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Le dicerie della Giusta statera e l'ambigua difesa di Troiano Maffei




Che Troiano fosse autore della Mal consigliata fuga del Cardinale Antonio era detto in una scrittura (che non sono riuscito a rintracciare, ma in cui doveva comparire in qualche parte e in qualche forma il termine “caritativo”) uscita in risposta alla stessa Mal consigliata e forse anche alla Giusta Statera e cioè, in quest’ultimo caso, dopo la metà di maggio. Era un’accusa che Troiano fortissimamente negava «havendo», come diceva, «altro in testa che fughe».[1] Troiano sosteneva anche di non intendersi «di scritture né di archivii», ma poi ammetteva di esser scrittore di professione. di star chiuso in casa a scriver vite di santi ed anzi, contro le volgarità della Giusta statera rivendicava l’eleganza, a suo dire nota a tutti, della sua penna.

«In mezzo a queste vociferazioni di scritture è rimasto in estremo mortificato Troiano in riguardo dell’avanzamento d’alcuni c’hanno voluto affermare esser suo parto la Statera de Cardinali, la qual voce lo ridusse a forzatamente piangere la sua mala fortuna. Oh Dio e non consideravano quei spensierati dicitori che la penna di Troiano non è totalmente inetta et in maniera ignorante c’havesse mandati fuori caratteri indegni anco di penna guidona, per il che si afflisse ugualmente del concetto havutosene che potesse scrivere con tanta malignità che si fusse dell’apprensione che scrivesse con tanta ignoranza».[2]

Nello sforzo di sottrarsi all’accusa di essere l’autore degli scritti incriminati, Troiano, menava botte a destra e a manca, se la prendeva con gli autori e i divulgatori di libelli infamanti e di «simili scartocci» di cui Roma era piena, mostrava di stupirsi della tolleranza loro accordata dalle autorità, chiamava in causa come protettori e mallevadori i cardinali Pamfili, Odescalchi, Trivulzio e, riportando la voce che faceva risalire ai cardinali Grimaldi ed Este e all’abate di Saint Nicolas la persecuzione di cui era vittima, suggeriva che appunto nel loro ambiente si dovesse cercare la maggior bestia che sia hoggi nell’arca del Mondo, ossia se non proprio l’autore della Giusta statera – non si capisce qui che cosa volesse intendere e a chi volesse alludere Troiano – almeno quel suo emissario, che aveva procurato loro (e poi offerto allo stesso Troiano) il manoscritto.

«Vi si ragiona vigliaccamente del Sig. Card. Trivultio, cugino della Principessa Doria Signora e Padrona di esso Troiano;[3] vi si parla del Sig. Card. Odescalchi con diceria degna di forca e pure questo cardinale vuole a Troiano per sua benignità ogni bene. Vi si vede sino il Sig. Card. Pamfilio in qualche parte tocco e pure è noto alla Corte quanto per sua propria elezione sia Troiano devoto alla sua Casa; et in fine vanno per quei righi sciocchi malamente nominati i maggiori padroni che Troiano habbia in Roma oltre l’esserne tirati in maniera che ogni giudicioso che non sappia Troiano potrà giudicarli usciti dalla maggior bestia che sia hoggi nell’arca del Mondo, come veramente ella è et è appunto colui che a i Signori Cardinali Este e Grimaldi et all’Abbate di S.Nicolas portò la sudetta Statera pagatacela da ogn’un di loro sei scudi, e che portandola a leggere al medesimo Troiano ce la rese subito, tanto nauseato dall’infamie che vi erano, quanto stomacato dalla compositura ignorante, non senza maraviglia havuta di quei Signori, che buttassero il danaro in simili scartocci».

Qui Troiano Maffei tornava a rivendicare la sua qualità di scrittore serio, responsabile, “erudito”:

