Ritorno in armi 3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

Turchi e Barberini

Quando a Roma era incominciata la persecuzione contro i Barberini, in Oriente era incominciata la guerra del Turco contro Venezia. Le due vicende erano del tutto scollegate, ma finirono con l’intrecciarsi per l’evidente connessione tra il pesante coinvolgimento di Innocenzo nella prima e il suo pressoché totale disimpegno dalla seconda.[1] Venezia, come era tradizione, esigeva dal Pontefice, in nome della comune lotta contro il Turco, aiuti in uomini e denaro che però Innocenzo si guardò bene dal concedere, trincerandosi dietro l’esaurimento dell’erario, di cui erano responsabili i Barberini, e dietro la necessità di munire adeguatamente lo Stato Ecclesiastico contro le minacce francesi, di cui, ancora una volta, erano fatti responsabili i Barberini.
All’affacciarsi della minaccia turca si era subito ripreso a parlare a Venezia e a Roma di una lega delle potenze cristiane. Qualunque cosa potesse significare, la lega antiturca tornava ad essere un tema della politica veneziana. Era un tema ricco di suggestioni ideologiche e carico di retorica e come tale aveva largo corso anche a Roma. Ma una seria azione dell’Europa cristiana contro il Turco avrebbe richiesto la conclusione della pace o almeno di una tregua tra le potenze cattoliche e su questo punto le posizioni di Venezia e di Roma divergevano nettamente. A Venezia l’emergenza, che legava alla fine della guerra tra le Corone la salvaguardia della presenza veneziana in Oriente, rinvigoriva l’ormai tradizionale impegno per la pace. A Roma, invece, lo scarso interesse per le vicende in Oriente era il riflesso dell’infastidito scetticismo con cui il Pontefice accoglieva qualsiasi discorso sulla pace o sulla guerra in Europa.[2]
Ad Angelo Contarini che lo sollecitava ad adoprarsi per la riconcilizione generale o almeno a nascondere il suo favore per una delle parti in lotta, Innocenzo aveva risposto nel giugno del 1645 che «saria un gettar l’opera senza frutto, perché in somma, e lo disse a meza bocca, si vuole il torbido e Dio perdoni a chi è causa di queste mosse del Turco». Innocenzo pensava, si capisce, a Mazzarino con ciò confermando il suo passivo allineamento (persino nei temi di propaganda) alle posizioni spagnole.[3] Quanto alla lega antiturca, era un’idea che al Papa piaceva moltissimo. Non però nel senso desiderato dai Veneziani.

«Io, Ecc.mi Signori», scriveva Contarini, «nel progresso di questo ragionamento ho scoperto che il Papa desiderarebbe che tra la Santità Sua et la Republica si promovessero progietti di lega in apparenza contro il Turco, ma in essenza per altri suoi fini, e di appagar il Mondo e di acquistare concetto presso l’universale con queste sole tratattioni, lasciando poi che il caso e la fortuna guidasse il resto, per levarsi anco dalla noia che prova in udire questi impulsi e queste rimostranze, con mira forse di addossar la colpa del non far niente alle difficoltà che si promovessero nella trattatione e maneggio di questa lega».[4]

Fu appunto quello che accadde, senza neppure che alla formale conclusione di una lega si arrivasse. Mentre persino il pericolo turco diventava un pretesto per colpire i Barberini, come nel caso, già ricordato, dell’interramento del Porto di Santa Marinella, le trattative per un’azione congiunta in Levante delle flotte di Venezia, Genova, Toscana, Stato Pontificio, Regno di Napoli e Religione di Malta, portarono via senza costrutto quasi tutta l’estate.[5] Ma intanto la necessità di armare le galee pontificie permetteva a Innocenzo di rifiutare a Venezia l’aiuto richiesto di poche centinaia di fanti.[6] Quando poi la flotta, al comando del principe Ludovisi, affrontò finalmente il viaggio in Levante, non combinò nulla, secondo copione.[7] Conclusa la missione, il Papa promise di fare di più e meglio il prossimo anno, ma nel frattempo prese ad argomentare in vari modi l’inutilità o l’impossibilità di un più ampio armamento pontificio.[8]
La “strettezza” di Innocenzo, i suoi atteggiamenti elusivi o dilatori, il suo evidente disinteresse per la pur doverosa politica di contenimento del Turco finirono, a detta dell’ambasciatore veneziano, per destare qualche scandalo anche nel collegio dei cardinali, in cui, tra l’altro, stava crescendo l’irritazione per il progressivo esautoramento di cui era oggetto da parte del Pontifice.[9]

