuscisse il negotio» mandò al convegno Angelo Correr, che per altro arrivò quando gli alleati si erano già accordati tra di loro.

[16] Simeoni, p. 39; Valfrey, pp. 80-81; Borri, pp. 56-57.

[17] Della Torre, Historie, II, p. 697.

[18] Alla fine dell’ottobre 1642, con un ritardo di molti anni rispetto alla scadenza normale, si era riunito a Genova il Capitolo generale dei Domenicani. Gli Spagnoli vi arrivavano prevenuti, temendo, non a torto, di «qualche pregiudicio al Padre Niccolò Ridolfi loro partialissimo e non ben veduto a Palazzo» che era generale dell’ordine. In effetti Ridolfi fu deposto e più tardi processato per presunti abusi di potere (lo si accusò, tra l’altro, di aver illegittimamente scomunicato il Padre Giacinto Lupi). Il Cardinale Antonio, che era protettore dell’ordine, aveva designato a presiedere il Capitolo il Padre Michele Mazzarino provocando le proteste e infine la secessione dei partigiani di Spagna. Questi elessero generale uno spagnolo, mentre i rimasti gli contrapponevano lo stesso Mazzarino. Urbano, in quel momento «tutto rivolto a dar gelosia a Francesi» (Della Torre, Historie, II, p. 703) non convalidò l’elezione di Mazzarino e annullò gli atti del Capitolo. Vedi A. Vigna, Il capitolo generale dei Domenicani celebrato in Genova e Cornigliano Ligure, Genova, 1897. Su Ridolfi Dictionnaire de Spiritualité, Paris, 1988, vol. XIII, pp. 666-7, s.v. Ridolfi Lucantonio di A. Duval e ora Francesca Müller Fabbri, Domenico de Marini archevêque d'Avignon (1648-1669): un renouvellement dévotionnel et artistique en Provence baroque in Les domenicains et l'image. De la Provence à Gênes, XIII-XVIII siècles, "Memoires Dominicaines" VII, Nizza, Serre Editeur, 2006: il genovese Domenico De Marini, dal '48 arcivescovo di Avignone, fu stretto collaboratore di Ridolfi e ne seguì fortune e sfortune. Sulla clamorosa vicenda del Ridolfi circolarono naturalmente parecchie scritture: vedine un paio in BUB, ms. 1058 (1692) cc. 289 sgg. e soprattutto vedi le carte in BAV, Barb. lat. 3206 (Monumenta Ughelli), cc. 107-207 e BAV, Barb. lat. 8792 (diverse lettere del Cardinale Verospi a Taddeo Barberini del 1642-43). Sulle accuse rivolte a Ridolfi: BAV, Ottobon. 2434, cc. 333-456, Come fosse introdotta la causa del Padre R.mo Ridolfi con le risposte alle narrative de Brevi delle commissioni d’essa et alle inventioni d’alcuni particolari delitti, inc: “Doppo che del mese di febraro dell’anno 1642…”. Il Cardinale Verospi, a cui in assenza di Antonio Barberini era stata affidata la cura dell’ordine domenicano, era la persona deputata ad occuparsi della questione di Michele Mazzarino, ma l’ambasciatore francese aveva sdegnosamente rifiutato di rivolgersi a lui sostenendo che «li Ministri de’ Prencipi grandi non sono obligati a trattare che con il Papa e Cardinal Nepote» (BAV, Barb.lat.8941, c. 72r, Celio Bichi a Francesco Barberini, 18 novembre 1642). Niccolò Ridolfi, già favorito di Urbano (aveva avuto un ruolo informale ma non secondario tra il 1632 e il 1634 nei tentativi di trovare un’intesa tra le due corone cattoliche: Leman 1920, pp. 107-108 e 343-344), si era alienato le simpatie del Pontefice, secondo Nicoletti, VIII, cc. 606 sgg., «per il genio grande che haveva [...] nelle cose secolari e de’ Principi». In realtà, legato ai Ludovisi e al partito asburgico, Ridolfi era soprattutto colpevole di aver combinato, d’intesa con il Padre Muzio Vitelleschi, generale dei Gesuiti, e all’insaputa dei Barberini, il matrimonio di Olimpia Aldobrandini con Paolo Borghese, figlio di Marcantonio, principe di Sulmona. «Venendosi per questo matrimonio ad unire insieme tutta la robba della Casa Aldobrandina e Borghese», scriveva Ottaviano Raggi al governo di Genova il 24 luglio 1638, «suddetto figlio sarà il primo Signore d’Italia, essendo che passerà scudi 200 mila d’entrata di buonissimi effetti». Sul matrimonio Celio Bichi aveva avuto un colloquio con lo stesso Principe di Sulmona, che non era bastato però ad allentare la tensione tra le due famiglie (BAV, Barb.lat. 8941, c. 15, 13 agosto 1638). Nicoletti (VIII, c. 608) non nega che i Barberini avessero qualche mira sull’eredità Aldobrandini, ma in una nota al suo testo assicura che nella faccenda del matrimonio «non mostrò il Papa risentimento per interessi della sua Casa, ma perché troppo s’ingrandiva la Borghese con diservizio della Sede Apostolica». Su Marcantonio e Paolo Borghese vedi G. De Caro in DBI. Sui matrimoni di Olimpia Aldobrandini (e il ruolo di Padre Ridolfi, del Vitelleschi e del futuro card. Cecchini): Ademollo, Gigli; Fumi, pp. 302-305; Fosi-Visceglia, Visceglia 1998, pp. 78-80. Sul notissimo incidente del vescovo di Lamego vedi Nicoletti, VIII, 575 sgg; Ademollo, Questione (che usa largamente le annotazioni dell’Ameyden); Pastor, XIII, 750-751; l’incidente è naturalmente ricordato in “Prese mons. Gio Batta Spada...”, e raccontato in diverse scritture (“Com’è noto al mondo...”, “Doppo la creatione…”, “Mercordì sera che fu il giorno...”, “Questo secolo nostro...” ecc.) per lo più riportate da Siri, Mercurio.