«Almeno i caritativi havessero addossata a Troiano una scrittura degna di lui circa l’erudizione, mentre che si contentavano applicarli dicerie tanto infami contro i proprii suoi Signori, perché alla fine un bel detto, ancorché piccante, suole esser sofferto per il sale che seco porta. Hora a Dio così è piaciuto per mortificare qualche superbia che Troiano troppo insolentemente potesse haver nella sua penna. Ma nel medesimo tempo prega questi non chiamati giudici acciò si compiacciano decretar le materie con una previa discussione perché altrimente metteranno in obligo esso Troiano a mandar fuori le sue difese con offesa loro sempre che di lui con tanto discredito si ragionasse. I libri e le carte non acquistano il grido dal frontespizio datoli di falso autore perché buono, ma lo riceve dalla buona lettione degna di chi vorrà stimarsene inventore e vero padre che per altro per dispacciare i volumi pieni di sciocchezze bastarebbe improntarli con Aristotele, con Platone e con tali altri. Se Troiano componeva una Statera l’haverebbe fatta comparire pesante di ciò che toccava a gl’interessi de’ Prencipi, alle dipendenza de Cardinali et alle più intrinseche fattioni percioché potesse servire in un Conclave e non andar bestialmente vagando su i difetti personali anche bugiardi. Consideri chi ha sale in zucca la balordaggine del scrittore mentre che mostrandosi divoto del Sig. Card. Carrafa porta in scena il Sig. Principe suo fratello quasi che scemo, quando che l’introduce a ragionar con N.S.: 'Papa mio come sei bello, che Dio ti benedica' con simili altre bassezze degne del bastone e ponderi bene colui che conosce Troiano, se Troiano carica le sue carte con somigliante inchiostro. E pure Statera tanto indegna e tanto ignorante fu messa nella bottega di Troiano. Pazienza! Pazienza!»[4]

L’episodio di Tiberio Carafa che apostrofa il Papa in quel buffo modo ritorna più o meno simile in altri manoscritti, ma lo trovo solo in alcuni di quelli che sembrano testimoniare una versione della Giusta statera databile con relativa sicurezza al 1646 [5] e non è detto che si tratti proprio del testo di cui parla Troiano. Credo, anzi, di poterlo escludere. La frase attribuita a Tiberio non è esattamente la stessa. Di Trivulzio si legge che non era ricco e che, pur avendo diritto alla porpora come principe, i Barberini lo avevano costretto ad arrivarci per la costosa via della prelatura: il che non mi pare un ragionare “vigliaccamente”.[6] “Vigliacca” davvero era invece l’insinuazione che leggo in una versione più tarda della Statera:

«una sol cosa dispiace, che di lui si vadi mormorando, non so se sia il vero o pur da maligni gli venga attribuito, che per natura sia molto inclinato al vitio masculino».[7]

La “diceria” riguardante Odescalchi, poi, lo dice «soggetto di mediocre intelligenza» e «di bel tempo» che, dopo aver dispendiosamente ma senza profitto corteggiato Francesco Barberini, aveva finalmente ottenuto la porpora per intercessione di Donna Olimpia a cui aveva fatto omaggio di «ogni splendidezza d’argento e d’oro»: in sostanza, vi si legge, «il capello a questo Cardinale costa molto caro».[8] Pesante diceria, certo, ma che toccava più Donna Olimpia che l’Odescalchi e che non mi pare propriamente «degna di forca», visto che l’acquisto per denaro della dignità cardinalizia, così come quello dei titoli nobiliari, era prassi comune, né taciuta né particolarmente biasimata. Sull’Odescalchi in altre versioni della Giusta statera compaiono giudizi assai più pesanti. Ad esempio, in un manoscritto posteriore all'ottobre 1647, ma che potrebbe derivare da un modello del ’46, ci sono allusioni ai suoi costumi sessuali, che, secondo gli standard del tempo, possono senz’altro giudicarsi “degne di forca” (e penso che Troiano volesse proprio riferirsi a qualcosa del genere).[9]
La sola ipotesi possibile, a questo punto, è, mi sembra, che fin dalla sua prima comparsa la Giusta statera circolasse in versioni diverse. Che gli autori fossero più d’uno? Che lavorassero su tavoli paralleli per una clientela diversificata? E per propria iniziativa o per mandato di qualcuno? E in questo caso per mandato di chi? Tutte domande legittime ed anzi doverose, ma che forse possono avere una risposta adeguata solo nella constatazione – ottimamente ripresa e argomentata non molto tempo fa da Luciano Canfora – che in definitiva di una scrittura – e soprattutto, aggiungo io, di una scrittura come questa, clandestina, sfacciatamente partigiana, pericolosamente diffamatoria – l'unico vero autore è il copista che, a suo rischio e pericolo, la scrive o trascrive e trascrivendola riscrive. Come si è visto, di copisti, qui, ce n'è una schiera.[10]



[1] «Mesi sono uscì fuori una scrittura chiamata la mal consegliata fuga del Cardinal Antonio e benché molti dicessero che fusse opera di Troiano erravano assai. [...] Troiano non mai sognò di applicar la sua penna a somiglianti trattati, havendo altro in testa che fughe. Alla sudetta scrittura fu risposto ragionandosi caritativamente (come dicono) anche poco bene del Principe vivente e con tutto ciò non si è veduta vendetta, né fattasi diligenza per saperne l’autore»: ASR, Trib. Crim. Governatore, 400, cc. 831v; cfr. BAV, Chig. I.III.87, cc. 392-293.