«Li cardinali se ne risentono e dimandano l’un l’altro quello si fa, ma non tengono più alcuna auttorità essendosi levata la communicatione non solo come si soleva delle cose più gravi come questa in concistoro, ma ancora la congregatione della Consulta di Stato che pure si faceva al tempo di Papa Urbano, di maniera che non sono uditi li loro pareri se non in privato et alcuno di essi meco si è doluto di tale novità».[10]

Contarini osservava che da quando era stata avviata la revisione dei conti camerali il Papa «sta molto attento a questo negotio, sempre eccita che si faccia e che si proseguisca con ogni sollecitudine» e con ogni evidenza «molto più pensa a questo e dimostra calore, che a proveder alla guerra contro il Turco».[11]
Ma anche il conflitto con i Barberini era una scusa: nell’autunno del 1646 quella questione sembrava bene o male avviata a conclusione, ma, contro tutte le speranze di Venezia, Innocenzo non diede alcun segno di volersi impegnare più di prima nella guerra in Oriente o nella ricerca della pace in Europa. Dell’attacco turco a Sebenico al Papa non importava nulla.[12] «L’ambassadeur de Venise a beau representer la voisine perte de Suda et du reste de la Candie», aveva scritto Bidaud a Francesco Barberini il 17 settembre, «l’on ne songe rien moins qu’à les secourir, mais bien plus a renforcer les Espagnols».[13] E sulla necessità di soccorrere Candia,

«tutti questi Signori cardinali», scriveva Contarini, «ancorché per altro pieni di grandissimo zelo caminano con gran risserva, per dubio di non dare disgusto, havendomi liberamente detto il cardinale Rocci che non hanno più auttorità, che non vuol il Papa più ascoltarli, lamentandosi che da se stessi l’hanno perduta».[14]




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[1] Anche il Pastor ha dovuto riconoscere il grave scadimento dello spirito di crociata nell’«indeciso ed estremamente economo» Innocenzo. A ragione Pastor lo difende dall’accusa, che pure dovette apparire plausibile, ch’egli fosse d’accordo con i progetti di pace tra la Spagna e il Turco, il che sarebbe equivalso a un tradimento, visto che per un papa la lotta al Turco era dovere d’istituto. Ma se non di tradimento, si trattava quanto meno di colpevole indifferenza e, nei confronti di Venezia, di omissione di soccorso. Di certo è difficile parlare, come fa il Pastor, di «benevolenza». Gli aiuti concessi a Venezia dal Papa (e che il Pastor elenca in un imprudente tentativo di alzarne il valore) erano di una esiguità irridente. E c’era una buona manciata di cinismo nella battuta che nel luglio del 1650 Innocenzo dedicava ai danni sofferti da Venezia a causa del Turco: «il Papa disse che anch’egli li deplorava, ma che forse Iddio voleva con ciò punire la Repubblica per le molte infrazioni dell’immunità ecclesiastica» (Pastor, XIV, I, pp. 267, 268-269, 270, 272). Che a Roma si guardasse con compiacimento ai guai di Venezia è l’impressione che anche G. Benzoni in DBI ricava dalla lettura della corrispondenza del nunzio Cesi. Massimo Petrocchi, La politica della Santa Sede di fronte all’invasione ottomana, Napoli, Libreria scientifica editrice, 1955 non mantiene, almeno per questo periodo, quel che il titolo promette; Innocenzo X è nominato a p. 88.