[19] Cito dalla copia in BAV, Barb.lat. 3206 (Monumenta Ughelli), c. 111; vedilo anche, per es., in BUB, ms. 1058 (1692) n. 85. Cfr. Nicoletti, VIII, cc. 614-616.

[20] «Il Papa non ne ha mostrato senso più che tanto e ha risposto solamente che dirà ancor egli le sue ragioni in Francia»: Testi, 1609, 25 novembre 1642. «Mostrando i papalini di farne poca stima»: Della Torre, Historie, II, 704. Quanto allo sdegno di Fontenay per la mancata convalida di Michele era, a giudizio di Raffaele Della Torre (II, 735-736), mera piaggeria, da cui un tipo come Mazzarino non poteva farsi commuovere. Cfr. Pastor, XIII, pp. 751-752. A p. 890 Pastor ribadisce la sua convinzione che Mazzarino fosse tutto dalla parte del Farnese e che Fontenay fosse rientrato a Roma «apparentemente per una mediazione pacifica, in realtà per accendere anche più la lotta». Le ragioni di Mazzarino per ricercare la pace in Italia in Siri, Mercurio, IV, 1655, I, pp. 449 e 711. Fontenay, II, pp. 307 sgg. conferma la volontà di pace della Francia.

[21] Nani, VIII, p. 726. Come avrebbe dichiarato senza mezzi termini a Gerolamo Bon, segretario dell’ambasciata veneta a Roma, Urbano si era deciso a nominare Michele Mazzarino Maestro di Palazzo solo per amor di pace «potendosi considerare che fuor di questi riguardi publici il Padre Mazarini non era certamente capace dell’ufficio» (ASVe, DAS, Roma, 120, c. 22r, 14 marzo 1643). Sull’avversione del Papa e del Cardinale Barberini per Michele Mazzarino vedi Malgeri, p. 24.

[22] Vedi per es. in Mazzarino (Chéruel) la lettera di Giulio a Michele Mazzarino del 14 febbraio 1643. Anche i Barberini facevano affidamento sulla devozione di Mazzarino alla Casa: fiducia eccessiva, a giudizio di Nicoletti (IX, c. 510) il quale conferma tuttavia la solidità del legame di Mazzarino almeno con il Cardinale Antonio (Nicoletti, VIII, c. 590r).

[23] Della Torre, Historie, II, p. 736.