[2] BAV, Chig. I.III.87, c. 397. Sotto il nome di Troiano Maffei non ho finora trovato né vite di santi né altro. Qualche dote letteraria Troiano doveva pur averla se, come scrive Mimma de Maio, cit. (che utilizza, con il Fuidoro, Ottavio Beltrano, Breve descrittione del Regno di Napoli, Napoli, Beltrano, 1640, e Antonio Giliberti, cit.), era conosciuto come uomo di lettere ed era associato a diverse accademie. Di lui Giliberti ricorda un «Discorso, recitato in Roma nell’Accademia degl’Indefessi, ed ivi pubblicato per Ludovico Grignani 1647».

[3] Il Cardinale Teodoro Trivulzio era vedovo di una cugina della Principessa Doria. Nel 1615 aveva sposato Giovanna Maria Grimaldi, figlia di Ercole I° di Monaco e di Maria Landi, sorella di Federico, Principe di Val di Taro. La Principessa Polissena Maria Landi, figlia di Federico e quindi cugina di Giovanna Maria, aveva sposato nel 1626 Gio Andrea Doria, Principe di Melfi, morto nel gennaio del 1640 quando era Viceré di Sardegna.

[4] BAV, Chig. I.III.87, cc. 397r-398r.

[5] BUG ms. C.I.3, p. 675; ritrovo l’episodio in ASR, SV 32, c. 13v e in ASV, Fondo Pio 3, c. 19r. Non c’è invece in BMP ms 1659 e in BMP ms 1660, il cui testo, come quello dei precedenti, risale certamente al ’46.

[6] BUG ms. C.I.3, p. 705-706.

[7] BAV, Barb. lat. 5102, c. 59r.

[8] BUG ms. C.I.3, pp. 679-680. Sul valore di quei doni a Donna Olimpia le diverse versioni non concordano: quella a stampa, che però, come ho già detto, è assai scorretta, parla di 8000 scudi; quella in BAV, Barb. lat. 5102, c. 22v, dice, più credibilmente, 3000. In ASR, SV 32 c. 16r si legge che, ottenuta la porpora, Odescalchi «in segno di gratitudine le fè donativo, sì come dicesi, di una buona quantità de migliara di scudi per cedola bancaria»: nessun accenno ad argenti. In un manoscritto dell'Universitaria di Genova (BUG, ms. E.V.29), dove l’episodio del dono a Donna Olimpia di una credenza di argenteria è raccontato con dovizia di particolari, del futuro Innocenzo XI si dice che «non ha d’altra aura nel Colleggio che quello che gli dà la fortuna corrente di qualche spetie di privanza presso Donn’Olimpia, se bene questa si prevede che non terrà longamente voce in capitolo»: il suo splendido treno di vita era portato a dimostrazione di come «le ricchezze senza la virtù poss[a]no spesso più che la virtù stessa». Menniti Ippolito 2000, p. 369 non crede al ruolo di Donna Olimpia nella promozione dell'Odescalchi, né - mi pare - ai quattrini da lui sborsati per far carriera in Curia (una carriera, per altro, sino all'improvvisa promozione, non particolarmente brillante e tutta venale). Certo è che Benedetto apparteneva ad una ricca famiglia di mercanti, che all'azienda di famiglia aveva dedicato molte più cure che non agli studi e che quale ecclesiastico si era dimostrato soprattutto un oculato percettore di rendite e pensioni. La sua stessa vocazione religiosa appare alquanto dubbia: tarda, incerta, per nulla disinteressata; quale uomo di Curia fu senz'altro una figura sbiadita, priva di rilievo, e anche per questo, mi pare, la sua promozione al cardinalato risultò tanto inattesa da cogliere di sorpresa lo stesso interessato.

[9] BAV, Barb. lat. 5102, c. 23r: «Nel tempo della sua prelatura era molto dedito alli spassi, commedie et festini et è stato uno di quelli della Congregatione del Culiseo sendosi dilettato de omni genere musicorum». Il brano compare anche nella versione a stampa, ma epurato dell’accenno alla “Congregazione del Culiseo”. Forse le allusioni più pesanti comparivano nella pagina del ms. BCR 1248 che appare tagliata, probabilmente ad opera del Cardinal Casanate (cfr. la nota alla pag. 46 della Giusta statera).

[10] Luciano Canfora, Il copista come autore, Palermo, Sellerio editore, 2002.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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