[2] Nella corrispondenza degli ambasciatori di Venezia a Roma c’è una ricca raccolta di battute del Papa in questo senso. Cfr. per es. ASVe, DAS, Roma 122, cc. 210 (22 aprile 1645), 334-335 (1° luglio 1645), 440-441 (5 agosto 1645, sui negoziati di Munster), 515-517 (16 settembre 1645), Roma 123, cc. 39 sgg. (4 novembre 1645) ecc. Vedi anche il bel ritratto di Innocenzo X fatto da Alvise Contarini nella sua relazione al Senato («Il rappresentar poi le massime politiche colle quali si governa Innocentio decimo è impresa che racchiude in sé dell’arduo et del malagevole e più l’accerteria chi solamente dicesse creder che il mondo si governi a caso...»: Barozzi Berchet, Roma, p. 73. Analoghe osservazioni in Filippo de Rossi, Istoria giornale della Corte di Roma scritta negl’anni 1653 e 1654 da FDR dedicata a Scipione suo figliuolo, che ripete come di Innocenzo il detto «segue il tutto a caso et il mondo si governa da sé»). Disarmante e, come sempre, fermissimo nel non fare, dire o pensare niente che potesse dispiacere al Papa era il Segretario di Stato, Panciroli. Ad Angelo Contarini, che nel giugno del 1645 lo esortava ad adoperarsi perché alla Francia fosse concessa qualche soddisfazione, replicava: «Ma sodisfarla in che? In far cardinale Mazarini? Il Papa in somma è rissoluto di non poter far questa gratia, né per conscienza, né per altri riguardi mondani; già se n’è impegnato et chi gli starà a canto ben si guarderà di parlargliene. Col ricevimento dell’Ambasciator di Portogallo? Perché seguan fatti d’arme in Roma e più s’accendino gl’animi alla vendetta che alla reconciliatione?» e così via (ASVe, DAS, Roma 122, c. 315r, 24 giugno 1645). Sull’intensificarsi delle sollecitazioni veneziane sul Pontefice per un meno irritante atteggiamento nei confronti della Francia e dei Barberini si vedano anche i dispacci del nunzio Cesi in ASV, Segr. Stato, Venezia 69, per es. cc. 19r (24 giugno: «la materia del Turco dà gran fastidio a questi Signori [...]. Desiderarebbono una unione generale, ma che almeno vi fusse una sospension d’armi tra le Corone»), 110r (16 settembre: «hora questi Signori vedendo che non si può haver aiuti grossi se non da Francesi rappresentano e desiderano che Nostro Signore li andasse compiacendo di qualche cosa»), 190-191 (4 novembre), 212 (11 novembre 1645), 228-230 (18 novembre 1645) ecc. Il progetto della Sospensione dell’armi per mare fu presentato dall’ambasciatore di Venezia a Lionne il 3 giugno: il testo in ASVe, DAS, Francia 102, c. 197).

[3] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 245v-246v, 10 giugno 1645. Il sospetto che i Francesi fossero responsabili dell’uscita del Turco tornava insistente nelle conversazioni del Papa: «alle quali voci e divolgationi il Papa non si rende difficile di prestar fede, ove all’incontro per mortificare queste vane imposture non v’è chi impugni la difesa della riputatione della Francia fra cardinali altri che Grimaldi e fra rappresentanti de Principi ch’il solo ministro di Vostra Serenità» (ivi, c. 468v; cfr. anche c. 379v).

[4] ASVe, DAS, Roma 122, c. 247, 10 giugno 1645. Alle insistenze del Papa per stringere una formale lega con Venezia (a cui intanto faceva credere alle altre potenze interessate - Spagna, Genova e Toscana - che si stesse lavorando) Contarini ebbe a rispondere il primo luglio (ivi, c. 337) che «trattar di lega era un raccomandare la cosa all’eternità». Che ciascuno, piuttosto, facesse la sua parte, mettendo subito a disposizione quel che aveva da offrire: soldi, soldati, galee. Anche il nunzio a Venezia, Angelo Cesi, si mostrava assai più attivo nel far la guerra ai Barberini e a Mazzarino (e tuttavia non abbastanza da accontentare il Papa: vedi G. Benzoni in DBI) che non al Turco: ASV, Segr. Stato, Venezia 69 e 72 Cifre del Nunzio Cesi, 3 giugno-30 dicembre 1645 e 6 giugno-11 agosto 1646. Angelo Cesi, vescovo di Rimini, era stato nominato nunzio a Venezia nel gennaio del 1645. Il card. de’ Medici, non so per quali ragioni, cercò di impedirne la nomina indicandolo all’ambasciatore veneto a Roma come «troppo pontuale ne’ puntigli ecclesiastici, per non dire di zelo assai indiscreto» (ASVe, DAS, Roma 122, c. 51).

[5] Pastor, XIV, I, pp. 266-267 dà tutta la colpa dei ritardi della spedizione alla Religione di Malta, che tergiversava, e alla Repubblica di Genova, che poneva «condizioni inadempibili». Naturalmente anche per Guglielmotti, VIII, p. 19 il tempo perduto era tutto da ascriversi alle «nojose dispute» tra gli alleati.

[6] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 400, 408, 410, 25-29 luglio 1645. Per quanto riguarda gli aiuti in denaro, l’atteggiamento del Papa era, se possibile, ancora più elusivo. «Piacesse a Dio», si legge in una nota della Segreteria di Stato al nunzio Cesi  del settembre 1645, «che Sua Beatitudine si trovasse in stato di poterlo fare, ma è fin troppo nota l’impossibilità nella quale si è ridotta la Sede Apostolica». E il 4 novembre: «Al Boccalino» - ossia Aurelio Boccalini, figlio di Traiano, a cui la Repubblica si era rivolta perché premesse sul nunzio - «Ella rispose conforme la sua solita prudenza et circospettione et si vede chiaro che chi non è informato a bastanza della vera sosistenza degli affari ne ragiona più conforme alla propria inclinatione che accertatamente. Dei denari ve ne sono pochi per tutto e se cotesto Dominio lo prova, può ciascuno credere che in stato peggiore si ritrovi lo Stato della Chiesa» (ASV, Segr. Stato, Venezia 70, cc. 22 e 30; ma vedi anche, per le giustificazioni del nunzio in Consiglio, ivi, Venezia 72, disp. del 10 e 17 febbraio 1646).