[24] Dell’incontro dell’inviato del Duca di Modena, Giminiano Poggi, con l’abate Bagni, avvenuto in dicembre a Panzano, nel palazzo del marchese Malvasia, c’è sia l’istruzione del Duca del 19 novembre sia la relazione del Poggi dell’8 dicembre: nel caso che Francesco I fosse riuscito a indurre Odoardo a un accordo, Bagni prometteva per conto del Papa grosse ricompense, non esclusa qualche concessione sulle terre contestate di Comacchio. Urbano era ora preoccupato per l’invadenza francese in Italia così come lo era stato in precedenza per quella spagnola e accarezzava l’eterna idea di una lega di Principi (Venezia in primo luogo) che, diceva l’abate Bagni, «riparerebbe a tutti i pericoli e danni iminenti»; un eventuale conflitto per Parma avrebbe invece segnato (come in effetti segnò) la rovina ultima del sistema italiano, del quale, ovviamente, la “riputatione” del Papa, gravemente lesa dal comportamento di Odoardo, era elemento centrale e fondante (ASM, CA, Bologna, 9; cfr. Siri, Mercurio, III, 1652, pp. 3-6). «Ogn’uno», disse Urbano, ancora nel marzo del ‘43, al rappresentante di Venezia a proposito delle ingerenze francesi, «doverebbe pensare a ciò che più importa e considerare che i Francesi si avanzano sempre più in questa provincia» e «che i maggiori travagli ch’ha patiti [la Repubblica] le son venuti dai Francesi perché infine gli Spagnoli in tanto tempo che sono in Italia non han fatto altro male che di dar gelosie». Il comportamento di Venezia, che proclamava di voler la pace d’Italia e non faceva niente per ottenerla, ricordava a Urbano il Cardinal Rusticucci che «pativa assai di podagra e che malamente po[teva] sopportare il moto della carrozza. Gridava sempre al suo cocchiere che andasse piano a segno che questi talhora fermava totalmente la carrozza. All’hora il Cardinale diceva: così va bene». Alla fine però, sentenziava Urbano, «bisogna muoversi, perché chi non si muove non fa camino» (ASVe, DAS, Roma, 120, c.24, 14 marzo 1643).

[25] Nicoletti, IX, cc. 413v-414r. Cornelio Spinola era console di Genova a Napoli fin dal 1621; si dimise dalla carica il 17 luglio 1647. La sua corrispondenza con il governo di Genova (cfr. Vitale, p. 98) è ricchissima e di grande interesse. Il suo pregio non è sfuggito molti anni fa a Villari.

[26] «Il Signor card. Casanata ce n’ha ultimamente somministrata la notizia»: Nicoletti, IX, c. 414 (la relazione del Casanate è in BAV, Barb.lat. 4729, cc. 458-459, incipit: “Essendo accaduto in Roma…”). Sulla missione del Casanate Nicoletti ritorna a cc. 630 sgg. Il Vicerè nell’informare la Repubblica di Genova, tramite Cornelio Spinola, della missione del Casanate aveva indicato come scopo il «trattar con Sua Santità l’unione dell’armi» (ASG, AS, 1903, c.165v, 28 novembre 1642) proposta dal Pontefice (cfr. Nani, VIII, p. 712). Alla Casanatense il primo volume della corrispondenza di Girolamo (BCR, ms. Cas. 312) contiene lettere di e a Mattia, il cui soggiorno romano, durato oltre sei mesi, non vi è testimoniato che da biglietti d’occasione e di cortesia (un paio di scritti relativi alla guerra contro i Barberini e alla Lega dei Principi sono conservati nel ms. 2442). BAV, Barb.lat. 8750, lettere di Ottaviano Raggi, c. 69 (copia di lettera di Cornelio Spinola dei primi di ottobre: «Il signor Vice Re non ha persona propria costì et quelli Signori Cardinali che vi sono non so se approvassero che il Signor Vice Re facesse prattiche tali senza ordine espresso di Sua Maestà et le stesse ragioni militano circa il mandare altri costì essendo Sua Eccellenza ministro e non signore assoluto come sono cotesti signori di Roma che possono mandare a lor gusto senza haverne da dar conto») e 71 (Ottaviano Raggi a Francesco Barberini, 13 ottobre 1642: «non so vedere solo che il Sig. Vice Re si risolvesse mandar subito in agiuto delle armi della Chiesa 800 o 1000 cavalli che come non potrebbero dar gelosia per il contrario ne sarebbero di grande agiuto et solievo etiamdio che seguisse l’agiustamento [...]. Se l’Eminenza Vostra aprova ch’io lo proponga come da me al Signor Cornelio lo farò nel modo si conviene»). Dell’opinione che il Padre Alberto Morone aveva del Viceré e del suo ruolo nella faccenda di Castro si è detto; quanto al Casanate, lo giudicava «più procuratore del Duca di Parma che agente di S. M. Cattolica» (Morone, c. 14r). Sul Reggente Casanate vedi D’Angelo e soprattutto Panetta (i cenni biografici a pp. 16-23; per i mss. di Mattia p. 15), che però non fa cenno della missione romana.

[27] «Le negoziazioni del Casanata alla Corte di Roma riescono inefficaci perché cessata ne’ Barberini l’imminenza del timore, cessa la volontà della quiete»: Testi, 1617, 23 dicembre 1642. Secondo la relazione citata nella nota precedente (“Essendo accaduto in Roma…”) il Cardinale Barberini nel sollecitare un intervento del Viceré aveva la sola preoccupazione di «assicurarsi le spalle», senza voler giungere davvero a un accordo: «dopo pochi mesi fu conosciuto che non si voleva finire questo negotio se non colle armi».

[28] Della Torre Historie, II, p. 740. Nani, VIII, p. 727.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
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