[7] Con l’ambasciatore veneto il principe Ludovisi si mostrava, agli inizi di luglio, ansioso di agire, attribuendo la colpa dei ritardi ad oscuri intrighi di Palazzo: «Sebene Ludovisio non s’è specifficato», riferiva Angelo Contarini, «s’è nondimeno così aperto in via di confidenza meco, che ben facile ho potuto scoprire simili ostacoli derivare e dalla cognata e da Panziroli, quella per fuggir le spese, questo per schiffar gl’impazzi e disturbi» (ASVe, DAS, Roma 122, c. 348). In ottobre Ludovisi abbandonò l’armata, sollevando la disapprovazione generale: «li più prudenti non hanno mai approvata questa ellettione di Lodovisio in Generale», scriveva il nuovo ambasciatore veneziano a Roma, Alvise Contarini, «perché sendo lui prencipe nepote di Papa non conferiva agl’interessi suoi che stasse longamente lontano dalla Corte, che perciò bisognava fosse uno desinvolto e sbrigato da simil interesse e più pratico del navigare» (ASVe, DAS, Roma 123, c. 22). «Vi è però chi considera non possi essere che senza ch’egli habbi havuti ordini, almeno generali, se ne sia tornato» (ivi, 37v). Che quello di comandare armate di mare non fosse il suo mestiere lo riconosceva lo stesso Ludovisi che disse di non volerne più sapere (ivi, c. 82). La scrittura di un tale Vecchiarelli, dipendente del principe Ludovisi, cercò di gettare sui Veneziani la responsabilità del fallimento della missione (ivi, cc. 86-87): è possibile che a lui si debba anche la Relatione del viaggio fatto dall’Eccellentissimo Signor principe Ludovisio comandando le squadre di Nostro Signore, Malta, Napoli e Fiorenza contro le forze del Turco nel Regno di Candia (incipit: “Risoluta la santità di Nostro Signore...”) di cui vi è copia in BAV, Chig., O.I.7 cc. 79bis-117. Sulla missione in Levante: Guglielmotti, VIII, pp. 27-37.

[8] ASVe, DAS, Roma 123, cc. 41-44, 71, 77, 79, 94, ecc. Quando l’esito dell’impresa di Orbetello era ancora incerto il duca Savelli ebbe a dire che come ambasciatore imperiale condivideva l’interesse del suo sovrano a bloccare il Turco, ma come luogotenente generale dell’armi ecclesiastiche non poteva non condividere il rifiuto del Papa di concedere aiuti ad altri finché Spagnoli e Francesi si fossero affrontati alle frontiere dello Stato: ASVe, DAS, Roma 124, c. 74, 28 luglio 1646. La ritirata francese da Orbetello avrebbe dunque dovuto consentire a Venezia di ottenere qualche aiuto, ma i pamphiliani erano, naturalmente, di diverso avviso. Secondo Carafa per l’inerzia del Papa bisognava prendersela solo con i Francesi «perché danno gelosia di ritornare con l’armata sopra Piombino». Il cardinale Sforza sosteneva le scelte del Papa argomentando che «questi Francesi sempre minacciano di tornare con nove forze sotto Orbitello e nei mari di Toscana; che bisogna ben vedere di reprimerli e guardarsi da loro; che hanno qui dato la sua parte di paura mentre si credeva che niuno potesse resisterli et havevano quasi ridotto il Papa a darli carta bianca; essersi hora veduto che non sono così potenti come venivano decantati e quando si voglia si troverà modo di difendersi e di resistere» (ivi, c. 100). Quanto a Venezia e al Turco, la linea era sempre la stessa: non muoversi, non far nulla.

[9] ASVe, DAS, Roma 123, c. 46r, 4 novembre 1645: «Per sua natura il Pontefice è tenace e ristretto a segno tale che alcuni cardinali se ne scandalizano». Persino i suoi congiunti lo criticavano con crescente asprezza. Il cardinale Giustiniani, almeno con l’ambasciatore di Venezia, si mostrava indignato dell’indifferenza del Papa per il pericolo turco: tali sentimenti, confessava, «non sono degni di un Christiano non che di un capo della Chiesa; non essere meraviglia se li virtuosi patiscono e restano oppressi e se si sentono delle stravaganze; che per questo egli non va a Pallazzo, perché essendo libero non può lasciar di dire quello che sente» (ivi, c. 93v, 11 agosto 1646). A proposito del carattere del Papa e della sua tendenza al rinvio, alla dissimulazione e alla doppiezza il cardinale Mattei confessò ad Alvise Contarini e a Pietro Foscarini «che egli era servitor suo et che haveva qualche congiontione con la sua Casa, ma che ricercato nel principio del suo Pontificato, confidentemente le disse che se egli haveva desiderio di ben reggerlo dovesse fare tutto diversamente di quello che haveva sino all’hora fatto per pervenirvi; che le soverchie riserve, le dilationi e le freddezze non eran punto a proposito per il buon governo della Chiesa e per sostenere la dignità della Sede Apostolica» (ivi, c. 243r, 3 marzo 1646). Sull’avarizia di Innocenzo Alvise Contarini riportava, tra le altre, voci circa l’irritazione che essa provocava in Camillo e, naturalmente, in sua madre: «ha havuto a dire il cardinal Panfilio a suo confidente che il zio dice di non haver denari ma che tiene un million d’oro nelle sue stanze e lo guarda senza volerlo spendere. Dona Olimpia vi aspira e ricerca si può dire ogni giorno denaro per sé lamentandosi che il Pontefice non ne dà quanto vorrebbe» (ASVe, DAS, Roma 123, c. 271v).

[10] ASVe, DAS, Roma 123, c. 73, 18 novembre 1645. Nel quadro dell’assolutismo papale la progressiva perdita di potere dei cardinali a beneficio del cardinal nepote, della Segreteria di Stato e dei capi delle congregazioni era fenomeno antico (ed oggi ben noto: vedi per es., dopo Prodi, Fragnito e Menniti Ippolito 1997 e 1999). Con Innocenzo, però, sovrano testardo ma indeciso, erano un po’ tutte le sedi ufficiali del potere - cardinal nepote, segreteria, congregazioni - a essere coinvolte in una generale perdita di autorità e prestigio rispetto a meno formali, più instabili e capricciose - perché del tutto private e personali - influenze.

[11] ASVe, DAS, Roma 123, c. 103v, 2 dicembre 1645.

[12] ASVe, DAS, Roma 124, c. 205r, 6 ottobre 1646.

[13] BAV, Barb.lat. 8013, c. 40r, 17 settembre 1646. Che Innocenzo parteggiasse per gli Spagnoli era fin troppo evidente, ma meglio di Bidaud credo che cogliesse la situazione il cardinale d’Este quando scriveva che a Roma «non si arma, né si dà aiuto a Viniziani, né si teme de’ Francesi poiché il Papa non è tanto spagnuolo che non sia per voltarsi, più tosto che spendere per difendersi, quando venisse l’occasione» (ASM, CP, 230, Rinaldo a Francesco I, 31 marzo 1646). «Questo è certissimo», scriveva Francesco Mantovani al Duca di Modena nel gennaio 1647, «che Nostro Signore non pensa punto al Turco, né alla pace publica et che solamente sta intento a vivere, a fare li fatti della sua Casa» e, aggiungeva, ma forse con minor fondamento visto il tortuoso configurarsi dei suoi affetti, «ad aggiustare il nepote, mentre molti tengono che l’abbia in somma abbominazione» (ASM, CA, Roma 244, 19 gennaio 1647; sulla politica del Papa pressappoco le stesse valutazioni ricorrono in altri dispacci, per es. in quello del 2 febbraio).

[14] ASVe, DAS, Roma 124, c. 262v, 8 dicembre 1646. Alla fine, scoraggiato, per «ragionar espressamente di questa guerra del Turco con Sua Beatitudine», Contarini si affidò ai buoni uffici di Paolo Maccarani, diventato «assai confidente» del Papa pel suo decisivo intervento nel negoziato Barberini (ivi, c. 273v, 15 dicembre 1646). Sugli aiuti del pontefice a Venezia vedi anche Nani, IX, p. 122: il Papa, scrive Nani, «preferiva le domestiche cure a più lontani pericoli»; e a pp. 321-322, riferendosi agli eventi del 1653: «queste private faccende incredibilmente distraevano l’animo d’Innocentio, il quale ancorché con tenerezza e con lagrime udisse dall’ambasciatore Niccolò Sagredo l’espressioni del rispetto della Republica, scarso ad ogni modo d’aiuti, solamente permise una leva di duemila fanti nello Stato Ecclesiastico...».


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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